saluto al compagno Guido Barroero ; Il sindacato che vorrei

Questa  notte , dopo una lunga malattia, è morto il compagno Guido Barroero

Il sindacato che vorrei
di Guido Barroero

Alcune riflessioni del neo-segretario nazionale dell’Unione Sindacale Italiana, storica organizzazione libertaria ed autogestionaria, che conobbe dimensioni di massa nel primo dopoguerra.

Che cosa è un sindacato? È la domanda con cui si apre un recente opuscolo di propaganda della CNT spagnola. Domanda tanto semplice quanto decisamente spiazzante. Specialmente per chi ha sempre considerato l’attività rivendicativa e di difesa delle condizioni materiali proprie e degli altri lavoratori come una pura necessità, un impegno che si affianca in modo subordinato a quello sociale e politico, pur costituendo una sfera separata. Allora del sindacato si mette in discussione la radicalità, la democrazia interna, ma non la sua essenza che è quella di affiancare sul terreno del lavoro attività più nobili e/o gratificanti come la militanza politica o quella sociale. Da qui la dicotomia di fondo tra politico-sociale e sindacale che (ridicolizzata dai leninisti nella formula “sindacato come scuola di guerra”) è spesso stata svilita nel rapporto tra “lavoro sporco” (quello sindacale, denso di compromessi) e quello “pulito” (l’attività rivoluzionaria tout-court).
Credo proprio che si debba riprendere la domanda iniziale. I compagni spagnoli correttamente rispondono: “un’associazione di lavoratori che cercano di migliorare le loro condizioni di vita, sia materiali che culturali”. Una definizione condivisibile quanto schematica che potremmo ampliare traslando opportunamente di modo la domanda in “quale è il sindacato che noi vorremmo?”. Una libera associazione dei lavoratori certo, però includendo in questo termine tutti coloro che devono vivere solo con il frutto del proprio lavoro, l’abbiano, non l’abbiano più o non lo abbiano mai avuto. Quindi la centralità non dei “lavoratori che lavorano” ai quali si associano tutti gli altri in una sorta di subordinazione se non altro psicologica, ma centralità di tutti gli sfruttati, magari partendo proprio da quelli più esposti alla precarietà, condizione che dilagando sta diventando normalità per tutti.
Anche la seconda parte dell’asserzione richiede una qualche precisazione. È vero che l’attività del sindacato deve consistere nella ricerca del miglioramento delle condizioni materiali (e culturali) di vita, ma anche questo rischia di essere riduttivo, perché rimanda prevalentemente ad una logica vertenziale e di contrattazione all’interno delle compatibilità capitaliste. Una logica che finisce per dare per scontata la subordinazione del lavoro al capitale e che anche quando denuncia in modo radicale la sostanziale ingiustizia del sistema, ne assume purtroppo l’immutabilità.

Sperimentare una nuova società

Il sindacato che noi vorremmo è molto di più. È innanzitutto una libera associazione di produttori (reali e potenziali) e di fruitori del prodotto sociale che nelle maglie del sistema, mentre difende con la lotta più radicale e intransigente le condizioni di vita dei lavoratori, progetta e sperimenta pezzi di una società completamente altra rispetto all’esistente.
Un sindacato che conduca una battaglia culturale nutrita di realizzazioni pratiche e con una forte valenza, mi si passi il termine, educazionista. Un sindacato libertario e autogestionario (che è proprio quello che vorremmo) dovrebbe recuperare tutti quei valori di solidarietà, di cooperazione, di mutuo appoggio che i disvalori imposti dal capitalismo e dalla società che questi ha modellato hanno, per il momento, oscurato. Ma questi valori non possono essere risvegliati solo dalle parole, dagli appelli, dalla propaganda “ideologica”, debbono essere praticati nella libera cooperazione di produzione e di distribuzione fuori dalle logiche di mercato, nella costruzione di casse di solidarietà, nella gestione di spazi sociali liberati dalla speculazione, e così via.
Certamente anche la nascita di una rete di esperienze autogestionarie non potrà intaccare in modo decisivo il sistema socio-economico capitalistico, ma potrebbe indebolirlo un poco sul piano materiale e molto fortemente su quello culturale proponendo alternative concrete e praticabili. Perché il problema primario è quello di sconfiggere nella “testa” degli sfruttati la concezione, largamente introiettata, del capitalismo come “seconda natura”, ovvero di uno stato di cose che cela totalmente e maschera altri rapporti sociali, in atto o potenziali.
Qualcuno, anche tra i compagni di più forte ispirazione libertaria e nutriti di “sano realismo”, potrà giudicare questa visione utopica. Tuttavia proprio perché in passato l’utopia si è fatta storia, vorremmo semplicemente ricordare la Spagna del ’36 dove, probabilmente, la risposta rivoluzionaria non sarebbe stata così forte ed estesa senza le realizzazioni concrete delle collettività agricole e industriali promosse dai militanti della CNT. Oppure, per restare in Italia, la nascita del sindacalismo di fabbrica a cavallo tra ’800 e ’900 come sintesi delle esperienze delle Leghe di resistenza, delle Cooperative di produzione e di consumo e delle Società e Casse di mutuo soccorso. In seguito, il fabbrichismo del ’900, le grandi concentrazioni industriali produttive hanno orientato la risposta del movimento operaio sul piano di massa, ovvero delle organizzazioni sindacali (e politiche) di massa, e delle dinamiche di scontro baricentrate sulla questione lavoro tout-court, di per sé irrisolvibile all’interno delle maglie del sistema capitalistico.
La stessa questione rivoluzionaria è diventata – nei pochi casi nei quali è stata posta e con l’intelligente eccezione delle teorie e pratiche consiliari – semplice questione di sostituzione dei ceti dirigenti in un assetto socio-economico dato e non modificabile. Tutto ciò ha semplicemente oscurato la possibilità, se non addirittura la concepibilità, che l’organizzazione sindacale potesse progettare e realizzare altro dalle lotte per il salario, l’orario e le condizioni di lavoro.
Oggi, nella fase di destrutturazione del tessuto produttivo classico, che spunta parzialmente l’arma della rivendicazione economica sul posto di lavoro, Il sindacato che noi vorremmo, potrebbe e dovrebbe riassumere il ruolo di associazione economica dei lavoratori nel senso più esteso del termine. Dovrebbe (e lo ribadiamo ancora una volta) coniugare la lotta radicale e intransigente – fuori delle compatibilità capitaliste – sui posti di lavoro, gestita assemblearmente, con realizzazioni pratiche autogestionarie nel consumo, nella produzione, nella gestione della solidarietà sociale, del territorio, dell’ambiente e della cultura, prefigurando fin da oggi la possibilità e la plausibilità di una società non capitalistica radicalmente altra e antagonista all’esistente. Questo “modello” sindacale dispiegato è il sindacato che noi vorremmo… o almeno che vorrebbe chi scrive.

Guido Barroero
U.S.I.-A.I.T

http://www.arivista.org/?nr=355&pag=16.htm

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