La cena de le ceneri pdf Giordano bruno

AL MAL CONTENTO

Se dal cinico dente sei trafitto,

Lamentati di te barbaro perro:

Ch’in van mi mostri il tuo baston, et ferro

Se non ti guardi da farmi despitto.

Per che col torto mi venesti a dritto,

Peró tua pelle straccio, et ti disserro:

Et s’indi accade ch’il mio corpo atterro,

Tuo vituperio é nel diamante scritto.

Non andar nudo a tome a l’api il mele.

Non morder se non sai s’é pietra, o pane.

Non gir discalzo a seminar le spine.

Non spreggiar mosca d’aragne le tele.

Se sorce sei, non seguitar le rane,

Fuggi le volpi, o sangue di galline.

Et credi a l’Evangelo,

Che dice di buon zelo,

Dal nostro campo miete penitenza:

Chi vi gittò d’errori la semenza.

La cena de le ceneri – Biblioteca della Letteratura Italiana

Sintesi della Cena delle ceneri

A cura di Maurizio Pancaldi

L’opera, pubblicata a Londra nel 1584, si apre con un breve carme dedicato “Al mal contento”, cioè al lettore eccessivamente critico e insoddisfatto del contenuto: a lui Bruno consiglia di non attaccare un argomento evidentemente non alla sua portata e perciò non adeguatamente compreso, ma di seguire l’indicazione evangelica che impone di non spargere zizzania nel campo altrui.

Segue una lettera dedicatoria a Michel de Castelnau, signore di Mauvissière, l’ambasciatore francese presso la corte di Elisabetta I nella cui casa Bruno aveva soggiornato nel corso dei due anni passati in Inghilterra. Con il tono cerimonioso ed enfatico d’uso in queste occasioni, il Nolano invita il suo protettore ad un banchetto particolare, quello tenuto alla sera del primo giorno di quaresima del 1583 (appunto detto “delle ceneri” perché vi si celebra un apposito rito penitenziale dopo le festività del carnevale) nella casa londinese del nobiluomo Fulke Greville. Segue una breve ma vivace ed ironica esposizione del contenuto dei cinque dialoghi di cui si compone l’opera, nonché la contestuale presentazione dei personaggi partecipanti alla discussione. Bruno avverte che il dialogo è “istoriale”, e che quindi vi si intrecciano vari motivi oltre quello scientifico: poesia, commedia, insegnamento, lode, dimostrazione, matematica, fisica, morale. Tutti però sono ugualmente importanti, in particolare le polemiche perché consentono d'”imparar a l’altrui spese”. E qui naturalmente Bruno ha modo di lanciare una frecciata contro i professori di Oxford che, chiamati ad ascoltare e a discutere le idee di Bruno si sono mostrati tanto presuntuosi quanto ignoranti: dunque una cornice questa indegna delle dottrine ivi sostenute e certo non all’altezza del livello speculativo che Bruno avrebbe voluto tenere. La lettera si conclude con l’elogio di Enrico III, che Bruno aveva conosciuto nel precedente soggiorno a Parigi e a cui aveva dedicato il “De umbris idearum”.

