Jim Jarmusch : Dead Man – GHOST DOG – COFFEE AND CIGARETTES

Dead Man

di Jim Jarmusch

western, road movie, Usa (1995)

 di Matteo Losi

Basterebbe l’incipit per ridare lustro a un aggettivo ormai logoro come “kafkiano” e consegnare “Dead Man” alla storia del cinema a stelle e strisce. Nero di carbone in volto, labbra bianche (quasi un minstrel, verrebbe da pensare) e occhi di ghiaccio, il macchinista-indovino scruta il passeggero William Blake e ne diviene interprete: “Guarda fuori dal finestrino. Non ti torna alla memoria di quando eri nella barca? E di quando quella notte eri disteso, lo sguardo rivolto al cielo, e l’acqua di cui ti ricordavi non era poi così diversa dal paesaggio… Tu ti chiedesti: ‘Come mai il paesaggio si sta muovendo ma la barca è ferma?’ E ancora… Da dove vieni tu?”Soltanto questi cinque minuti racchiudono, liofilizzati, tutto Kafka, tutto Jarmusch, tutto Cormac McCarthy, tutto Samuel Beckett. Minuti che procedono a singhiozzo fra squarci di visione, racchiusi in minime porzioni di filmato poi riconsegnate all’oblio. Impressioni registrate da quel substrato della coscienza non vigile. Movimenti involontari. Particolari d’ambiente: il dettaglio della lampada a olio che dondola, gli sguardi incuriositi dei passeggeri. Ancora il treno, luogo cinematografico per eccellenza: noir, western, migliaia di partenze e di addii, mozziconi ancora umidi ammassati nei posacenere a specchio, cabine letto in cui si ha amato o ucciso. Il particolare dei macchinari fumanti, tedesco (meglio: “langhiano”) all’inverosimile. Pistoni in funzione. Il fingerpicking di Neil Young che, a passo di lumaca, sfibra la sei corde in un balbettio di elettricità pura. Blake, timido e riservato, che cerca un appiglio visivo, ma tutto gli è estraneo.”Guarda, stanno sparando ai bisonti” dice ancora il macchinista, impassibile, mentre dai finestrini del vagone si consuma la carneficina. E continua a fissare Blake. Impaurito, William si raggomitola su se stesso, aggrappandosi alla sua valigia, al pezzo di carta che certifica la sua assunzione presso la ditta Dickinson, alle certezze che, passo dopo passo, gli verranno tolte. Come svanite. Dissolvenza.***

Filmato in uno splendido bianco e nero, “Dead Man” non è un film western (alcuni lo hanno paragonato al “guscio di un western”) e non rispetta nessuno dei clichè o dei codici morali che, da Ford in poi, hanno contraddistinto il genere in questione, nemmeno dopo la rivoluzione messa in atto da Sam Peckinpah. I riferimenti appaiono altri, per lo più estranei: le meditazioni sacrali di Yasujiro Ozu, l’epica di Akira Kurosawa, il gusto per la decostruzione di matrice postmoderna dell’Altman di “McCabe & Mrs. Miller” o, se proprio si vuole fare gli chic, la mistica vergata da Alejandro Jodorowskj ne “El Topo” (tutti film fatti su misura per “Fuori Orario”, tanto per intenderci). Questo perché “Dead Man” è un percorso interiore, un’allegoria esistenziale ambientata casualmente (mica poi tanto…) nel Far West ma in realtà senza tempo né spazio, solenne tentativo di visualizzare (l’assenza del)la vita e, in contemporanea, perfezionare i canoni estetici di una poetica intera.

La trama è presto detta: il giovane William Blake (un Johnny Depp che sarà ormai stereotipato quanto si vuole, ma resta corpo cinematografico di rara malleabilità) giunge da Cleveland alla città di Machine, lì ha un paio di “disavventure” con la gente del luogo e, gravemente ferito, si trova costretto a fuggire attraverso labirinti di boscaglia e montagne. A guidarlo in questo percorso è l’indiano sui generis chiamato “Nessuno”, mediatore fra la cultura occidentale e quella dei pellerossa, bislacca figura in cui collidono i temi, da sempre cari a Jarmusch, dell’integrazione e dell’amicizia fra stranieri. Mentre i due “senza patria” penetrano la natura ispida e terminale del landscape, il loro cammino assume, poco a poco, i connotati di un percorso iniziatico durante il quale Blake si prepara al trapasso, al proprio impercettibile dissolversi in slow motion. L’apprendimento della violenza e la comprensione della sua crudele poesia (“Sembra quasi una cazzo di immagine sacra” bofonchia uno dei sicari incaricati di stanarlo, guardando il cadavere di uno sceriffo) sono, in questo contesto, tappe obbligate per dare senso a un’esistenza percepita come forma neutra, mediana: innocuo meccanismo biologico disposto a “farsi vita” soltanto nel momento in cui Blake lascia di sé traccia, seminando cadaveri.

