Elegia per un merlo canterino: solamente Otar Iosseliani by Lirio Immoridinio

Elegia per un merlo canterino: solamente Otar Iosseliani

9 maggio 2016 · by · in ,

Manto nero lucente,
saltelli nervosamente e becchi
colto di sorpresa,
rivendichi il sole e i lucidi specchi
rivolto al cielo supplichi,
di avere altri battiti…

 Non sembrava prendere troppo sul serio la matematica, il giovane Otar.
La sua dedizione allo studio vacillava solo a ogni inizio di primavera, al soffio del primo scirocco.

I buoni risultati ottenuti al conservatorio di Tbilisi in pianoforte e composizioneavevano riportato un po’ di calma in famiglia, ma non potevano di certo placare gli appetiti e le curiosità di un giovane vitale e un po’ irrequieto.
Mosca, città dinamica, moderna, centro culturale del paese, con la sua prestigiosa facoltà di matematica lo attendevano.
Si dimostrò, anche in quel nuovo contesto, un ottimo studente, mettendosi in mostra e vincendo persino un importante borsa di studio, la “Newton”, seconda solo a quella che portava il nome del leader supremo Iosif Stalin. Fruttò ben 400 rubli, utili in una città così tentacolare, piena di tentazioni e dalla vivace vita culturale .
Lasciò la facoltà dopo 4 anni, a un passo da una comoda laurea. A fargli cambiare strada fu la consapevolezza che il suo lavoro e quello di altri studenti e professori della facoltà era a servizio dell’esercito e della crescente disfida con il mondo occidentale: eravamo del resto nel pieno di una logorante “guerra fredda”.

Infatti periodicamente veniva reclutato, insieme ad altri studenti, i più promettenti, per interminabili sessioni di calcolo in posti segretissimi e sorvegliati a vista.
Era frastornato, impaurito dalle conseguenze, ma già consapevole di non voler assecondare in nessun modo il potere, soprattutto quello militare.
In un primo momento scelse la facoltà di architettura. Ma proprio nella hall del bellissimo palazzo dell’Università statale di Moscache era stato inaugurato appena un anno prima, notò un bando di concorso per l’ammissione agli esclusivi corsi del VGIK (Vserossijskij Gosudarstvennʹìj Institut Kinematografii), l’Università statale di Cinematografia. Fu una folgorazione.
Il cinema era una delle sue passioni. A Tblisi, in una saletta nel quartiere Avlabari, non troppo distante dal conservatorio, passava il suo tempo libero. Amava molto il cinema di Boris Vasil’evič Barnet, un autore colto e sofisticato che lo aveva impressionato con quel tocco leggero, raffinato, con le sue commedie ariose e suoi drammi ben strutturati .
Film come, Devushka s korobkoy (la ragazza con la cappelliera), Moskva v Oktyabre (Mosca in Ottobre), Okraina (Sobborghi) furono per lui formativi.
Vinse un agguerrito concorso ed entrò a pieno diritto in facoltà.

Sotto la guida di un maestro della cinematografia sovietica, come Aleksandr Petrovič Dovženko cominciò a visionare centinaia di film. Oltre quelli dei maestri immortali Vertov, Pudovkined Ėjzenštejn, aveva il privilegio di guardare anche pellicole di altre cinematografie mondiali, che il regime non sempre distribuiva nelle normali sale cinematografiche .
Ebbe modo di vedere i lavori di John Ford, Ernst Lubitsch, Jean Renoir, Marcel Carnè, Jean Vigo, Luis Buñuel, Max Ophüls, Jacques Tati e René Clair.
Il cinema e le suggestioni che sapeva scatenare, erano un arma perfetta usata dal regime sovietico per la propaganda e per l’educazione delle masse.
Sin dagli albori della scuola, i talenti creativi, avevano carta bianca per sperimentare ogni via possibile, ogni forma, ogni nuovo linguaggio.
Quella facoltà formava oltre che registi e sceneggiatori, anche e soprattutto montatori, direttori della fotografia, tutte le professionalità necessarie.
E nelle sale di montaggio dove nacque l’innovativo “effetto Kulešov”, si plasmavano i talenti del domani : Iosseliani era già uno di loro.