Dialogo primo

I personaggi di questo primo dialogo sono, oltre a Teofilo, il discepolo testimone degli avvenimenti che espone la teoria bruniana, Smitho, un personaggio certamente reale ma di difficile identificazione, certo un amico inglese (forse John Smith o il poeta William Smith) uomo di buon senso e privo di pregiudizi, Prudenzio, che rappresenta il tipo del pedante, e Frulla, anch’esso un personaggio di fantasia che, come suggerisce il nome, incarna la figura comica dell’uomo da poco ma dotato di ironia e di spirito che prende in giro il padrone per la sua noiosa cavillosità. Il dialogo si apre con Smitho che interroga Teofilo sull’incontro del Nolano con due professori dell’università di Oxford sulla nuova filosofia cosmologica cui egli ha assistito. Nel suo racconto Tofilo traccia un ritratto alquanto mediocre dei suoi interlocutori, che risultano ignoranti e di modi poco raffinati, dilungandosi anche in una lunga disquisizione con Frulla sul significato del numero due e con Prudenzio su quello del termine “tetralogo” (dialogo a quattro) e sul valore degli studi grammaticali. Dopo una rituale invocazione alle muse, Teofilo racconta come alcuni giorni prima fossero giunti presso il Nolano i messi di un nobile inglese che era desideroso di apprendere la sua interpretazione della teoria di Copernico e la nuova filosofia. Il Nolano rispose rivendicando la propria autonomia di pensiero rispetto a Copernico come a qualsiasi altro. Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza del contributo matematico dell’astronomo polacco, egli paragona il suo lavoro a quello dei traduttori che traducono le parole da una lingua all’altra senza capire il senso complessivo del testo; o a quello dei contadini che fanno rapporto ad un ufficiale sulle manovre degli eserciti durante una battaglia, senza conoscere i principi dell’arte militare e quindi senza spiegarsi i motivi della vittoria dell’uno sull’altro. Così le apparenze dei fenomeni fisici e astronomici non possono essere intese se non dalla ragione. Nella risposta ad una precisa domanda di Smitho, Teofilo dichiara di ritenere Copernico meritevole per aver dissolto gli errori dell’antica concezione aristotelico-tolemaica (e come astronomo è stato perciò superiore a qualsiasi altro del passato e del presente), pur non essendosene molto allontanato in quanto si è mostrato più matematico che fisico e quindi non ha investigato i principi “costanti e certi” su cui edificare la nuova teoria del cosmo. Malgrado ciò gli deve essere riconosciuto il merito di essere andato contro corrente e di essersi opposto all’opinione generale, benché fosse privo di “vive raggioni” e possedesse solo alcuni frammenti delle antiche idee eliocentriche. Ad ogni modo la lode massima va al Nolano che ha liberato l’animo umano dall’ignoranza e dal vizio, egli “ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli argini del mondo fatte svanir le fantastiche muraglie de le ..sfere”. A lui “che al cospetto di ogni senso e raggione, co’ la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura”, viene dedicato un lungo e accorato elogio. Lui ha rinnovato infatti l’immagine della natura, mostrando la somiglianza degli altri corpi celesti con la nostra terra, aprendo i nostri occhi “a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo, al qual di nuovo sempre ne raccoglie, e non pensar oltre lei essere un corpo senza alma e vita, ad anche feccia tra le sustanze corporali”. Egli ci insegna come non vi sia che un unico cielo e “un’ eterea raggione immensa” che regola il movimento degli astri; e così siamo indotti “a scuoprir l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore; ed abbiamo dottrina a non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesimi siamo dentro a noi”. La celebrazione di Bruno culmina con una lunga citazione da un poema di L. Tansillo che si conclude con l’esortazione “lasciate l’ombre e abbracciate il vero; / non cangiate il presente col futuro”. Dunque in tal modo prosegue Teofilo “uno solo, benché solo, può e potrà vincere, ed al fine avrà vinto, e trionferà contra l’ignoranza generale … co’ la forza del regolato sentimento, il qual bisogna che conchiuda al fine”. Quanto alla moltitudine, non solo non bisogna tenerne in conto né l’approvazione né il biasimo, ma non bisogna neppure ritenerla degna, lei che è sciocca, ignorante e presuntuosa, di comunicarle la verità per non incorrere nell’inconveniente già denunciato dal Vangelo di offrire perle ai porci. Del resto l’esperienza insegna che coloro che si ritengono “dotti e dottori” si adirano se qualcuno scopre la loro ignoranza e intende istruirli, mentre vogliono ostinatamente perseverare nell’errore di quello che una volta hanno pur malamente appreso. Solo a coloro che hanno “libero l’intelletto, terso il vedere e son prodotti dal cielo” è destinato il messaggio del Nolano. All’ostinazione ottusa di Prudenzio che dichiara di volersi attenere comunque all’autorità degli antichi perché “nell’antiquità è la sapienza”, Teofilo ribatte “che noi siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori”, come peraltro dimostra lo stesso Copernico nei confronti degli astronomi antichi. Del resto ogni opinione, ancorché falsa, prima di essere antica era nuova all’epoca in cui fu espressa. Quanto all’ignoranza presuntuosa degli avversari, l’unico modo di combatterli è quello di confutare con opportune argomentazioni le loro false dottrine demolendo in tal modo la loro autostima e rendendoli semplici uditori della verità e, secondo l’uso della scuola pitagorica, senza il dirittto di interrogare. Gli ingegni più liberi e dotati potranno sì interrogare ma non esprimere giudizi sulla nuova filosofia prima di aver percorso tutti i gradi di essa, persuasi che le difficoltà cesseranno una volta che essa sia stata appresa nella sua interezza. Smitho non può trattenere a questo punto una perplessità: dato il grande numero di ignoranti che riempiono le accademie e le università, come sarà possibile a lui, che non sa nulla ed è indotto, distinguere il vero sapere dall’impostura, ciò che è degno da ciò che è indegno? La risposta di Teofilo è tutt’altro che rassicurante: “questo è dono degli dei, se ti guidano e dispensano la sorte da farte venir a l’incontro un uomo, che non tanto abbia l’estimazion di vera guida, quanto in verità sia tale, ed illuminano l’interno tuo spirto al far elezione de quel ch’è migliore”. Smitho osserva che per lo più si segue il giudizio comune in modo che, in caso di errore, si sarà in compagnia e si godrà del favore generale. Perciò, ribatte Teofilo, i saggi sono pochi e ciò che è comune e generale è di scarso pregio, per cui “è più sicuro cercar il vero e conveniente fuor de la moltitudine”. Persuaso, Smitho chiede di udire finalmente la filosofia del Nolano.