Machine è l’ultima fermata di un uomo che già aveva perso tutto (i genitori, la fidanzata) e che si prepara all’ultimo viaggio: la pallottola conficcata vicinissima al suo cuore è indizio del processo di decomposizione, silenziosa ma ingombrante presenza di una morte “in potenza” che attende di farsi evento sensibile. Ci sarebbe voluto Chris Watson (ex Cabaret Voltaire) a piazzare microfoni dentro la quasi-carcassa e registrare il tutto, ma fa niente: basta (e avanza) concentrarsi sulla macchina da presa, occupata a interiorizzare un paesaggio di corpi senza peso, spesso facendosi tutt’uno con il senso di disorientamento provato dal protagonista nel vedersi scivolare via da se stesso, dal proprio essere. Un togliere (da noi stessi, dagli altri) senza avere in cambio alcunché, se non la consolatoria cessazione degli affanni. E del proprio respiro.

Nessuno (rivolgendosi a Blake): “Hai ucciso l’uomo bianco che ti ha ucciso?”
Blake: “Io non sono morto…”
Dissolvenza.

***

Simbolo dell’ansia di rinnovamento che ha attraversato il cinema indipendente americano nei primi anni 80, quello di Jarmusch è uno sguardo fisso, esilarante ma disincantato sulle miserie ontologiche di un tempo che non scorre, non progredisce, fossilizzandosi bensì in fermo immagine di vita anemica. Il gesto, almeno inizialmente (si veda il lungometraggio d’esordio “Stranger Than Paradise”, datato 1984), guarda a Wim Wenders come nume tutelare ma se ne emancipa alla svelta, abbinando alla povertà di mezzi e al feeling amatoriale, la dolorosa (blasfema, per alcuni) uniformità delle location: tutte le città sembrano uguali, tutte le vite paiono svolgersi secondo codici comportamentali predefiniti. La fotografia stessa anestetizza le tonalità, spalma ettolitri di bianchi e gradazioni chiare, rifugge da qualsivoglia gioco di luci espressionista; livella, in ultimo, ogni superficie, ogni emozione. Cinema che sopravvive come immobilità “etimologica”, nonostante il perpetuo nomadismo dei personaggi.

Quello di Jarmusch resta, in fondo, teatro dell’assurdo, degli accostamenti improbabili: il giullare Roberto Benigni nel jailbreak movie “Down By Law”, Forest Whitaker a misurarsi con le arti samurai in “Ghost Dog”, il bambolotto Iggy Pop e l’orco Tom Waits a farsi un caffè e mal celare la reciproca (e si spera finta) antipatia in uno degli episodi più spassosi di “Coffee And Cigarettes”. Personaggi che, a scapito del loro intimo fulgore, sono condannati in partenza, poiché a nulla servono i loro tentativi d’evadere da una realtà estranea, aliena tanto quanto il risuonare “ungherese” di “I Put A Spell On You” (Screamin’ Jay Hawkins) nei ghetti di New York, durante quel memorabile carrello di “Stranger Than Paradise”.

Pure in “Dead Man” resta intatto il gusto per il paradosso e il confronto fra culture, così come l’utilizzo di espedienti narrativi apparentemente risibili: l’intrallazzo del protagonista con la ragazza che fabbrica rose di carta, i cazzeggiamenti dei tre gringos assoldati per “finire” Blake, o l’incontro con un trio di guerci in cui ancora Iggy Pop veste i panni della massaia (!). Eppure lo humour beffardo che sgorga dall’opera non riesce a far passare in secondo piano l’intima tragicità di un road movie tranquillamente equiparabile non tanto alla (ri)scoperta di un “Nuovo Mondo”, quanto all’esplorazione di un’eterna e immutabile wasteland senza identità.

