DE VENERE ET VULCANO (8.370-406)
At Venus haud animo nequiquam exterrita mater 8.370
Laurentumque minis et duro mota tumultu
Volcanum adloquitur, thalamoque haec coniugis aureo
incipit et dictis divinum aspirat amorem:
‘dum bello Argolici vastabant Pergama reges
debita casurasque inimicis ignibus arces, 375
non ullum auxilium miseris, non arma rogavi
artis opisque tuae, nec te, carissime coniunx,
incassumve tuos volui exercere labores,
quamvis et Priami deberem plurima natis,
et durum Aeneae flevissem saepe laborem. 8.380
nunc Iovis imperiis Rutulorum constitit oris:
ergo eadem supplex venio et sanctum mihi numen
arma rogo, genetrix nato. te filia Nerei,
te potuit lacrimis Tithonia flectere coniunx.
aspice qui coeant populi, quae moenia clausis 385
ferrum acuant portis in me excidiumque meorum.’
dixerat et niveis hinc atque hinc diva lacertis
cunctantem amplexu molli fovet. ille repente
accepit solitam flammam, notusque medullas
intravit calor et labefacta per ossa cucurrit, 390
non secus atque olim tonitru cum rupta corusco
ignea rima micans percurrit lumine nimbos;
sensit laeta dolis et formae conscia coniunx.
tum pater aeterno fatur devinctus amore:
‘quid causas petis ex alto? fiducia cessit 395
quo tibi, diva, mei? similis si cura fuisset,
tum quoque fas nobis Teucros armare fuisset;
nec pater omnipotens Troiam nec fata vetabant
stare decemque alios Priamum superesse per annos.
et nunc, si bellare paras atque haec tibi mens est, 8.400
quidquid in arte mea possum promittere curae,
quod fieri ferro liquidove potest electro,
quantum ignes animaeque valent, absiste precando
viribus indubitare tuis.’ ea verba locutus
optatos dedit amplexus placidumque petivit 405
coniugis infusus gremio per membra soporem.
VENERE E VULCANO (8.370-406)
Ma Venere, madre non invano sgomenta nel cuore 370
sconvolta dalle minacce di Laurento e dal duro tumulto
parla a Vulcano, e così inizia nell’aureo letto
del coniuge e con le parole ispira un amore divino:
“Mentre i re argolici con la guerra devastavano la dovuta
Pergamo e le rocche destinate a cadere per i fuochi nemici, 375
non chiesi nessun aiuto per i miseri, non le armi
della tua arte e potenza, né volli, carissimo coniuge,
che tu facessi le tue opere invano,
benchè moltissimo dovessi ai figli di Priamo,
e spesso avessi pianto la dura fatica di Enea. 380
Ora per gli ordini di Giove si fermò nelle terre dei Rutuli:
dunque io stessa vengo supplice e chiedo alla (tua) potenza
per me sacra le armi, una madre per il figlio. Te la figlia di Nereo,
te la sposa titonia potè piegare con lacrime.
Guarda quali popoli si radunano, quali mura, chiuse òle porte, 385
affilano il ferro contro di me e la morte dei miei.”
Aveva detto e qua e là la divina con le nivee braccia
lo scalda, lui esitante, con un morbido amplesso, Egli subito
accoglie la solita fiamma, ed il noto calore penetrò
nelle midolla e corse per le ossa crollate, 390
non diversamente da quando a volte rotta da risplendente
tuono una igne fenditura brillante percorre di luce le nubi;
S’accorse la moglie lieta dei tranelli e conscia della bellezza.
Allora il padre stravinto dall’eterno amore dice:
“Perché cerchi motivi da lontano? La fiducia di me per te 395
dove andò, divina? Se ci fosse stato simile affanno,
anche allora sarebbe stato lecito per noi armare i Teucri;
né il padre onnipotente né i fati vietavano che Troia
durasse per altri dieci anni e Priamo soprvvivesse.