Dialogo secondo

Teofilo racconta come il Nolano fosse interpellato un giorno da Fulke Greville circa la ragioni da lui sostenute in favore del movimento della terra. Il Nolano rifiuta di rispondere perché non conosce il grado di preparazione del suo interlocutore, cui propone piuttosto di farlo incontrare con esponenti della concezione opposta alla sua per potersi confrontare con loro. “Con questo modo si potesse veder la virtù de’ fondamenti di questa sua filosofia contra la volgare tanto megliormente, quanto maggior occasione gli verrebbe presentata di rispondere e dichiarare”. Il Grivelle accetta di buon grado e fissa l’appuntamento “per mercoledì ad otto giorni, che sarà delle ceneri” (quindi per il 14 febbraio 1584). Il Nolano, mentre dichiare la sua disponibilità, si raccomanda al suo ospite, che gli fornisce ampie assicurazioni in proposito, di non farlo dialogare con “persone ignobili, mal create e poco intendenti in simili speculazioni”. In giorno convenuto, il Nolano attende fin dopo pranzo l’invito, ma non essendo giunto si reca a visitare alcuni amici italiani residenti a Londra per affari; tornato verso sera, trova davanti alla porta di casa messer Florio (cioè Giovanni Florio, oriundo senese, nato a Londra da famiglia valdese rifugiatasi in Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni religiose, insegnante di italiano e letterato) e maestro Guin (cioè Matteo Gwinne, medico e filosofo inglese) che lo stanno aspettando per accompagnarlo al luogo dell’incontro dove è atteso da “tanti cavalieri, gentilomini e dottori”. “Orsù, disse il Nolano, andiamo e preghiamo Dio, che ne faccia accompagnare in questa sera oscura, a sì lungo camino, per sì poco sicure strade”. In effetti il tragitto fino alla casa del Greville si rivela denso di peripezie: per fare prima, i tre cercano innanzitutto un battello per scendere lungo il Tamigi, ma “passammo tanto tempo, quanto avrebbe bastato a bell’agio di condurne per terra al loco determinato, ed aver spedito ancora qualche piccolo negozio”; trovatolo, si imbattono in un barcaiolo che sembra Caronte con una barca le cui parti “ti rispondevano ovonque la toccassi, e per ogni minimo moto risuonavano per tutto”. Invece di affrettare la corsa, i tre vengono fatti approdare per forza presso il Tempio (cioè la sede dei Templari), quindi in un punto ancora lontano dalla meta: non c’è modo naturalmente di fare intendere ragioni al barcaiolo, che per di più pretende di essere pagato per intero. Avviatisi a piedi, si trovano in mezzo al fango e al buio e in queste condizioni devono procedere per un bel pezzo sbuffando, sospirando e bestemmiando. Finalmente giungono ad una strada ma fatti pochi passi si accorgono di essere vicini al punto in cui erano sbarcati. Stanchi, pensano di rinunciare e di tornare a casa, ma li trattiene il pensiero di essere attesi da una così nobile compagnia e di aver assicurato la loro presenza. “Venca dunque la perseveranza, perché, se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte le cose preziose son poste nel difficile. Stretta e spinosa è la via de la beatitudine”. Segue un lungo intermezzo in cui Teofilo tesse l’elogio di Elisabetta e del suo regno illuminato, nonché degli uomini più in vista della sua corte (dal conte di Leicester, cancelliere dell’Università di Oxford, a suo nipote Sir Philip Sidney, al potente Sir Francis Wolsingham) e dei circoli culturali ruotanti attorno ad essa; ad essi si contrappone il resto della società inglese, inospitale, rozza, sordida, ai limiti della bestialità. Il racconto riprende con il Nolano che, dopo le ultime peripezie del tragitto, giunge finalmente alla porta della casa di Greville, malamente accolto dalla servitù. I tre entrano nella sala dove gli altri si erano già seduti a tavola e prendono posto. Della disposizione dei commensali Teofilo fornisce una precisa descrizione: il Nolano siede avendo a destra lo stesso Teofilo, a sinistra il dottor Torquato, e di fronte il dottor Nundinio, che rappresentano il corpo docente oxoniense. Anche il comportamento dei commensali durante il pasto si rivela in linea con il profilo generale dei costumi evidenziati dagli inglesi in altre occasioni: tutt’ altro che educato e del tutto privo di raffinatezze.

Dialogo terzo

Il dialogo si apre con Nundinio che domanda al Nolano se comprende l’inglese: un’occasione ulteriore per lanciare una bordata polemica contro l’ignoranza dei professori oxoniensi che non conoscono se non il loro idioma e un po’ di latino. Dunque si converserà in quest’ultima lingua. Nundinio interroga il Nolano sulla teoria eliocentrica di Copernico, ma già dalla formulazione della domanda si capisce che non ne possiede una conoscenza di prima mano. In ogni caso ciò offre lo spunto a Teofilo per citare un lungo brano della lettera premessa da A. Osiander al “De revolutionibus”, quale esempio di fraintendimento palese e di ignoranza scientifica, che induce il teologo luterano a ridurre la teoria copernicana a “suppositione” (ipotesi) buona “solamente per la facilità mirabile e artificiosa del computo”, ma certo non a considerarla una oggettiva descrizione della struttura del cosmo. Quanto al Nolano, egli è stato certamente preceduto da molti altri nella sua concezione dell’universo (in particolare “il divino Cusano”), ma “lui lo tiene per altri proprii e più saldi principii, per i quali, non per autoritate ma per vivo senso e raggione, ha cossì certo questo come altra cosa che possa aver per certa”. In ogni caso poichè Osiander ha creduto di individuare in Copernico un errore riguardante la distanza di Venere dal sole in dipendenza “dal movimento suo ne l’epiciclo”, Teofilo gli oppone l’argomento secondo il quale “da l’apparenza de la quantità del corpo luminoso non possiamo inferire la verità de la sua grandezza né di sua distanza; perché, sì come non è medesima raggione d’un corpo men luminoso ed altro più luminoso e altro luminosissimo, acciò possiamo giudicare la grandezza o ver la distanza loro.” Infatti una testa d’uomo non è visibile a due miglia di distanza mentre lo è una lucerna, che è più piccola, a sessanta miglia, ” come da Otranto in Puglia si veggono al spesso le candele d’ Avellona (Valona), tra quai paesi tramezza gran tratto del mare Jonio”. Dunque, sostiene Teofilo, vi è un rapporto direttamente proporzionale tra l’intensità della luce e la distanza da cui è percepita “perché più presto da la qualità e intensa virtù de la luce, che da la quantità del corpo acceso, suole mantenersi la raggione del medesimo diametro e mole del corpo; (..) [per cui non è possibile] concludere, che a tanta distanza, quanta è il diametro de l’epiciclo di Venere, si possa inferir raggione di tanto diametro del corpo del pianeta, ed altre cose simili”. Peraltro lo stesso accade quando noi osserviamo la terra da una certa altezza e lo guardo abbraccia un determinato orizzonte: quest’ ultimo aumenta in proporzione dell’aumento del punto di osservazione, per cui “è da credere che, discostandosi più l’orizzonte, sempre si diminuisca” il modo con cui ci apparirà la terra. “E cossì oltre, attenuandosi l’orizzonte, sempre crescerà la comprensione de l’arco, insino alla linea emisferica ed oltre. Alla quale distanza, o circa quale posti, vedreimo la terra con quelli medesimi accidenti coi quali veggiamo la luna aver le parti lucide ed oscure, secondo che la superficie è acquea e terrestre.Tanto che, quanto più se stringe l’angolo visuale, tanto la base maggiore si comprende de l’arco emisferico, e tanto ancora in minor quantità appare l’orizzonte (..). Allontanandoci dunque, cresce sempre la comprensione de l’emisfero e il lume; il quale, quanto più il diametro si diminuisce, tanto d’avantaggio si viene a riunire; di sorte che, se noi fussemo più discosti da la luna, le sue macchie sarebbero sempre minori, sin alla vista d’ un corpo piccolo e lucido solamente”. Smitho trae facilmente le logiche conclusioni di questo discorso di Teofilo: un corpo luminoso più grande, irradiando con la sua luce un corpo opaco più piccolo, “de l’ombra conoidale produce la base in esso corpo opaco, ed il cono, oltre quello, ne la parte opposita: (..) la conclusione di questa raggione è, che il sole è corpo più grande che la terra, perché manda il cono de l’ombra di quella sin appresso alla sfera di Mercurio, e non passa oltre”. Nello stesso modo, incalza Teofilo, “un corpo luminoso minore può illuminare più della mittà d’un corpo opaco più grande”.

