Twilight in Italy – Sea and Sardinia -” Mare e Sardegna”- G, Verga , “Bat” : D H Lawrence

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Giovanni Verga – Mastro-don Gesualdo

(Studio su Giovanni Verga e le sue opere, di D.H.Lawrence.
Tratto da: Phoenix,  London, William Heinemann, 1936. Scritto nella primavera del 1922. Trad. di Marta Sofri Innocenti)

È curioso il fatto che la letteratura italiana moderna abbia influito così poco sulla coscienza europea. Cento anni fa, quando uscirono, I promessi sposi vennero accolti dal plauso di tutta l’Europa. Insieme alle opere di Sir Walter Scott e di Byron, rappresentavano per gli europei il «fascino dei romanticismo». Ciò nonostante, dov’è finito ora Manzoni, anche rispetto a Scott e a Byron? Nei fatti, voglio dire. Ufficialmente I promessi sposisono un classico, anzi di solito sono considerati il classico fra i romanzi italiani. Non esiste un manuale di letteratura da cui sia assente questo libro. E tuttavia chi io legge? Anche in Italia, chi lo legge? Eppure a mio avviso è uno dei romanzi migliori e più interessanti che sia mai stato scritto: è certamente un libro più grande di Ivanhoe o di Paul et Virginie o di Werther. Allora perché nessuno lo legge? Perché viene considerato noioso? La compianta Katherine Mansfield, a cui ne avevo fornito una buona traduzione inglese, mi disse, con mio grande stupore, che non era riuscita a leggerlo perché l’aveva trovato troppo lungo e noioso.

La stessa cosa è successa a Giovanni Verga. Verga universalmente riconosciuto come il maggiore romanziere italiano dopo Manzoni: nonostante questo, nessuno lo prende in seria considerazione. Per quel che se ne sa Verga è semplicemente l’uomo che ha scritto il libretto della Cavalleriarusticana. Mentre invece, in effetti, la novella di Verga Cavalleriarusticana ha con la musica piuttosto volgare di Mascagni lo stesso rapporto del vino con l’acqua zuccherata. Verga è uno dei massimi maestri dei racconto. Nel volume Novellerusticane e in quello intitolato Cavalleriarusticana ci sono alcune delle novelle migliori che siano mai state scritte. Alcune sono brevi e pungenti come quelle di Cechov. A me sembrano anche migliori. Eppure nessuno le legge. Sono «troppo deprimenti». Per quel che mi riguarda, trovo che non mi deprimono neanche la metà dei racconti di Cechov. Veramente non capisco il gusto popolare.

Verga ha scritto parecchi romanzi, di diverso tipo, molto differenti tra loro. Era nato intorno al 1850 ed è morto, credo, all’inizio del 1921. Quindi è un moderno. Allo stesso tempo è un classico. Ed è anche passato di moda.
I primi romanzi sono piuttosto sul tipo dei romanzi francesi degli anni dopo il 1870: Octave Feuillet, con un pizzico di Gyp. C’è la storia deprimente del giovanotto siciliano che si sposa a Napoli e nell’ultima pagina dà alla moglie un attesissimo schiaffo in faccia. C’è poi quella storia macabra, Tigrereale, della contessa russa (o era una principessa?, non mi ricordo) che va a Firenze e fa innamorare di sé il giovane siciliano, e ne nasce tutta un’orribile vicenda: lei, la donna strana e misteriosa, che muore di consunzione, lui stranamente e inspiegabilmente infatuato, alla maniera meridionale un po’ suicida. Il tutto è un po’ nello stile di Matilde Serao, e piuttosto sgradevole, ma non per questo meno efficace.
Verga stesso era siciliano; veniva da uno dagli sperduti villaggi agricoli dei sud dell’isola. Era un gentiluomo; non ricco, pare, ma abbastanza agiato. Da giovane andò a Napoli, poi fece il giornalista a Milano e a  Firenze. Infine sì ritirò a Catania, dove passò la vecchiaia in aristocratica solitudine. Era un uomo robusto, di statura piuttosto bassa, con grandi baffi rossi. Non si sposò mai.