E adesso se ti prepari a combattere e questo è per te il disegno, 400
checchè di prmura posso promettere nella mia arte,
ciò che si può fare col ferro o col limpido elettro,
quanto valgono fuochi e mantici, smetti, pregando,
di dubitare delle tue forze.”. Dette quelle parole
diede gli amplessi desiderati e cercò, riversatosi nel grambo 405
della moglie il placido sopore nelle membra.
DE VULCANI ARMIS (8.608-625)
At Venus aetherios inter dea candida nimbos 8.608
dona ferens aderat; natumque in valle reducta
ut procul egelido secretum flumine vidit, 610
talibus adfata est dictis seque obtulit ultro:
‘en perfecta mei promissa coniugis arte
munera, ne mox aut Laurentis, nate, superbos
aut acrem dubites in proelia poscere Turnum.’
dixit, et amplexus nati Cytherea petivit, 615
arma sub adversa posuit radiantia quercu.
ille deae donis et tanto laetus honore
expleri nequit atque oculos per singula volvit,
miraturque interque manus et bracchia versat
terribilem cristis galeam flammasque vomentem, 8.620
fatiferumque ensem, loricam ex aere rigentem,
sanguineam, ingentem, qualis cum caerula nubes
solis inardescit radiis longeque refulget;
tum levis ocreas electro auroque recocto,
hastamque et clipei non enarrabile textum. 625
LE ARMI DI VULCANO (8.608-625)
Ma la dea venere tra i candidi nembi
si presentava portando doni; come vide da lontano il figlio
in una valle appartata solitaria presso il gelido fiume, 610
parlò con tali parole e si offrì apertamente:
” Ecco i doni promessi fatti dall’arte del mio
coniuge, perché non esiti, figlio, ad assalire subito
in battaglia i superbi Laurenti ed il potente Turno.”
Disse, e la Citerea cercò gli abbracci del figlio, 615
pose le raggianti armi sotto una quercia di fronte.
Egli lieto non potè saziarsi dei doni e di sì grande
onore della dea e volse gli occhi su ogni particolare,
ammira e gira fra le mani e le braccia
il terribile elmo con le creste e vomitante fiamme, 620
la spada fatale, la corazza di bronzo, rigida,
color sangue, gigantesca, come quando una azzurra nube
arde ai raggi del sole e rifulge lontano;
poi i gambali lucenti di elettro e d’oro fuso,
l’asta e l’inenarrabile fattura dello scudo. 62
http://web.ltt.it/www-latino/virgilio/index-virgilio.htm
II – Versi
«A l’ accent familier
nous devinons le spectre»
La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fitte d’ un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l’ occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!…Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t’ aggrediscono – l’ acume
t’ aprono in petto, e il fruscio, delle vele.
T’ aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle mobili cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma – entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell’ ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi, cui nebulosa e sfatta casca
la palla morta di mano. E si dice
il sangue che c’ è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano – il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscio delle streghe!
Ti ferma in petto il richiamo d’ Averno
che dai banchi di scuola ti sovrasta
metallurgico, il senso è in quell’ eterno
rombo di fibre rotolanti a un’ asta
assurda di chilometri, sui lidi
nubescenti di latte trovi requie
nell’ assurdo delirio -Trovi i gridi
spenti in un’ acqua che appanna una quiete
senza umano riscontro, ed è nel raggio
d’ ombra che di qua penetra i pensieri
che là prendono corpo, che al paesaggio
di siero, lungo i campi dei Cimmeri
del tuo occhio disfatto, riconosci
il tuo lémure magro (il familiare
spettro della tua scienza) nel pulsare
di quei pistoni nel fitto dei boschi.
Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido. Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’ un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell’ avvampa
funebre d’ una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dai fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto
d’ estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?
Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo – possa offrire
al suo cuore di vedovo (di padre,
di figlio – al cuore dell’ ottenebrato
principe d’ Aquitania), oltre le magre
torri abolite l’ imbarco sperato
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l’ alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce. Il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.
Il passaggio di Enea: Giogio Caproni