Briciole sul tavolo, banchetto,
insinuo qualche ragionevole dubbio
e mi diletto, scrutando oltre, vigilo sul tetto
con un gran balzo, sfido
disegno traiettorie con un filo
amico mio, labile sibilo
folta piuma, color nero vivido…

Dopo qualche difficoltà iniziale decise di affrontare il suo primo lavoro registico.
Girò in pochissimo tempo, Akvarel (Acquerello) un divertente cortometraggio, che narra di una coppia povera, con numerosa prole, in un contesto rurale; lui un perdigiorno ubriacone, lei provatissima massaia, che, a seguito di un litigio e una fuga da casa con relativo inseguimento, si ritrovano in un museo, colpiti entrambi da una sorta di sindrome di Stendhal al cospetto di un quadro che raffigura la propria umile casetta. Il regista si ritaglia pure un gustoso cameo, abitudine che porterà avanti negli anni a venire in molte pellicole.

Ancora studente viene ingaggiato dalla Gruzia Film, casa di produzione di Tblisi come documentarista. Il secondo lavoro da regista si chiama Sapovnela (Il canto di un fiore introvabile).
Una serie di sequenze di fiori e piante spontanee, custodite dall’asperità della natura e da uomini antichi, messe in pericolo dalla nuova agricoltura e dall’evoluzione sociale.

Ma è con Aprili (Aprile) che avrà il modo di mettersi davvero in gioco.
Il film che è di fatto un mediometraggio, narra le peripezie di una giovane coppia alle prese con la modernità e con la convivenza condominiale. Il film per il suo taglio sarcastico non piacque alla severissima censura, che lo boicottò e lo costrinse a un lungo stop. Lavorò per tre anni in una fabbrica metalmeccanica, come assemblatore; quella esperienza diede lo spunto per nuovo lavoro da documentarista.

Riprese i contatti con la casa di produzione georgiana, che gli commissionò Tudzhi (Ghisa), il resoconto di una infernale giornata di lavoro in una fonderia.
Il primo lungometraggio girato nelle campagne georgiane si chiama Giorgobistve (La caduta delle foglie). La storia di un amicizia, di un triangolo amoroso e della difficoltà a mantenere gli impegni in una società in crescente espansione gli valse i primi riconoscimenti internazionali: il premio FIPRESCI al Festival di Cannes e il premio intitolato a Georges Sedoul l’anno successivo.
Anche questo film fu preso di mira dalla censura.

Un altro documento di importanza straordinaria dal punto di vista etnologico prende il titolo di Dzveli qartuli simgera (Vecchia canzone georgiana).
Le immagini che ritraggono i paesaggi, tradizioni della civiltà contadina, la vita quotidiana, le feste, sono accompagnate da un coro, che in forma di mottetto ne descrive i passaggi e le suggestioni.

Solo tu sai l’esperienza del volo
rimanendo da solo
si contempla meglio il tramonto
il trionfo dei colori
i profumi, gli odori
la discreta bellezza dei fiori…

Nel giovane Guia, protagonista del film Iko shashvi mgalobeli (C’era una volta un merlo canterino) troviamo una sorta di alter ego del regista. Anarchico, irriverente, compagnone, donnaiolo, allergico ad ogni tipo d’impegno, si trova inevitabilmente a essere pedina di un destino che non si può aggirare o beffare. Con un astuto stratagemma, riuscì a eludere i tagli censori: scrisse due sceneggiature apparentemente identiche, una, quella presentata alla commissione, ne dipanava la trama in maniera lineare e schematica e l’altra, puntata sulla caratterizzazione dei personaggi, fu quella messa realmente in scena. I censori non si accorsero del potenziale eversivo del protagonista e neppure della poco velata critica al sistema e alle sue intricate trame burocratiche. Fu il film che consolidò la sua fama a livello internazionale.