D.H.Lawrence
La sua fama poggia sui suoi due romanzi siciliani, I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, oltre che sui volumi dì racconti, Cavalleriarusticana, Novellerusticane e Vagabondaggio. Sono tutti ambientati in Sicilia, come anche il romanzo breve Storia di una capinera. Di questo ultimo libriccino uno dei giovani più in vista del mondo letterario italiano mi ha detto l’altro giorno a Roma: « Ah, sì. Verga! Qualcosa si salva! Ma una cosa come Storia di una capinera, adesso, è ridicola».
Ma perché? È piuttosto sentimentale, forse. Ma non lo è più di Tess. E il sentimentalismo mi sembra appropriato ai caratteri siciliani del libro, è coerente col tipo di personaggio, proprio come il sentimentalismo della Canzone di Natale di Dickens o di Silas Marner di George Eliot, opere ambedue «ridicole» se volete, ma che ciò nonostante continuano a vivere.
Il guaio di Verga, come di tutti gli italiani, è che non si riesce mai a trovargli una collocazione esatta. Quando si legge Manzoni, ci si domanda se non è più «gotico» o germanico che italiano. Allo stesso modo la visione che Verga ha della vita sembra anch’essa presa in prestito: dai francesi, questa volta. Con D’Annunzio è lo stesso: è difficile credere che sia veramente spontaneo, dà sempre l’impressione di star recitando una parte. Al giorno d’oggi questo gioco lo continua Pirandello. Gli italiani sono così: recitano sempre una parte per cercare dì essere all’altezza di una visione altrui della vita. Scrittori come Hardy, Meredith, Dickens, sono non meno sentimentali e artifìciosi degli italiani, a modo loro. Si tratta semplicemente della nostra particolare marca di falsità e sentimentalismo.
Ciò nonostante, non si può fare a meno di pensare che Hardy, Meredith, Dickens e Maupassant, benché in parte falsi anche loro, la vita però la guardano con i loro propri occhi. Mentre invece gli italiani danno l’impressione di star sempre prendendo in prestito gli occhi di qualcuno per guardare, e di  riversare poi una gran quantità di emozioni in un quadro sostanzialmente di seconda mano.
È questo il guaio di Verga. Ma d’altra parte, tutto quello che Verga fa ha un carattere strano, tipico suo, inconfondibile. La sua visione complessiva, però, forse non è del tutto sua; tutti i suoi movimenti sono suoi, ma il motivo principale è preso in prestito. Questo è l’aspetto che non mi piace della letteratura italiana, nei limiti in cui la conosco.
Il tema principale, la visione globale di tutta a letteratura del diciannovesimo secolo, è quello che noi chiameremmo la visione emotivo-democratica. Mi sembra che fin dai 1860, o forse addirittura dal 1830, gli italiani abbiano sempre mutuato i loro ideali di democrazia dalle nazioni settentrionali, riversandovi una forte carica di emozioni, senza che l’innesto di questi ideali abbia mai attecchito veramente. Alcuni dei martiri più ammirevoli della democrazia sono stati dei napoletani di alto lignaggio e di notevole cultura. E tuttavia essi mi fanno pensare a un tentativo di vivere con i lumi di qualcun altro.