Il dialogo prosegue riportando un’ulteriore obiezione di Nundinio: il movimento della terra è impossibile perché si trova al centro dell’universo e quindi è “fisso e costante fundamento d’ ogni moto”. La risposta del Nolano è semplice: “questo medesimo può dir colui che tiene il sole essere nel mezzo de l’universo, e per tanto immobile e fisso, come intese il Copernico ed altri molti, che hanno donato termine circonferenziale a l’universo”; ma questo argomento non è valido per chi concepisce l’universo come infinito, e dunque senza che vi sia alcun corpo che occupi il centro o la periferia. Ne consegue che, per quanto riguarda i moti, “non è alcuno, che di gran lunga non differisca dal semplicemente circulare e regolare circa qualche centro”. Per cui “noi che veggiamo un corpo aereo, etereo, spirituale, liquido, capace loco di moto e di quiete, sino immenso e infinito, (..) sappiamo certo che, essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve, secondo la capacità sua corporale e modo suo, essere infinitamente infinito”. Di fronte a questo argomento Nundinio resta attonito e stupito, come se gli fosse apparso un fantasma. Incomincia allora a “dimandar fuor di proposito” sulla materia dei vari pianeti che ora sono creduti formati di etere (o quinta essenza), materia incorruttibile di cui le stelle costituiscono la parte più densa. Il Nolano risponde che “li altri globi, che son terre, non sono in punto alcuno differenti da questo in specie; solo in esser più grandi e piccioli (..); ma quelle sfere, che son foco come è il sole, per ora, crede che differiscono in specie, come il caldo e freddo, lucido per sé e lucido per altro”. Rivolgendosi a Smitho che si meraviglia della prudenza del Nolano, Teofilo gli spiega che “dal svanimento delle parti oscure ed opache del globo e dalla unione delle parti cristalline e lucide si viene sempre alle reggioni più e più distante a diffondersi più e più lume. Or se il lume è causa del calore, (..) avverrà che la terra co’ gli raggi, che ella manda alle lontane parti de l’eterea reggione, secondo la virtù della luce venghi a comunicar altrettanto di virtù di calore. Ma a noi non costa che una cosa per tanto che è lucida sii calda, perché veggiamo appresso a noi molte cose lucide, ma non calde”. A queste affermazioni Nundinio si mette a ridere e cita Luciano che nella “Storia vera” immagina e racconta di altre terre con le stesse proprietà della nostra. Al che il Nolano spiega che lo scrittore antico stava polemizzando con quei filosofi che affermano appunto che vi siano molte terre; in realtà “se ben consideriamo, trovarremo la terra e tanti altri corpi, che son chiamati astri, membri principali de l’universo, come danno la vita e nutrimento alle cose che da quelli toglieno la materia, e a’ medesimi la restituiscano, cossì e maggiormente hanno la vita in sé; per la quale, con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno alle cose e per gli spacii convenienti ad essi.” Non vi sono altri tipi di movimento ed ogni essere “si muove al suo principio vitale, come al sole e altri astri; (..) e finalmente va a trovar il simile e fugge il contrario”. Tutto avviene secondo un principio interno alla natura stessa che agisce in modo differente sui diversi corpi in relazione alle specifiche qualità di ognuno. Questo principio intero è detto “anima”, ed è sensitiva e intellettiva come la nostra, e “forse anco più”. La terra è dunque come “un grande animale” che possiede sensibilità, membra, carne, sangue, nervi, ossa, vene, cuore ma certo non simili alle nostre; e come negli animali, anche in lei le varie parti sono ” in continua alterazione e moto, ed hanno un certo flusso e reflusso, dentro accogliendo sempre qualche cosa dall’estrinseco e mandando fuori qualche cosa da l’intrinseco”. Per cui “essendo che ogni cosa participa de vita, molti ed innumerevoli individui vivono non solamente in noi, ma in tutte le cose composte; e quando veggiamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto credere quella morire, quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione e concordia, rimanendono le cose che quella incorreno, sempre immortali”.