Ancora una volta il contrasto tra la civiltà rurale e la piccola borghesia cittadina, il potere politico con la sua onnipresente burocrazia, sarà il filo narrativo di Pastorali (Pastorale).
Un quartetto di musicisti di Tblisi arriva in un paese della Mingrelia per prepararsi alla nuova stagione concertistica. I due mondi sembrano inconciliabili e pronti alla collisione, ma una giovane ragazza del paese, riuscirà a stabilire un punto di contatto.
La pellicola invisa ancora una volta dalla censura di regime, ebbe grosse difficoltà a circolare e ci volle molto tempo per avere garantita una distribuzione decente .

Arresosi all’evidenza dell’impossibilità di lavorare alle sue condizioni, prese la decisione di lasciare l’Unione Sovietica e trovò amici e casa a Parigi.

Fischio forte, quasi uno lamento e poi, nulla
il ramo patisce il grecale e mi culla
il pensiero vola lontano, macchia di salino il manto
volo radente, fatico, rimugino, mi stanco
salpo al mattino, chiaro di rugiada,
il becco asciutto e qualche rimpianto…

Iosseliani riuscì in poco tempo ad allestire una retrospettiva dei suoi film georgiani, grazie a importanti frequentazioni nel ricco panorama culturale parigino, riscuotendo subito interesse e apprezzamenti anche dalla severa critica.
Divenne amico del suo idolo Jacques Tati, che gli diede una mano fondamentale per conoscere e entrare negli intricati meccanismi dell’industria cinematografica francese.
Cominciò la sua nuova vita lavorativa nel paese che lo aveva accolto, con due piccoli documentari, che erano una sorta di omaggio alla città di Parigi, alla sua essenza e al suo immaginario.
Lettre d’un cinéaste, commissionato dalla Tv di stato e Sept pièces pour cinéma noir et blanc.

La sua passione documentaristica lo porterà ad affrontare un altro lavoro: Euskadi, un appassionante resoconto etnologico ed etnografico su una popolazione che sentiva vicina, quella basca. Il documento ben evidenzia la passione di Iosseliani per le feste popolari, le secolari tradizioni, la civiltà contadina, senza però condirle di enfasi e inutile retorica. Fu come un salto temporale all’indietro, un ritorno ai suoi primi lavori in Georgia .
Il passo seguente fu un altro lungometraggio, il primo girato completamente in Francia: Le favoris de la lune (I favoriti della luna).

Scritto a quattro mani con lo sceneggiatore Gérard Brach, narra delle peripezie e dei vari passaggi di mano di due preziose rarità: un raffinato servizio di porcellana di Sèvres, e un enigmatico ottocentesco nudo di donna.
Gli oggetti attraversano la storia, incrociano la vita di ladri, puttane, trafficanti d’armi, terroristi, coppie in crisi, fedifraghi, facchini, poliziotti; un vero campionario di umanità messa a nudo inesorabilmente. Sempre oscillante tra dramma, commedia e farsa, il film e il suo andamento, diventa rappresentativo di tutta la sua produzione, imprimendo, con il suo stile, un personalissimo marchio di fabbrica.
Il film fu premiato a Venezia con il Gran premio della giuria.

Con Un petit monastère en Toscane (Un piccolo monastero in Toscana) Otar Iosseliani ritorna alla forma documentaristica, raccontando la vita quotidiana di cinque monaci Augustini e di tutta la comunità del paese di Castelnuovo dell’Abate, piccolo borgo a poca distanza da Montalcino, nella provincia senese. Nello scandire i loro tempi, e i loro rituali, la camera ci racconta i tempi e i rituali di tutta la comunità. L’agricoltura, la concia del maiale, il vino, punto di eccellenza di quella zona, la caccia, la festa, lo stare insieme. Il sacro e il profano, perfettamente conviventi nei secoli di tradizione contadina, raccontati con garbo, leggerezza e curiosità. Il film si apre con una citazione didascalica di sant’Alfonso Maria de’ Liguori e si chiude con un altra didascalia che è di fatto un proposito di ritorno a filmare quei luoghi, quei rituali, quella stessa gente, allo scadere dei vent’anni: chi vivrà vedrà!