Il primo romanzo siciliano di Verga, I Malavoglia, è di questo tipo. È stato considerato il suo lavoro migliore. È effettivamente un grande libro. Ma è un parti pris; è unilaterale: perciò è superato. Si insiste troppo sulla tragica sorte dei poveri, in questo libro. Si sguazza nella tragedia: la tragedia degli umili. Il libro appartiene a un periodo in cui gli umili erano quasi la cosa più alla moda che ci fosse. E I Malavoglia sono umilissimamente umili: siciliani della costa, pescatori, piccoli commercianti: la loro umile tragedia viene talmente caricata da diventare quasi disastrosa. Il romanzo è stato pubblicato in America con il titolo The House by the Medlar Tree, ed è ancora reperibile. È un grande libro, un grande quadro di vita povera in Sicilia, sulla costa a nord di Catania. Ma l’aspetto pietoso è piuttosto esagerato, un po’ come i quadri lacrimevoli di Bastien Lepage. Nondimeno, è essenzialmente un quadro fedele, e diverso da qualsiasi cosa nella letteratura. Nella maggior parte dei libri di quel periodo  anche in MadameBovary, per non parlare del Lys dans la valIée di Balzac  si deve eliminare circa il venti per cento della tragedia. Lo si fa per Dickens, lo si fa per Hawthorne, lo si fa in continuazione, con tutti i grandi scrittori; e allora, perché non farlo per Verga? Basta togliere circa il venti per cento della tragedia dai Malavoglia. e vedrete che grande libro rimane. Buona parte dei libri che vivono, vivono in barba al fatto che l’autore ha esagerato. Pensate a Cimetempestose: per un italiano è un libro impossibile, proprio come I Malavoglia lo è per noi. Ma è pur sempre un grande libro. Il guaio del realismo  e Verga era un realista  è che lo scrittore, quando è un uomo veramente eccezionale come Flaubert o Verga, cerca di infondere il proprio senso della tragedia in personaggi la cui statura è decisamente minore della sua. Credo che la critica più grave che si possa rivolgere a MadameBovaryè che personaggi come Emma Bovary e suo marito Charles sono semplicemente troppo insignificanti per poter portare tutto il peso del senso di tragedia che ha Gustave Flaubert. Emma e Charles Bovary sono persone banali; Gustave Flaubert non è una persona banale. Ma, dato che è un realista e non crede agli «eroi», Flaubert insiste nel riversare la propria coscienza tragica, profonda e amara, nei gretti personaggi del medico di provincia e di sua moglie. C’è quindi una discrepanza. MadameBovary è un grande libro e un bellissimo quadro di vita. Ma non possiamo fare a meno di essere infastiditi dal fatto che la grande anima tragica di Gustave Flaubert venga infusa, per così dire, nei corpi piuttosto mediocri di Emma e Charles Bovary. La cosa non torna: perché questo avvenga occorre aggiungere al vestito troppi rammendi, che poi si vedono.
La grande anima tragica di Shakespeare prende in prestito i corpi di re e principi; non per snobismo, ma per affinità naturale. Non sì può mettere una grande anima in una persona ordinaria. Le persone ordinarie hanno anime ordinarie. Non basta tutta la nobile simpatia di Flaubert o di Verga per i Bovary e i Malavoglia a impedire ai suddetti Bovary e Malavoglia di essere personaggi ordinari. Essi erano stati scelti consapevolmente appunto perché erano ordinari e non eroici. Gli autori insistevano sul «tesoro degli umili ». Ma hanno dovuto prestare a questi umili la parte migliore del proprio tesoro, altrimenti i suddetti umili non avrebbero avuto un gran che da mostrare.
Quindi, se I Malavoglia è passato di moda, lo è anche MadameBovary. Questi libri appartengono al periodo emotivo-democratico del diciannovesimo secolo, al periodo del «tesoro degli umili ». È un periodo che attualmente per l’appunto è piuttosto fuori moda. Noi sentiamo ancora troppo l’influenza del tesoro degli umili, Quando l’emozione sarà uscita completamente da noi, potremo accettare MadameBovary e I Malavoglia con la stessa libertà di spirito e con lo stesso distacco con cui accettiamo Dickens o Richardson.