Infine Nundinio, irritato e ormai sconfitto, propone un’ultima questione: se fosse vero che la terra gira verso oriente, le nuvole dovrebbero scorrere verso il lato opposto “per raggione del velocissimo e rapidissimo moto di questo globo, che in spacio di ventiquattro ore deve aver compito sì gran giro.” Il Nolano gli risponde che nuvole e venti fanno parte della terra, la quale comprende “tutta la machina e l’animale intero, che consta di sue parti dissimilari”, dai mari ai monti ai sassi ai fiumi; dunque le nuvole si muovono in sintonia con la terra e insieme con “tutti gli accidenti, che son nel corpo de la terra.” A questo punto Smitho interrompe il racconto di Teofilo per porre lui stesso una domanda: “onde avviene, che noi veggiamo l’emisfero intiero, essendo che abitiamo ne le viscere della terra?” Pacatamente Teofilo risponde che essendo la terra un globo in tutte le sue parti, “accade che alla vista de l’orizonte cossì una convessitudine doni loco all’altra”; si tratta dunque di una situazione del tutto diversa da quella in cui tra i nostri occhi e una parte del cielo si interpone un monte a impedire la vista del circolo dell’orizzonte. “La distanza dunque di cotai monti, i quali siegueno la convessitudine de la terra, la quale non è piana ma orbicolare, fa che non ne sii sensibile l’essere entro le viscere de la terra.” Incalza ancora Smitho domandando se questo impedimento tocca anche coloro che sono vicino alle alte montagne. Risponde Teofilo che tocca solo coloro che sono vicino ai monti più piccoli, “perché non sono altissimi gli monti, se non sono medesimamente grandissimi in tanto, che la loro grandezza è insensibile alla nostra vista”, precisando però che per altissimi non si deve intendere la dimensione delle Alpi o dei Pirenei, ma quella ad es. dell’intera Francia posta tra l’Oceano e il Mediterraneo. Del resto Alpi e Pirenei sono state in passato “la testa d’un monte altissimo. La qual, venendo tutta via fracassata dal tempo (..) forma tante montagne particolari, le quale noi chiamiamo monti.” In conclusione, afferma Teofilo, “con la terra dunque si muoveno tutte le cose che si trovano in terra. Se dunque dal loco extra la terra qualche cosa fusse gittata in terra, per il moto di quella perderebbe la rettitudine.” Si può provare quanto detto con qualche semplice esperienza: se uno da una riva vorrà lanciare un sasso verso una nave in corsa lungo un fiume, fallirà il bersaglio; se quello stesso sasso varrà lanciato da un marinaio posto sulla cima dell’albero maestro, lo si vedrà cadere in linea retta alla base dello stesso albero. Se dunque vi saranno due persone, una dentro la nave in corsa e l’altra fuori, ed entrambi ” abbia la mano circa il medesimo punto de l’aria”, lanciando contemporaneamente una pietra, “senza che gli donino spinta alcuna, quella del primo, senza perdere punto né deviar da la sua linea, verrà al prefisso loco, e quella del secondo si trovarrà tralasciata a dietro.” La ragione di questo sta nel fatto che “le cose, che hanno fissione o simili appartinenze nella nave, si muoveno con quella; e la una pietra porta seco la virtù del motore il quale si muove con la nave, l’altra di quello che non ha detta participazione.” Da questa esperienza si può dunque concludere che il moto rettilineo non dipende né dal punto di partenza, né da quello d’arrivo, né dall’aria, “ma da l’efficacia de la virtù primieramente impressa, dalla quale depende la differenza tutta.” E con ciò il dialogo si chiude.

Dialogo quarto

Però “la divina scrittura (..) in molti luoghi accenna e suppone il contrario”: questa la domanda di Smitho che apre il dialogo. Teofilo risponde che “nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia”; il fine della Scrittura è pratico, e concerne il senso morale delle nostre azioni. Dunque il divino legislatore quando tratta quelle questioni non parla sacondo verità “ma di questo lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo in maniera che, secondo il suo modo di intendere e di parlare, venghi a capire quel ch’è principale”. Smitho acconsente e a conferma di questa tesi cita la posizione di Al-Gazali secondo il quale “il fine delle leggi non è tanto di cercar la verità delle cose e speculazioni, quanto la bontà de’ costumi, profitto della civiltà, convitto di popoli e prattica per la commodità della umana conversazione, mantenimento di pace e aumento di republiche.” Anzi il sapiente non giudica cosa opportuna divulgare la verità presso il volgo ignorante che non ne capirebbe il valore e ne equivocherebbe il senso. “Parlar con i termini de la verità dove non bisogna, è voler che il volgo e la sciocca moltitudine, dalla quale si richiede la prattica, abbia il particular intendimento; sarebbe come voler che la mano abbia l’occhio, la quale non è stata fatta dalla natura per vedere, ma per oprare e consentire alla vista.” Dunque la Scrittura usa un linguaggio consono alle “paroli e sentimenti comoni”. Dunque nelle questioni naturali che hanno come oggetto la verità, le parole della Scrittura non devono essere usate come autorità “e prender per vero quel che è stato detto per similitudine”. In ogni caso Teofilo precisa che questa distinzione tra verità e metafora (come si dimostra in seguito con un lungo esempio tratto dal libro di Giobbe) “non tocca a tutti di volerla comprendere, come non è dato a ogniuno di posserla capire”. Del resto si può giudicare della rilevanza e del significato della metafora nel linguaggio religioso, osservando come la Scrittura venga usata in questo senso da ebrei, cristiani e musulmani con risultati tanto diversi e persino contrari. Piuttosto, osserva Smitho, questo valore metaforico e pratico della Scrittura fa sì che essa ben si possa conciliare con la filosofia del Nolano. Teofilo risponde che non si devono temere le obiezioni degli “onorati spirti, veri religiosi e, ed anco naturalmente uomini da bene, amici della civile conversazione e buone dottrine”; costoro infatti non tarderanno a rendersi conto che questa filosofia non solo contiene la verità, ma favorisce la religione più di qualsiasi altra che ponendo il mondo finito limita l’efficacia della potenza divina o che fissando la provvidenza sopra le azioni umane ne svilisce l’effetto rimuovendola dalle cause prime e universali.

