Se amor mi fa spergiuro, come giurare amore?
Su questa terra avara d’ogni voto costante,
io sarò a me spergiuro, a te fedele amante;
beltà sola conquide promessa che non muore.
Validi nel mio spirto come querce i pensieri,
ma a te s’inchinan lievi come canne di giunco.
Lascio i miei libri e leggo entro i tuoi occhi a lungo,
e assaporo dell’arte gli struggenti piaceri.
Se in questa nostra vita il fine è conoscenza,
conoscerti è profonda dottrina; alta sapienza
è la parola intesa a dir la tua virtude.
Foschi lampi di Giove il tuo sguardo dischiude,
trema nella tua voce cupo tuono possente,
ma se placata è l’ira, dolce suono e bagliore.
O creatura celeste, perdona ora all’amore
per averti cantato così miseramente.
Natalia Ginzburg
Gli uomini vanno e vengono
per le strade della citta’
Comprano libri e giornali,
muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso,
le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo
per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo
con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta.
Era il viso consueto,
solo un poco piu’ stanco.
E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe erano quelle di sempre.
E le mani erano quelle che
spezzavano il pane e
versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo
che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso
per l’ultima volta.
Se cammini per strada
nessuno ti è accanto
Se hai paura
nessuno ti prende per mano
E non è tua la strada,
non è tua la città.
Non è tua la città
illuminata. La città
illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno
e vengono comprando
cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco
alla quieta finestra
a guardare il silenzio,
il giardino nel buio.
Allora quando piangevi
c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi
c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera
s’apriva, restera’ chiuso
per sempre, e deserta
è la tua giovinezza.
Spento il fuoco,
vuota la casa.
(in memoria del marito Leone Ginzburg, letterato, morto per le torture in un carcere fascista
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