Road movieperché tutti i film di Jarmusch, in un modo o nell’altro, lo sono. In ognuno di essi emerge, per mezzo del viaggio (poco importa che sia effettivamente “sulla strada” e ne rispetti i canoni formali), un nuovo volto dell’America che contraddice il precedente. Un’America indecifrabile, inafferrabile perché spettro, lenzuolo fissato alla meglio sui pioli dell’anonimato. Un cumulo di frammenti e interrogativi che il recente, sottovalutato e invero splendido “Broken Flowers” trasfigura in “leggera” investigazione sulla natura della materia degna di un Antonioni o, volesse il cielo, d’uno Tsai Ming-Liang. Soprattutto, il cinema di Jarmusch è diventato, col tempo, ricerca di verità e di saggezza, voglia di senso. Perché l’America non esiste. Esiste il Mondo. Dissolvenza.

http://www.ondacinema.it/film/recensione/dead_man.html

GHOST DOG – IL CODICE DEL SAMURAI

(Ghost Dog. The Way of the Samurai )

di Jim Jarmusch

Produzione: U.S.A. / Francia / Gran Bretagna

1999

Genere: Drammatico

durata: 116′

Interpreti: Forest Whitaker, John Tormey, Isaach De Bankolé, Henry Silva, Cliff Gorman, Tricia Vessey, Victor Argo

Sceneggiatura: Jim Jarmusch

Fotografia: Robby Muller

Montaggio: Jay Rabinowitz

Scenografia: Ted Berner

Colonna Sonora: Rza (Wu-Tang Clan)

TRAMA

Ghost Dog è il soprannome di un uomo di colore, che vive solitario in una sporca terrazza new-yorkese seguendo il codice di comportamento dei samurai, nel caso specifico facendo il killer per il malavitoso che gli salvò la vita quando era ancora un ragazzino. Egli persegue questa sua etica fino alle estreme conseguenze…