In Mastro-don Gesualdo, comunque, il «tesoro degli umili » è molto meno presente che nei Malavoglia. Qui Verga non tratta del disastro della miseria chiamandolo tragedia. Al contrario, si è un po’ stancato della miseria; vuole un eroe che lotta e che vince, che si fa il suo gruzzolo e poi soccombe sotto il peso del gruzzolo.
Mastro-don Gesualdo era agli inizi un contadinotto scalzo, per niente «don». Diventa molto ricco. Ma tutto quello che ne cava è che gli cresce dentro un grande tumore di amarezza, che lo uccide.
Verga deve avere conosciuto nella vita reale il prototipo di Gesualdo. Lo ritroviamo nella bellissima storia realistica della Cavalleriarusticana: è un piccolo contadino grasso, che è diventato enormemente ricco sfruttando all’osso i suoi braccianti, e ora è malato e deve morire. Questo ometto non ha assolutamente nulla di eroico. Ma una volontà avida e indomabile, ma questo è l’unico tratto che ha in comune con il carattere piuttosto attraente dl Gesualdo.
Gesualdo è attraente, e, in un certo senso, eroico. Ma non gli viene consentito di affermarsi nel senso eroico di una volta, con spavalderia e nobiltà, né di torreggiare sugli altri. Gli viene permesso di avere qualità eccezionali e, soprattutto, una forza eccezionale; ma questo non fa di un uomo un eroe. Un eroe deve essere tale per grazia di Dio, e deve averne una certa consapevolezza. Anche gli antichi paladini avevano una grande stima di sé come personaggi esemplari. Amleto aveva la stessa idea di sé: «E non è una dannata beffa che proprio io avessi da nascere per rImetteri in sesto?». Amleto non riuscì a rimettere in sesto niente, ma si sentiva così. Tutti gli eroi devono sentirsi così.
Ma a Gesualdo, a Jude e a Emma Bovary non è permesso di avere sentimenti di questo genere. Riguardo al destino, essi non avevano una sensibilità maggiore della media. Questo perché appartenevano al mondo realistico.
Gesualdo è semplicemente  un uomo qualunque dotato di una energia fuori dei comune. Questa, naturalmente, è l’intenzione, Ma è un siciliano: e qui sta la difficoltà; perché l’era realistico-democratica ha eluso il dilemma del non avere eroi stabilendo che ogni uomo è l’eroe di se stesso. Questo principio si concretizza per mezzo di quella che noi chiamiamo intensità soggettiva, e in questo campo del soggettivamente intenso e dall’ « ognuno è l’eroe di se stesso» i russi si sono spinti più avanti di tutti. Il più banale e miserevole dei tagliaborsa è così prodigiosamente cosciente dalla propria anima, che noi siamo indotti a chinare la testa di fronte ai bagliori e ai lampi immaginari che si accendono dentro di lui. La letteratura russa è più o meno tutta qui: nei prodigiosi lampi e bagliori dell’anima di persone del tutto ordinarie.
Certo che la vostra anima manderà lampi, se voi credete che lo faccia. È per questo che i russi piacciono tanto. Non importa quanto siate squallidi e mediocri, potete sempre imparare da Dostoevskij, Cechov, ecc., ad avare l’anima più tenera, più singolare, più sfolgorante di questo mondo. E potrete essere enormemente più importanti di fronte a voi stessi: il che è la mira segreta di tutti gli uomini. L’eroe se la poneva apertamente; l’uomo comune sa la pone in cuor suo, anche se agli altri dice di non sentirsi migliore di nessun altro. Il fatto stesso che lo affermi dimostra che non ci crede minimamente. Ogni personaggio di Dostoevskij in cuor suo è convinto di essere incomparabile, unico al mondo.
Qui invece, con i siciliani, siamo agli entipodi. I siciliani semplicemente non hanno una idea soggettiva di se stessi o di un’anima. Non prendiamo in considerazione, ovviamente, quel buffo piccolo alter ago che è l’anima, che si può cavar fuori dal purgatorio a suon di preghiere e spedire in paradiso, e che è quanto c’è di più oggettivo. Il siciliano non ha un’anima, nel senso che noi diamo alla parola. Gli manca del tutto il nostro genere di coscienza soggettiva, l’idea di se stesso come anima. Le anime per lui sono piccole persone nude che saltellano penosamente su un tetto che scotta e che alla fine sono ammesse in un giardino piano di fiori, di musica e di gente bigotta, chiamato paradiso. Gesù è un uomo che è stato crocifisso da una masnada di stranieri e di furfanti, e che può aiutarvi a combattere tutti i mascalzoni che ci sono in giro. comprese le streghe.