Dopo queste considerazioni Smitho chiede a Teofilo di tornare al racconto della conversazione del Nolano, riferendo dell’intervento del dottor Torquato, presentato come molto più ignorante e arrogante di Nundinio. Costui in verità non porta argomenti ma apostrofa il Nolano accusandolo di pretendere di arrogarsi il titolo di maestro dei filosofi al posto di Aristotele. Il Nolano si volge agli astanti ridendo per queste sciocchezze e lo invita ad entrare più propriamente in argomento. Al che Torquato pone la seguente questione: se la terra si muove, come mai la stella di Marte appare talvolta più grande e talvolta più piccola? Il Nolano gli risponde che “una delle cause principali (..) è il moto della terra e di Marte ancora per gli proprii circoli, onde aviene che ora siino più prossimi ora più lontani.” Alla richiesta di Torquato di descrivere la proporzione dei moti della terra e dei pianeti, il Nolano risponde di essere venuto per rispondere e non per insegnare, che questa è nozione conosciuta dagli antichi e dai moderni, “e che lui non disputa circa questo, e non è per litigare contra gli matematici, per toglier le loro misure e teorie, alle quali sottoscrive e crede; ma il suo scopo versa circa la natura e verificazione del soggetto di questi moti.” In ogni caso, sollecitato dai presenti, il Nolano in una pagina densissima presenta un quadro completo della sua filosofia ribadendo l’infinità dell’universo, che consta di un immenso e unico spazio o cielo in cui sono collocati la terra e gli altri astri in quantità innumerevole, dei quali alcuni sono caldi e altri sono freddi; “questi, per comunicar l’uno all’altro, e partecipar l’un da l’altro il principio vitale, a certi spacii, con certe distanze, gli uni compiscono gli lor giri circa gli altri, come è manifesto in questi sette, che versano circa il sole.” La terra è uno di questi, e il suo moto, che procede in 24 ore “dal lato chiamato occidente verso l’oriente, caggiona l’apparenza di questo moto de l’universo circa quella, che è detto mundano o diurno.” Dopo questa esposizione del Nolano, seguono momenti di grande confusione con Torquato che si scalda e inveisce contro il filosofo dandogli del pazzo. Anche il Nolano alza il tono di voce e ribalta l’accusa apostrofando il professore oxoniense che non valeva più dei suoi abiti accademici i quali avrebbero dovute essere spolverati a suon di bastonate data l’asinità che aveva dimostrato nella discussione. Questo esito fornisce l’occasione a Frulla per lamentare la decadenza degli studi filosofici in Inghilterra a favore di quelli umanistici e grammaticali con la conseguente diffusione di quella pedanteria di cui fece le spese il Nolano “nato e allevato sotto più benigno cielo” durante le pubbliche dispute con i teologi di Oxford, come quella tenuta alla presenza del principe polacco A. de Lask e di altri membri della nobiltà. Riprendendo il racconto Teofilo riferisce come il Nolano si fosse ricomposto presto dal precedente scatto d’ ira, rivolgendo parole amichevoli a Torquato e ricordando di aver sostenuto le stesse posizioni aristoteliche in gioventù, quando era più ignorante. Perciò augura a Torquato che Dio gli conceda di accorgersi della propria cecità per poter diventare più civile e cortese, meno ignorante e temerario. Questo naturalmente non riesce a smuovere i dottori inglesi che dichiarano di fondare la loro certezza sull’autorità di Aristotele e di altri grandi filosofi. Al che “il Nolano soggionse, che sono innumerabili sciocchi, insensati, stupidi ed ignorantissimi, che in ciò sono compagni non solo d’Aristotele e Tolomeo, ma di essi loro ancora; i quali non possono capire quel che il Nolano intende, con cui non sono, né possono essere consenzienti, ma solo uomini divini e sapientissimi, come Pitagora, Platone e altri.”. Quanto ad Aristotele, essi possono essergli vicino solo nell’ignoranza, ma non certo nel sapere, perché “dove quel galantuomo fu dotto e giudicioso, credo e son certissimo, che tutti insieme ne sete troppo discosti.” E a riprova di ciò milita il fatto che non sono riusciti a portare un solo argomento valido contro Copernico e contro di lui, che invece ne ha fornito molti e persuasivi. Torquato allora torna alla carica domandando la posizione dell’auge del sole. “Il Nolano rispose che lo imaginasse dove gli piace, e concludesse qualche cosa, perché l’auge si muta e non sta sempre nel medesimo grado de l’eclittica. (..) Questa interrogazione de l’auge del sole conchiuse in tutto e per tutto, che costui era ignorantissimmo di disputare.” Infatti “la prima lezione, che si dà ad uno che vuole imparar di argumentare, è di non cercare e dimandar secondo i propri principi, ma quelli che sono concessi da l’avversario”, la cui validità si deve cercare di demolire e confutare con apposite prove. Ovviamente gli oxoniensi non si danno per vinti: Torquato stende sulla tavola carta e calamaio, vi disegna il sistema planatario secondo i due sistemi, tolemaico e copernicano, in tal modo pretendendo di dare una lezione al Nolano. Ma sbaglia tutto, dimostrando di aver frainteso Copernico, affermando come suo “quel che il Copernico non intese, e più tosto s’arrebbe fatto tagliar il collo, che dirlo o scriverlo.” Infatti portato il libro di Copernico il Nolano smaschera la loro ignoranza. Allora Torquato e Nundinio, vistisi sconfitti, se ne vanno. Anche gli altri cavalieri lasciano la sala, dopo aver pregato il Nolano di scurase la scortesia dei due e di aver compassione dell’ignoranza inglese in materia di filosofia e matematica. Così la serata era finita e anche il Nolano e i suoi amici lasciano la casa di Greville facendo ritorno alle rispettive dimore senza incontrare le difficoltà del viaggio d’andata. Così termina il racconto di Teofilo, ma Smitho lo prega di concedergli ancora del tempo per capire meglio la dottrina del Nolano.