RECENSIONI
L’Ultimo Samurai

Un’apologia del “samurai” che comincia come un film di Spike Lee e finisce come una sfida western alla Peckinpah sulle strade di New York: questo è, in una frase, l’ultimo lavoro di Jim Jarmusch. Sono passati infatti i tempi della new-wave che aveva consacrato Jarmusch come il talento più limpido di un cinema minimalista, scarno, surreale e autoironico del panorama statunitense. E’ arrivato il successo e i soldi delle grandi major americane, i notevoli mezzi messi a disposizione, grandi attori, insomma lo stile da indipendente caratteristico marchio di fabbrica del regista newyorkese si è affievolito col tempo fino a scomparire del tutto; eppure…. eppure questo Ghost Dog, più del precedente “Dead Man”, è “ancora” indiscutibilmente un film di Jarmusch oltre che uno dei più bei ritratti del cinema di questi anni. L’uomo soprannominato “Ghost Dog”, impersonato da un immenso Forest Whitaker è un personaggio che conserva alcuni dei tratti tipicamente jarmuschiani: è un uomo solitario, schivo, di poche parole,  auto-emarginatosi da un mondo che vede ostile. Tuttavia ciò che differenzia questo personaggio dai suoi precedenti è che questi  erano in fuga “dalle regole”, in un certo senso anarchici (“Stranger than Paradise” e “Daunbailò”), oppure in fuga dalla loro assenza (“Dead Man”) mentre Ghost Dog fa delle regole (di una regola) il motivo fondamentale della sua vita. Difficilmente si possono trovare dei precetti più rigidi di quelli elencati nel “Libro del Samurai” che il protagonista segue alla lettera ma sembra che l’osservanza stretta delle sue norme sia tanto più necessaria quanto più senza regole appare l’umanità degradata e smidollata che popola la città. La descrizione della malavita pseudo-mafiosa che Jarmusch ci propone è la stessa che Eastwood fa del mondo western negli “Spietati” : i personaggi sono miserabili, antieroici, mediocri, spesso ridicoli, ma il regista evita di farne una macchietta (come capita ormai sistematicamente a tutti i film con mafiosi), e contemporaneamente si astiene da un’acida e corrosiva satira su di essi, presente in misura maggiore, se vogliamo, nel nerissimo e molto più grottesco “Dead Man”: la simpatia che in fondo nutre Jarmusch nei confronti di una pur squallida umanità (che sembrava scomparsa nell’ultimo lavoro) gli impedisce di non vedere in questi malavitosi degli esseri da commiserare più che da deplorare, prendendoli in giro ma senza cattiveria, mostrandoli spesso nelle loro stramberie (che hanno ben poco di mafioso in certi casi come la passione del vice-boss per la musica rap o una generalizzata ebete attrazione per i cartoni animati) con un tono leggero-surreale perfettamente in linea con la sua prima produzione. Tono che raggiunge vertici di godimento nei dialoghi (si fa per dire…) tra Ghost Dog ed il suo unico amico, un nero hawaitiano che parla esclusivamente francese, elemento narrativo indiscutibilmente personale e che non può non far pensare all’analogo tra Benigni e il duo Waits-Lurie in “Daunbailò”, quasi a ribadire che la lingua comune non è indispensabile per instaurare una “comunicazione”, che può nascere invece dalla curiosità per un uomo “esotico”, visto quasi come un extraterrestre.
Ma non è questa fine leggerezza a fare di un discreto film un grande film. L’intera pellicola è intrisa da potenti, suggestivi simboli TUTTI finalizzati a rappresentare il rapporto padrone-servitore. Dai lanci dei piccioni viaggiatori (servitori di Ghost Dog) utilizzati dal protagonista per comunicare con il suo padrone, servitore a sua volta del capomafia; al cane nel parco, (di potenza epica tipicamente orientale la sua ripresa frontale), l’animale fedele per definizione che sembra voglia farsi “assumere” dal samurai; dall’allusivo “Frankenstein” di Mary Shelley, che il nero samurai vede nelle mani di una ragazzina incontrata per caso nel parco convincendolo che essa è la persona da “iniziare” e alla quale passare le consegne (passaggio che si concretizzerà al termine della storia); alla pallida figlia del boss (un’eroticissima Tricia Vessey) che silenziosamente, anche lei assolvendo un compito, rimane fedele al suo uomo fino alla morte (dell’uomo), in un grottesco e farsesco susseguirsi di amanti diversi. Certamente alcuni simboli sono eccessivi o non appropriati: è fuori luogo la presenza continua del libro Rashomon che passa da una mano all’altra la cui storia non ha nulla a che vedere con lo spirito del samurai (l’unico collegamento è quello con Kurosawa che ci ha tratto un film, ma il regista giapponese, se è per questo, ha realizzato anche “La Sfida del Samurai” in cui il servitore cambia goldonianamente padrone a seconda dei vantaggi…). Anche il duello finale dall’esito inevitabile (praticamente un suicidio) con il padrone Loui sembra stonare, avrebbe senso se questi fosse “realmente” e non solo “formalmente” un samurai, cioè se servisse il boss con la stessa abnegazione e arditezza che Ghost Dog dimostra nei suoi confronti, ma il momento in cui il malavitoso ha avuto coraggio (quando salvò la vita al giovane Ghost Dog) è passato per sempre e la frase finale (“meglio tu che me”) ha molto poco di cavalleresco; lo stesso parallelo fra il protagonista e l’orso è sovrabbondante oltre che utilizzato già abbastanza in “Dead Man”.

