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SEIJUN SUZUKI – Alle radici di un genere di Mirko Aretini

Negli anni ’60 Quentin Tarantino non esisteva, eppure oggi molte persone, spinte dall’ignoranza, lo incensano come se si trattasse del precursore e dell’inventore di un genere. Qualsiasi cosa tratti gangster e violenza con uno stile eccessivo e colorito, oggi viene catalogato come un film “tarantiniano”. Ebbene, negli anni ’60, quando per l’appunto il buon Quentin nemmeno era stato concepito, in Giappone Seijun Suzuki ha creato il genere pulp oggi tanto caro a molti cineasti e cinefili. E’ uno stile che è un mix tra Samuel Fuller e Jean-Luc Godard, ma con molti più morti e violenza, eccessivo, kitsch, talvolta abbraccia persino la pop art per l’uso dei colori e degli spazi molto ben definiti e rigorosi nel loro essere sovversivi. Suzuki è stato il primo a giocare in maniera così radicale con i generi, fino a crearne uno proprio. Sempre a caccia della sperimentazione sia espressiva che narrativa, non ha mai riscontrato grandi successi commerciali ed è forse questo l’unico motivo per cui il suo nome resta legato un po’ all’anonimato nei confronti del pubblico, eccezion fatta per qualche critico e i circoli appassionati del cinema di nicchia.
Perché è proprio di questo che si parla: i film di Seijun Suzuki sono un concentrato di cinema all’ennesima potenza. Il suo mondo è dominato da gangster in declino, Yakuza, spietati assassini sia di sesso maschile sia femminile, criminale sempre a caccia di qualcuno e a loro volta inseguiti da qualcun altro. Uomini e donne senza distinzione, l’elegia del gangster nell’universo di Suzuki non conosce confini né di sesso né di etnia, il tutto radicato ad una cultura di fondo profondamente giapponese. Tra feroci scoppi di violenza improvvisi e lunghi silenzi ai limiti del metafisico e del paradossale, si trovano momenti di azione folle e di corsa narrativa, che si contrappongono ad altri momenti di totale sospensione, come se lo spettatore si trovasse in due dimensioni parallele ben distinte ma integrate esplicitamente nello stesso universo. Tutto questo mantenendo costantemente quel respiro post-moderno di assurda genialità creativa. Senza parlare poi delle colonne sonore, sempre ricercate e di altissimo livello che sono come la classica ciliegina sulla torta. A tal proposito “Vagabondo a Tokyo” (“Tokyo drifter”, il titolo internazionale) rappresenta forse la summa più evidente ed esplosiva di tutto il cinema di Seijun Suzuki. Girato nel 1966 un po’ a colori e un po’ in bianco e nero, ancora oggi dopo oltre quarantanni stupisce e sorprende da ogni punto di vista facendo impallidire parecchi colleghi. In “Vagabondo a Tokyo” è racchiusa tutta l’essenza di Suzuki e, come è ovvio che sia, colpisce lo spettatore in maniera stupefacente. E’ la storia di un samurai moderno, uno yakuza, costretto suo malgrado ad abbandonare il suo padrone, un boss della mala pentito e stanco di quella vita, e a diventare dunque un ronin, un “vagabondo di Tokyo” appunto, ritrovandosi a combattere da solo contro vecchi amici e nuovi nemici. Un film di culto assolutamente fondamentale per comprendere davvero le radici del genere pulp e tutto ciò che rappresenta questo termine. “Vagabondo a Tokyo” ne è necessariamente uno dei padri naturali.
Se poi volete crearvi una personale trilogia gangster di Suzuki allora ci sono due altri film, un po’ inferiori al capolavoro sopracitato ma comunque sempre straordinari.
“La farfalla sul mirino” (1967) è la storia di una potente organizzazione criminale si scaglia contro un killer che ha mancato un ordine: non ha ucciso la vittima predestinata perché una farfalla si è posata sul mirino del fucile facendogli sbagliare obiettivo. L’unica via di salvezza per il killer sarà quella di uccidere ogni componente della banda. Pellicola incentrata saldamente sulla violenza e che delinea una serie di personaggi uno più cinico e bastardo dell’altro, senza speranza e redenzione, “La farfalla sul mirino” è stato il film che ha in qualche modo bandito commercialmente Suzuki dal cinema giapponese. All’epoca è stato infatti considerato un film troppo contorto per il pubblico (la casa di produzione fu mandata in fallimento). E’ una pellicola potente e dominata dal gran ritmo e dall’azione, peccato però che l’inseguimento tra i killer sia talmente combattuto da risultare assurdo e quasi noioso.
“Pistol opera” invece è un film nuovo, nel senso che è stato girato nel 2001 e segna il grande ritorno al genere per questo regista. La storia è incentrata su Miyuki, detta anche Gatta Randagia, che è la numero 3 nella gilda dei killer professionisti. Dopo essere stata attaccata a sorpresa da un membro del clan scopre che gli altri killer si stanno combattendo a vicenda per conquistare il primo posto. Non solo dovrà prepararsi a difendersi dunque, ma comincerà ad attaccare anche i vertici della gilda dei killer per cercare di diventare a sua volta la numero uno.
Prima ancora della moda dei due Kill Bill abbiamo quindi un film con un’eroina femminile vendicativa, spietata e sanguinaria e addestrata per uccidere. “Pistol opera” è forse il film più complesso dei tre, sicuramente il più sperimentale e azzardato per quanto riguarda lo stile registico e narrativo. Viene creato un connubio tra immagini e suoni di incredibile suggestione, si mantiene uno stile eccessivo dall’inizio alla fine, anche nei momenti più sincopati e silenziosi. E’ stilizzatissimo in tutta la sua confezione da qualsiasi angolatura si scelga di guardarlo, ma e’ un modo di fare cinema che contrasta brutalmente le classiche regole di mercato e rifiuta fotogramma dopo fotogramma il rischio di apparire in qualsiasi maniera commerciale.
Ennesima prova di forza espressiva da parte di Suzuki per un’esperienza visiva e sensoriale talvolta delirante, prepotente nel modo di porsi e per nulla semplice da interpretare. “Pistol opera” si può amare e odiare con la stessa facilità, tutto a seconda di come reagiscono i sensi dello spettatore, ma di certo stordisce e non puo’ lasciare indifferenti.

Mirko Aretini

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