Pioggerellina che bagna le piume
dal coppo alla grondaia
sorella ghiandaia,
fratello gabbiano, andiamo
pane secco e seguitare,
un battito d’ali, scorgendo il mare…

Ritorna al lungometraggio con un film ambientato in Senegal.
Et la lumière fut (Un incendio visto da lontano). Il film narra lo sfortunato incontro tra gli abitanti di un piccolo villaggio a vocazione matriarcale e le esigenze commerciali delle nostre economie avanzate. La vita tranquilla, scandita solo dall’avvicendarsi del tempo e delle stagioni, verrà sconvolta dall’arrivo di alcuni operai addetti al disboscamento dell’intera area. L’abbattimento di un enorme Kapok, che vegliava gli abitanti da secoli, ne segnerà il disfacimento sociale. Verranno tutti accolti in città e un incendio ne cancellerà quasi completamente le tracce passate. Vinse anche per questo film il Gran premio della giuria a Venezia.

Una commedia dolce e amara sarà il lavoro seguente: La Chasse aux papillons (Caccia alle farfalle). Protagoniste due anziane cugine che si assistono vicendevolmente in un castello settecentesco nella campagna francese. Agnésvive relegata su di una sedia a rotelle e Solange si occupa dei suoi bisogni, intrattenendo al contempo relazioni umane e una vivace vita sociale. Assistono ai cambi perentori della storia dalle finestre del castello. Intorno a loro si muovono interessi. Un vicino tenta un intermediazione per far vendere la proprietà a facoltosi giapponesi. Agnésresiste alla proposta. Solo la sua morte porterà inevitabilmente a cambiare lo stato delle cose. Con l’intervento della sorella Helene che viveva in Russia, divenuta unica erede, e con la tragica morte di Solange, vittima di un attentato al treno che la portava in Germania, si arriverà al compromesso e al conseguente atto di vendita. Fine di un epoca e di quel piccolo mondo antico.
Anche a questo film fu assegnato il Gran premio della giuria del festival veneziano.

Ritorna al documentario con il monumentale lavoro per la televisione Seule, Georgie.
In 240 minuti, attraverso filmati d’epoca, suggestioni ed esperienze personali, ci racconta 2000 anni di storia, di lotte, di dominazioni straniere e di resistenza, del combattivo popolo georgiano. Girò per poco tempo anche nelle sale con una versione condensata in poco meno di 2 ore.

Attraversa quattro epoche distanti, Vano, protagonista del film Brigands, chapitre VII (Briganti).
Sarà temibile condottiero medievale, burocrate funzionario dell’Unione Sovietica, trafficante, clochard e musicante di strada a Parigi, testimone di una sanguinosa guerra civile nella Georgia post sovietica; in ogni passaggio temporale, il protagonista interpretato da Amiran Amiranashvili, sempre in balia degli eventi e dei mutamenti della storia è costretto, suo malgrado, a fare i conti con il destino, troppo spesso avverso. Il tutto è narrato con il consueto tocco che miscela perfettamente dramma e tratti di commedia grottesca. Vinse il Leone d’Argento anche questa volta.

Il passaggio al nuovo millennio è raccontato con la solita sottile ironia, in Adieu, plancher des vaches! (Addio terraferma). Il film ci racconta in maniera circolare la vita quotidiana di un piccolo nucleo di persone nella Parigi contemporanea. Tutti hanno qualcosa da nascondere dietro le apparenze. I rapporti personali sono freddi, lievemente empatici, superficiali e tendenzialmente classisti; i personaggi sembrano fluttuare con disinvoltura, tra il bene ed il male.
In pochi si salvano all’occhio impietoso del regista, che qui è anche tra i protagonisti. Premiato lo stesso anno dell’uscita con il prestigioso Prix Louis Delluc.