Il  Gesù che si tortura, l’Amleto che si tortura. semplicemente non esistono. Perché un uomo dovrebbe torturarsi da sé, chiederebbe Gesualdo con stupore: ci sono già abbastanza mascalzoni al mondo che lo torturano!
Naturalmente, parlo dei siciliani dei tempi di Verga, cinquanta, sessanta anni fa, prima della grande emigrazione in America, e prima che alcuni siciliani tornassero in patria portando con sé un po’ di dollari e qualche barlume dì consapevolezza di sé, almeno su un piano politico.
Così, in Mastro-don Gesualdo, abbiamo una vera e propria antitesi di quello che vediamo nei FratelliKaramazov. Sarebbe difficile immaginare qualcosa dì più lontano dai russi di Verga: eccetto Omero. Ma Verga ha la stessa sorta di compassione che hanno i russi. E, al pari di loro, è un realista. Non vuole saperne di eroi e di appelli agli dei del cielo o dell’inferno.
I siciliani di oggi, si dice, sono quanto c’è di più vicino ai greci dei tempi classici: cioè sono i loro discendenti più prossimi sulla terra. In Grecia oggi non ci sono greci. Ipiù vicini sono i siciliani, i siciliani della
zona orientale e sud-orientale dell’isola.
E a pensarci bene Gesualdo Motta potrebbe davvero essere un greco posto in un ambiente moderno, eccetto per il fatto che non è un intellettuale. Ma anche molti greci non lo erano. E poi Gesualdo ha l’energia, la prontezza, l’intensità dei greci, la stessa viva passione per la ricchezza, la stessa ambizione, la stessa mancanza di scrupoli, la stessa strana schiettezza, anche se in realtà non arriva mai a compromettersi del tutto. Non è per niente furtivo, come gli italiani. Invece è astuto, di gran lunga troppo astuto e greco per farsi menare per il naso. Ma ha una certa franchezza, molta più di quanta ne abbiano in genere gli italiani, e anche molto più coraggio di loro. Il suo carattere intrepido e il suo strano tipo di audacia sono siciliani piuttosto che italiani, come anche la sua virile indipendenza.
È greco soprattutto per la sua mancanza di anima o di ideali elevati. I greci si preoccupavano molto di più di creare un’impressione di splendida audacia che di perseguire qualche nobile obiettivo. Amavano l’aspetto splendido dagli oggetti, il suono splendido dalle parole. Anche la tragedia per loro era un gesto grandioso piuttosto che qualcosa su cui stare a piagnucolare. Non erano certo tipi da struggersi o languire per qualcosa, e a meno che le Furie li perseguitassero per punirli, non si preoccupavano minimamente per i peccati, né per i propri né per quelli degli altri.
Quanto a farsi opprimere dal peso di un’anima, non si sarebbero certo macchiati di una simile scempiaggine.
Ma, ahimè, i nostri sono tempi di anime; le anime sono di moda, e avare un’anima per i giovani è importante quanto il solitario di carta lo è per un convalescente. Se uno non ha pensieri e sentimenti riguardo alla propria anima, che razza di persona può essere?
E Gesualdo non aveva pensieri e sentimenti riguardo alla propria anima. Era, senza incertezze a senza rimorsi, oggettivo, come tutte le persone che appartengono al sole. Al sole gli uomini sono oggettivi; nella nebbia e nella neve, sono soggettivi. La soggettività è legata in gran parta alla maggiore o minore pesantezza del soprabito che si porta. Quando si arriva a Ceylon, ci si accorge che per i bruni cingalesi anche il buddismo è una faccenda puramente oggettiva. E noi siamo riusciti a spiritualizzarla fino a un livello così soggettivo.
Poi c’è l’ambiente in cui è posto l’eroe. L’ambiente del sud della Sicilia descritto in Mastro-don Gesualdo è forse più vicino a un vero medioevo di qualsiasi altra cosa nella letteratura moderna, compreso il medievalismo sardo di Grazia Deledda. È la Sicilia dei Borboni, la Sicilia dal regno di Napoli. L’isola è incredibilmente povera e incredibilmente arretrata. Non esistono praticamente strade per veicoli provvisti di ruote, e di conseguenza non esistono veicoli provvisti di ruote, né carri né carrozze, al di fuori delle città. Tutto viene caricato sui dorso di asini o di muli, gli uomini viaggiano a cavallo o a piedi e, se sono malati, su lettighe trascinate da muli. La terra è nelle mani dei grandi latifondisti, i contadini sono quasi servi dalla gleba. Tutto è selvaggio e misero come in Russia, e nella case ducali di Palermo tutto è splendido e vistoso come in Russia.