Dialogo quinto

Il dialogo si apre subito con un lungo discorso di Teofilo che espone la cosmologia bruniana: le stelle e la terra sono tutte fisse nello stesso firmamento “che è l’aria”. Si devono quindi eliminare le sfere della teoria tolemaica, “perché in una medesima eterea reggione, come in un medesimo gran spacio o campo, son questi corpi distinti e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni dagli altri”. Quanto al fatto per cui si è a lungo creduto che i cieli fossero sette per i pianeti e uno per le stelle fisse, il motivo consiste nel “vario moto, che si vedeva in sette, ed uno regolato in tutte l’altre stelle, che serbano perpetuamente la medesima equidistanza e regola”, per cui a queste ultime sembra “convenir un moto, una fissione ed un orbe”. Ma se noi consideriamo il movimento della terra e rapportiamo a questo movimento quello degli altri corpi nell’aria, “potremo prima credere, e poi demostrativamente concludere il contrario di quel sogno e quella fantasia”. Lo stesso accade a noi che guardando le cose entro un certo giro di orizzonte ci parranno nella loro proporzione, ma oltre una determinata distanza sembreranno tutte ugualmente lontane; “cossì, alle stelle del firmamento guardando, apprendiamo la differenza de’ moti e distanze d’alcuni astri più vicini, ma gli più lontani e lontanissimi ne appaiono immobili, ed equalmente distanti e lontani, quanto alla longitudine”. Se dunque noi non vediamo i moti di quelle stelle, non è perché non vi siano, poiché non c’è ragione che non si verifichino negli astri gli stessi fenomeni presenti nelle altre porti del cosmo. “E però non denno esser chiamate fisse perché veramente serbino la medesima equidistanza da noi e tra loro; ma perché il loro moto non è sensibile a noi.” Lo stesso accade quando una nave che procede molto distante da noi ci sembra ferma. Lo stesso si deve pensare di quei corpi grandissimi e luminisissimi come il sole, di cui è possibile ipotizzare l’esistenza in gran numero. Altri filosofi nell’antichità (Pitagora, Melisso, Eraclito, Democrito, Epicuro, Parmenide) nutrirono la stessa concezione in proposito, “onde si vede, che conobbero un spacio infinito, regione infinita, capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo, i quali cossì compiscono i loro circoli, come la terra il suo.” In questo universo sono eliminate “la virtù trattiva o impulsiva ed altre simili”, così come non ha senso la distinzione tra moti naturali e violenti, ma è necessario ammettere che ” questo moto sii naturale da principio interno e proprio appulso senza resistenza. Questo conviene a tutti i corpi, che senza contatto sensibile di altro impellente o attraente si muoveno.” Se questo è vero se ne deve dedurre che è impossibile che la luna muova il mare, fecondi i pesci e altre cose simili: essa non è causa ma “segno ed indizio..[di un certo] ordine e corispondenza de le cose, e le leggi d’una mutazione che son conformi e corrispondenti alle leggi de l’altra.” Molte filosofie cadono in questo tipo di errori, scambiando le cause con gli effetti: questo accede perché si cercano le cause dei fenomeni in modo estrinseco, mentre “il vero non repugnante è il naturale; e il naturale, o vogli o non, è principio intrinseco, il quale da per sé porta la cosa dove conviene.” Quanto a coloro che non riescono a pensare che un corpo cosi grande e pesante come la terra possa muoversi, non si comprende perché poi ammettano questo moto per il sole, la luna e gli altri pianeti intorno alla terra. Ora nessun corpo è pesante o leggero nella posizione occupata, ma queste qualità e differenze “convegnono alle parti, che son divise dal tutto, e che se ritrovano fuor dal proprio continente, e come peregrine: queste non meno naturalmente si forzano verso il loco della conservazione, che il ferro verso la calamita”. Perciò pezzi di terra cadono verso di noi dall’aria, “perché qua è la lor sfera”; allo stesso modo l’acqua non è pesante nel suo luogo naturale, e anzi consente ai corpi il galleggiamento; così le braccia non sono pesanti se collocate in posizione corretta nel busto. Dunque pesantezza e leggerezza non sono qualità intrinseche e assolute delle cose, ma dipendono dalla loro posizione nel cosmo in relazione estrinseca con gli altri elementi. “Ogni cosa dunque, che è naturale, è facilissima; ogni loco e moto naturale è convenientissimo. Con quella facilità, con la quale le cose che naturalmente non si muoveno persistono fisse nel suo loco, le altre cose che naturalmente si muoveno, marciano per gli lor spacii.” Dunque la terra non è più pesante del sole, purché ciascuno resti nel suo spazio, e lo stesso dicasi per gli altri elementi che possiedono ciascuno una propria sfera d’appartenenza, fuor dalla quale si muovono per raggiungerla e consistervi. Quanto all’aria, essa è “generalissimo continente”, è il firmamento dei corpi celesti, “da tutte parti esce, in tutte parti entra, per tutto penetra, a tutto si diffonde”.