Chissà a cosa pensi
quando ti affidi al vento
lo stormo scandisce il volo
pensi a far di conto
alla brezza. E gli altri cento,
non mi fanno compagnia
da solo,
ogni nido è casa mia…

Con il lavoro seguente Lundi matin (Lunedì mattina), si affronta un altro tema caro al regista: la ricerca di uno spazio di libertà personale all’interno di un sistema esigente e oppressivo.
Vincent, operaio pendolare in fabbrica chimica, vive in un contesto paesano e rurale. Con moglie e figli ha un rapporto freddo e apatico, convenzionale. A lui, che proviene da un ambiente piccolo borghese, e che ha avuto in passato anche velleità artistiche, tutto diviene stretto, soffocante. Spinto e finanziato nel suo intento dall’arzillo padre, ormai in fin di vita ma ancora vitale e goliarda, decide di viaggiare con poche cose al seguito, alla scoperta del mondo. Nel suo peregrinare si imbatterà in molti strani ed eccentrici personaggi, tra cui spicca l’amico commilitone del padre, il Marchese Di Martino, interpretato dal regista stesso. Dopo varie peripezie e dopo aver visitato i posti sognati, mandando alla famiglia laconiche cartoline, ritornerà mestamente indietro sui suoi passi. Con questo film vinse l’Orso d’argentoa Berlino.

Si chiama Vincent anche il personaggio di Jardins en Automne (Giardini in Autunno).
Ministro della Repubblica Francese, dimissionato a forza a causa di continui scioperi generali e di blocchi studenteschi, che paralizzano la capitale in un clima di tensione sociale . La perdita del potere e dei suoi privilegi, gli farà scoprire le piccole gioie della vita quotidiana. Contornato da una serie di bizzarri personaggi, accudito e protetto dalla madre, uno stralunato Michel Piccoli in abiti femminili, sarà d’aiuto alla piccola comunità che lo circonda. Arriverà a solidarizzare persino con il losco personaggio che lo aveva sostituito, cancellandone ogni traccia dagli uffici, nel suo incarico ministeriale, anch’esso defenestrato dal governo per le stesse motivazioni e palesemente e disperatamente alla deriva. Anche questo film ha raccolto molti premi della giuria in vari festival in giro per il mondo.

In Nicolas, protagonista di Chantrapas, il regista si riflette come in uno specchio.
Si intuisce non solo per gli evidenti spunti autobiografici (nelle sequenze iniziali tre amici visionano fotogrammi tratti da Sapovnela, documentario girato agli esordi), ma soprattutto per come rappresenta tutte le problematiche, tutte le difficoltà che si trova ad affrontare il giovane protagonista, al cospetto del potere giudicante. Il film vuole essere un omaggio a quei registi che, come lui, hanno dovuto sottostare alle imposizioni e alle forzate riletture, e ai molti costretti all’esilio, per vedersi riconosciuta la propria arte e la possibilità di esprimersi liberamente. Le censure del potere e quelle più moderne e subdole del mercato hanno prodotto e stanno producendo danni incalcolabili ovunque, con effetti nefasti sulla creatività, sulla indipendenza delle idee e la loro circolazione. Uno degli effetti collaterali di questo sistema, ha colpito direttamente il nostro regista che, alla veneranda età di 82 anni, si ritrova nuovamente costretto a combattere per veder distribuita dignitosamente la sua ultima fatica, Chant d’Hiver, lavoro che ha riscosso moltissimi consensi al Festival di Locarnoe in numerose altre manifestazioni, ma che di fatto nelle sale è stato visto solo da pochi e fortunati spettatori.

Nel finale amaro di Chantrapas, che in molti vi hanno letto una citazione del celeberrimo capolavoro di Jean Vigo, L’Atlante, c’è tutta l’essenza del cinema del maestro georgiano. Il suo tocco lieve, discreto, unico, il suo sguardo personale, lucido, sulla realtà circostante; uno sguardo fantasioso, surreale, libertario, ironico, grottesco, a volte cinico, duro e impietoso, ma colmo di sentimenti e compassione, solidarietà e amore, per tutti i suoi personaggi, così fragili, imperfetti, ma sempre pieni di vita.

Fischia ancora merlo
dall’alto della pergola
cantami quella canzone,
si, l’ antica cantilena
quella che parla dei fiori
delle spighe e dei suoi ori
delle vigne e della vita
quella vissuta,
quella sognata…

Lirio Immordino

http://www.artnoise.it/elegia-per-un-merlo-canterino-solamente-otar-iosseliani/

Документальный фильм “Чугун” (1964) – 




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