Ma com’è diverso dalla Russia! Invece della selvaggia schiettezza del nord, c’è la vigilanza chiusa a guardinga delvecchio Mediterraneo. Per secoli, i popoli del Mediterraneo sono stati abituati a stare sul chi vive, intensamente sui chi vive: a stare in guardia, a essere sempre cauti e diffidenti. Così è anche oggi, nei villaggi. Tutti diffidenti, ogni individuo che diffida degli altri; questo, nonostante il ritorno degli «americani».
Com’è completamente diverso dalla Russia, dove la gente (almeno nei libri) è sempre così espansiva nei confronti degli altri e sta tutta la notte a bere tè e ad aprire la propria anima a qualcuno. In Sicilia, quando scende la notte, quasi tutti sono barricati in casa, salvo in estate, quando la notte viene più o meno scambiata con il giorno.
Tutto questo sembra ad alcuni buio e squallido e brutale a noioso. Non c’è anima, non c’è illuminazione di alcun genere. Non c’è un solo personaggio illuminato. Se ci fosse stato, se ne sarebbe andato via già da tempo, non sarebbe rimasto.
E per chi cerca un’illuminazione, quant’è noioso! Ma se avete una qualche sensibilità fisica per la vita, a parte la sensibilità nervosa come quella dei russi, tutta nervi, se siete minimamente in grado di capire e apprezzare il modo di vita meridionale, allora che fascino strano e profondo troverete in Mastro-don Gesualdo! Forse la nostalgia più profonda che io abbia mai provato è la nostalgia per la Sicilia che mi è venuta leggendo Verga. Non per l’Inghilterra o per qualsiasi altro paese: per la Sicilia, la bellissima Sicilia, quella che più di ogni altro luogo vi entra nel sangue. È così limpida, così bella, così simile alla bellezza fisica dei greci.
Eppure la vita della gente sembra tanto squallida, tanto inutilmente affannosa, tanto spregevole: come un viavai di scarafaggi. Poi, appena si esce dalle pareti grigie e squallide del villaggio, com’è meraviglioso al sole, con la terra di fronte. E anche le persone, prese una per una, hanno qualcosa della noncuranza, del coraggio, della semplicità dei greci antichi. Solo quando sono tutti insieme come cittadini sono squallidi. In mezzo alla campagna sono pomposi e sagaci, come i viandanti nell’Odissea. E i loro rapporti sono tutti curiosi e immediati, oggettivi. Sono così poco consapevoli di se stessi e tanto consapevoli invece degli effetti delle proprie azioni.
Tutto dipende da quello che state cercando. L’amore che Gesualdo nutre tutta la vita per Diodata è, dal nostro punto di vista, completamente impossibile. Gesualdo non attribuisce alcun valore al sentimento, o quasi nessuno: anche in questo è un vero greco. Ma c’è in questo sentimento una strana, triste bellezza, impersonale, un po’ come la storia di Rachele o di Rebecca. Appartiene a un mondo antico, in cui l’uomo è intensamente consapevole di quello che possiede, ma è solo vagamente cosciente dei propri sentimenti. E i sentimenti di cui non si è consapevoli è come se non ci fossero.
Gesualdo sembra così potente, così pieno di potenza: ma non ne viene fuori nulla, e lui non dice mai nulla. Tutto il contrario dei russi, che parlano in continuazione, per impotenza.
E alla fine abbiamo una tragedia miserevole e realistica, e si pensa che forse tutto il libro era fondato sulnulla e che Gesualdo non meritava la fatica di Verga.

Ma questo è perché siamo degli snob spirituali e pensiamo che un uomo, solo perché è capace di smaniare dicendo « Essere o non essere», sia una persona degna di considerazione. Il povero Gesualdo non aveva mai sentito parlare di essere o non essere, e anche se l’avesse sentito non ci avrebbe molto badato. Viveva ciecamente, con l’impetuosità del sangue e dei muscoli, con sagacia e volontà, senza mai prendere coscienza di se stesso. Chissà poi se il fatto di prendere coscienza di se stesso lo avrebbe in qualche modo migliorato.

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Snake – L’IMPOSTURA “MITOPOIETICA” DI D. HLAWRENCE . .

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