Smitho resta meravigliato dopo questo discorso, ma ancora non riesce ad avere ben chiaro come possa giustificarsi la natura (quale corpo infuocato e fonte di calore) e, date le apparenze offerte dai nostri sensi, la posizione fissa del sole mentre gli altri pianeti, compresa la terra, sono erranti attorno a lui. Infatti stando al ragionamento di prima “le parti del foco, quando non hanno facultà di montare in alto [come nelle fornaci], si svolgeno e ruotano in tondo”: dunque il moto conviene più al sole che alla terra. Teofilo risponde che si potrebbe concedere che il sole si muova attorno al proprio centro e non attorno ad altro, ma bisogna considerare che esso è assai caldo, denso ed eterogeneo a proprio interno: dunque quello che noi vediamo muoversi è “aria accaso, che si chiama fiamma, come il medesimo aria alterato dal freddo della terra si chiama vapore.” Tuttavia Smitho non si ritiene ancora soddisfatto poiché considera quanto detto finora piuttosto un argomento a favore della sua tesi, dato che il vapore è più simile al fuoco, che è elemento mobile, mentre l’aria è più simile alla terra. Teofilo risponde che “la caggione è, che il fuoco più si forza di fuggire da questa reggione, la quale è più connaturale al corpo di contraria qualità”; in ogni caso assicura che il Nolano non ha “determinazione alcuna circa il moto o quiete del sole”, e dunque quel movimento della fiamma “ch’è ritenuta e contenuta nelle fornaci, procede da quel, che la virtù del foco perseguita, accende, altera e trasmuta l’aria vaporoso, del quale vuole aumentarsi e nodrirsi, e quell’altro si ritira e fugge il nemico del suo essere e la sua correzione.” Alla successiva domanda di Smitho circa il moto locale della terra, Teofilo risponde che la sua causa è il rinnovamento e la rinascita continua di questo corpo, “il quale, secondo la medesima disposizione, non può essere perpetuo”. Perciò come le cose che essendo caduche si perpetuano nella specie, così “le sustanze che non possono perpetuarsi sotto il medesimo volto, si vanno tutta via cangiando di faccia.” Infatti la materia è certamente eterna e incorruttibile e deve accogliere e produrre in tutte le sue parti tutte le forma, affinché ovunque “si fia tutto, sia tutto”, ovviamente non nel medesimo istante ma in tempi diversi, “in varii istanti d’eternità successiva e vicissitudinalmente”. Dunque questa massa, di cui è costituito il nostro globo, non si dissolve e non si annichila, ma muta e si rinnova continuamente, “cangiando le sue parti tutte” secondo una precisa successione “ognuna prendendo il loco de l’altre tutte.” Poichè la massa è omogenea, questo dinamismo tocca tutte le sue parti indistintamente, sia all’interno che alla superficie “chè nel grembo e viscere della terra altre cose s’accoglieno, ed altre cose da quelle ne si mandan fuori.” In tutto ciò l’uomo non ha alcuna condizione privilegiata: noi stessi andiamo e veniamo, passiamo e ritorniamo, “e non è cosa nostra che non si faccia aliena e non è cosa aliena che non si faccia nostra”. Le componenti del nostro essere andranno a formare altri esseri, così come il nostro essere è composto di elementi derivati da generi diversi. In questo processo evolutivo spirito e materia si mescolano e si trasfondono l’uno nell’altra e viceversa tanto che non si può dire se sono due generi diversi o due componenti dello stesso genere. “Cossì tutte le cose nel suo geno [genere] hanno tutte vicessitudine di dominio e servitù, felicità e infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male”. Nulla è eterno, tranne la materia che però è in continua evoluzione. Ne consegue che “la causa del moto locale (..) è il fine della vicessitudine, non solo perché tutto si ritrove in tutti luoghi, ma ancora perché con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme”. Il moto locale è dunque il solo esistente e costituisce il principio di ogni mutamento e ogni forma. Di questa processualità dinamica si possono fornire molti esempi tratti dall’esperienza della natura (il mare non è sempre stato tale, molti luoghi della terra hanno mutato forma, ciò che è terra non lo è stato e non lo sarà sempre, le fonti si seccano, i fiumi ingrossano e si assottigliano, un tempo Micene era fertile e Argo secca mentre oggi è il contrario, le pietre sparse nei campi in Provenza mostrano che un tempo erano battute dalle onde, la località chiamata Porto vicino a Nola testimonia che il mare un tempo arrivava fino alle porte della città, ai tempi di Cesare la terra di Francia non era adatta alla coltivazione della vite come invece lo è oggi – il che significa che il Mediterraneo si è ritirato verso la Libia lasciando la terra più secca e calda- ecc.), che in alcuni casi lo stesso Aristotele conobbe e tenne presente, anche se poi non ne seppe trarre le debite conclusioni, rimanendo invischiato nei suoi schemi fallaci. Richiesto ancora da Smitho di precisare “i moti, che convengono a questo globo”, Teofilo prosegue specificando che il movimento della terra esige la compresenza degli opposti “a fin che ogni parte venghi a partecipar ogni vita, ogni generazione, ogni felicità”. Di conseguenza i moti della terra sono di quattro tipi: a) il primo, al fine di fornire la vita a sé e alle cose in essa contenute, e dare “come una respirazione ed inspirazione col diurno caldo e freddo, luce e tenebra”, consiste nel girare attorno al proprio asse in ventiquattro ore per esporre al calore e alla luce de sole tutta la propria superficie; b) il secondo consiste nel girare intorno al sole nell’arco di trecentosessantacinque giorni “per la rigenerazione delle cose, che nel suo dorso vivono e si dissolveno”; c) il terzo è quello per il quale la relazione che ha questo emisfero superiore della terra rispetto all’universo, si trasmetta all’emisfero inferiore e viceversa; d) vi è infine un quarto moto per cui la tendenza del vertice della terra ad orientarsi verso l’artico si trasforma nella tendenza dell’altro vertice verso il polo antartico. Di ogni moto è naturalmente possibile fornire la misura in base a determinati e adeguati criteri. In ogni caso Teofilo precisa che: benché quatto i moti “tutti concorreno in un composto”; benché siano detti circolari, questi moti non sono effettivamente tali; che questi moti non sono regolari e perciò non rappresentabili geometricamente. Data la loro connessione (Teofilo li rappresenta tutti nel moto di una palla lanciata in aria), “uno che non sii regolato, è sufficiente a far che nessuno de gli altri sia regolato; uno ignoto fa tutti gli altri ignoti”. Malgrado ciò essi hanno un certo ordine in base al quale si avvicinano o si allontanano dalla regolarità, che risulta inversamente proporzionale alla vicinanza al centro, per cui la terra “prima ha il moto del suo centro, che è annuale, più regolato che tutti, e più che gli altri simile a se stesso; secondo, men regolato, è il diurno; terzo, l’irregolato, chiamiamo l’emisferico; quarto, irregolatissimo, è il polare over colurale.” Dopo questa esposizione, Teofilo ingiunge a Frulla di non divulgare la sapienza perché non cada in orecchie indegne di persone che potrebbero recare danno al Nolano e ai suoi amici; quindi, annunciata la fine della cena e del dialogo, prega Prudenzio di fare un epilogo morale alla loro riunione. Questa si risolve a) in un augurio al Nolano di trovare un uditorio consono alla sua sapienza e di conservarsi l’amicizia del signor di Mauvissier; b) in un invito agli uomini e ai cavalieri di buoni costumi di accogliere nelle loro case il Nolano e di difenderlo da cattivi incontri; c) in una preghiera a Nundinio e Torquato a farsi risarcire dai loro pessimi maestri per il tempo sprecato; d) a tutti, nel caso di un prossimo dialogo, la richiesta di dar miglior prova di sé o di tacere

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