Attorno al tema centrale si aggiungono innumerevoli altri argomenti ad esso correlati, come il rito e la morte. La morte aleggia continuamente su Ghost Dog come sui samurai del passato, è una sorta di approdo, quasi un premio, poiché è la logica conclusione del buon operato; aver paura della morte è un errore  perché può condizionare l’efficienza del servitore nei confronti del padrone e se questi muore, il disonore per non averlo salvato sarà incancellabile ed il rimorso implacabile. La ritualità del protagonista è quasi maniacale e non si limita ai precetti del libro ma si estende nella ripetitività degli atti quotidiani; d’altra parte non avrebbe alcun senso modificare lo stile di vita. Non è un caso infatti che la storia di Ghost Dog ripercorra alla lettera i passi del libro (letti a capitoli da una voce off), perché il vero samurai “non ha scelta”, ha un destino segnato.
Lo stile di Jarmusch, si è detto, è cambiato, quanto prima lavorava per sottrazione tanto ora predilige l’iperbole (dato anche il soggetto) e il visionario, e i suoi fidati collaboratori Muller e Rabinowitz lo assecondano in maniera mirabile. Particolarmente affascinanti sono alcune sequenze: l’hip-hop che accompagna le sue missioni in una tetra New York notturna sembra avere la stessa funzione che avevano le grida di battaglia dei guerrieri orientali; l’esercitazione con una pistola usata come una sciabola, resa ancora più fascinosamente epica dall’utilizzo di pellicola trasparente, il suo rapporto con i piccioni viaggiatori in una lurida terrazza, rapporto a due livelli, di cura in quanto il padrone deve mantenere il servitore e di lavoro (i piccioni lavorano e muoiono per Ghost Dog); in vero stile western-ganster le scene “action”, leggermente rallentate, in particolare lo sterminio della “famiglia” e il duello finale.
Citazionista come tutti i registi new-yorkesi che guardano all’Europa e anche oltre, Jarmusch infarcisce di riferimenti cinematografici recenti e meno recenti la sua trama narrativa. Al di là dei più scontati, può essere interessante nominarne alcuni di quelli più singolari: il rapporto tra il solitario protagonista e i suoi piccioni è un bell’ omaggio a “Fronte del Porto”; mentre lo scontro tra un uomo forte e una malavita degradata e smidollata è trattato in modo molto simile nel contesto completamente diverso della S.Pietroburgo di “Brother” di Balabanov; le tematiche inerenti al samurai sono state invece trattate di recente nel sottovalutatissimo “Ronin” di Frankenheimer che ne ha illustrato alcuni aspetti affascinanti e non molto dissimili da quelli di Ghost Dog, come la presenza opprimente della morte attorno ai “ronin”, punto di arrivo pressoché inevitabile per un samurai senza padrone, e per questo facilmente esorcizzabile, consentendo vieppiù ai killer azioni non condizionabili da qualsiasi tipo di emozione e di conseguenza pressoché infallibili.
In conclusione un film potentissimo, originale,  pieno di spunti di riflessione, con un ritmo fenomenale nelle sequenze “action”,  e senza cadute di tensione quando il tono si fa più da commedia, leggero, surreale, ironico, in una frase: “alla Jarmusch”.

Daniele Bellucci

http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=495

COFFEE AND CIGARETTES
TRAMA

Al tavolino di un bar, sorseggiando caffé, fumando sigarette.

RECENSIONI

C&C riunisce alcuni corti girati dal regista in diversi anni (il più vecchio, protagonista Roberto Benigni, risale al 1986, l’epoca di DOWN BY LAW), una serie di quadretti che ritraggono la strana umanità jarmushiana, placidamente persa nel gusto della conversazione oziosa, nel voluttuoso mix di fumo e caffeina. Si passa dal memorabile duetto tra Iggy Pop e Tom Waits (all’epoca vincitore a Cannes di un premio per il miglior cortometraggio), in cui i due vecchi marpioni si prendono sublimemente per il culo, al face to face tra una diva e sua cugina (entrambe interpretate da Cate Blanchett), al surreale, e piuttosto divertente, duetto tra Meg e Jack White (sì, proprio i White Stripes). I piccoli schetch, non tutti riusciti (in alcuni pesa un artificio che sconfina ben presto nella noia), compongono una discontinua sinfonia, vagamente esistenzialista, in cui il chiacchiericcio ameno e un po’ demenziale va dalla nicotina ad Elvis, dalle innovazioni introdotte da Nikola Tesla alla preparazione di un té all’inglese. Ambienti essenziali, camera fissa: Jarmush con pochi schizzi ci offre uno spaccato del suo mondo disseminando nella scena, di volta in volta, piccole tracce e citazioni (gettate uno sguardo ai quadri alle pareti) e invitando alcuni amici a divertirsi con lui: Bill Murray, Steve Bushemi, Alfred Molina tra gli altri. Il bianco del fumo e il nero del caffé sono la cifra costante di un work in progress minimalista che (pare) continuerà.

Luca Pacilio

http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=225


The Genius of Jim Jarmusch : Permanent Vacation – Only …

Jim Jarmusch: Daunbailo’ | controappuntoblog.org

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