Incendies/La donna che canta’’ di Dennis Villenueve ; analisi By Rosa Maria Bollettieri

La donna che canta – Incendies. La recensione

Posted by Marco Albanese on 26 April 2011 ·


La donna che canta – Incendies ***

Incendies è soprattutto un’opera sulla responsabilità, che esplora la possibilità di uscire da una spirale d’odio.

I miei primi quattro film formano un’inconsapevole quadrilogia sulla condizione delle donne. In questo senso anche La dona che canta – Incendies affronta temi come la maternità e l’intuizione, l’alienazione  e il potere, la violenza e la vendetta.

Denis Villeneuve, 2010

Strano oggetto cinematografico, questo quarto film del canadese Denis Villeneuve.

Applaudito a Cannes con Polytechnique, due anni fa, che raccontava, in un severo bianco e nero, la strage compiuta da uno studente nel campus universitario del Politecnico di Montreal, Villeneuve, che ha presentato Incendies alle Giornate degli Autori di Venezia, qui sembra dimenticare ogni coordinata postmoderna, ogni distanza nella narrazione, ogni svelamento della macchina cinema, per affidarsi completamente alla narrazione, in un melò fuori dal tempo, ma potentemente dentro la Storia del Novecento.

Il regista resiste al tentativo di voler rendere universale un racconto così tragicamente personale, evitando ogni deriva moralistica ed ogni sottolineatura didascalica.

Villeneuve recupera tutta l’ingenuità degli anni ’50, e si limita ad aggiornarla alle narrazioni frammentate di oggi, raccontando la storia di due fratelli gemelli, Jeanne e Simon, che alla lettura del testamento materno, ricevono increduli, dal notaio Lebel, due lettere indirizzate al padre, che entrambi credevano morto, e ad un fratello, che non hanno mai conosciuto.

La madre, Nawal Marwan, rifiuta di essere sepolta, se non dopo che i figli avranno adempiuto all’incarico affidato loro.

Simon, più istintivo e umorale, all’inizio rifiuta di farsi coinvolgere dalla ricerca e lascia a Jeanne, giovane ricercatrice di matematica, la risoluzione di un enigma, che affonda nella storia di una madre, tanto amata, quanto mai davvero conosciuta.

Inizia così il lungo viaggio della figlia alla ricerca delle tracce di un’identità familiare rimossa, con l’unico indizio di una fotografia, scattata in un carcere di un paese mediorientale.

Villeneuve rimane vago, anche se i riferimenti al Libano sono evidenti, con la guerra fratricida tra musulmani e cristiani maroniti.

Parallelamente alle ricerche di Jeanne, il film ricostruisce cronologicamente la storia di Nawal, cristiana in una terra devastata dall’odio: i fratelli le uccidono il marito musulmano e la nonna, per evitare il disonore, finisce per portarle via il figlio, appena nato, affidandolo ad un orfanotrofio, dove verrà educato alla guerra.

Comincia così un confronto a distanza tra  Jeanne e Nawal, entrambe alla ricerca della stessa persona a 40 anni di distanza.

Il mistero rimane fitto, perchè i pochi che ancora sanno non vogliono riaprire ferite dolorose.

Jeanne, con la sua sete di certezze, non si arrende e, grazie all’aiuto di un carceriere, illumina almeno una parte della storia personale della madre: Nawal, dopo l’assassinio di un politico cristiano, è stata rinchiusa in una prigione terribile, nel sud del paese, ma nonostante le violenze, le torture e gli stupri, rifiuterà di rivelare i mandanti dell’omicidio.

Alla brutalità della prigione, opporrà la purezza della musica: per tutti sarà “la donna che canta”. Eroina per il popolo arabo, rinnegata dalla propria famiglia e traditrice per i cristiani.

Ma le sorprese non finiscono qui e a Jeanne si sostituirà il fratello Simon, arrivato in medioriente, assieme al notaio Lebel, per mettere a posto anche le ultime tessere di un mosaico, che rivela la potenza beffarda del Destino e la follia della Storia.

Le origini di Jeanne e Simon sono incomprensibili, inaccettabili: persino la logica matematica si scardina di fronte all’orrorre della tragedia classica. Uno più uno fa sempre uno, come dice uno dei protagonisti del film, incapace di comprendere l’indicibile.

E’ la casualità più tragica a far incontrare, due volte, una madre ed un figlio proprio quando nessuno l’avrebbe più voluto.

La verità rende muta Nawal, che ha la forza solo di dettare al notaio le lettere da consegnare, prima di spegnersi in un letto d’ospedale, consumata dall’orrore, ma capace anche di lasciare un messaggio di riconciliazione.

Il resto lo scoprirete vedendo il film di Villeneuve, lasciandovi trasportare dal racconto, con un atto di assoluta fiducia nel narratore, che ormai pochi hanno l’ardire di richiedere allo spettatore.

Siamo ormai smaliziati, assuefatti, incapaci di accettare l’emozione senza freni di un melodramma a tinte fortissime come La donna che canta.

Se non si accetta di giocare, allora è meglio lasciar perdere: sappiate però che il film di Villeneuve mantiene le promesse, va fino in fondo.

Bisogna solo fidarsi ancora una volta della forza del cinema e dell’arte del racconto, lasciandosi trasportare dalla storia di Nawal e dei suoi figli, fino al punto di non ritorno in cui il male della Storia macchia la dimensione individuale con il sangue dell’irreparabilità. 1

Bravissimi i due interpreti giovani, è però Lubna Azabal, nel ruolo della madre, a trascinare il film. L’attrice incarna la protagonista dai 20 ai 60 anni, con una forza travolgente, incapace di piegarsi alla violenza, ma travolta dall’amarezza di un destino atroce.

Villeneuve confeziona un film pregevole, ottimamente fotografato da André Turpin, adattandolo dalla piéce di Wajdi Mouawad, senza mai tradire le origini teatrali dell’opera, in uno sforzo di rarefazione dei dialoghi, per lasciare alle immagini il racconto di una verità indicibile, persino per i suoi protagonisti.

Non è un caso che alla madre, rimasta in silenzio, alla fine dei suoi giorni, finiscano per dar voce proprio Jeanne e Simon, capaci di ribaltare ogni facile convenzione: il figlio nato dall’amore si rivela un mostro, i gemelli partoriti dall’orrore, creature in grado si sperimentare la pietà e il perdono.2

La donna che canta è il primo film di Villeneuve distribuito anche in Italia. La nomination agli Oscar lo ha messo sulla mappa di Hollywood e presto dovrebbe dirigere il suo primo film in ignlese.

Forse il percorso autoriale non è ancora pienamente maturo e coerente, oscillando tra modelli diversi di film in film, ma gli ultimi esiti lasciano ben sperare.

http://stanzedicinema.com/2011/04/26/la-donna-che-canta-incendies-la-recensione/


La donna che canta: una proposta di analisi

By Rosa Maria Bollettieri (University of Bologna, Italy)

Abstract & Keywords

English:

In this paper I argue that not much has changed as to the representation of women’s social roles in the film industry, despite the feminist movements of the last century (1970s and on). As a case study I present the analysis of a recent Canadian film Incendies (Scorched), directed by Denis Villeneuve (2010) that seems to well represent the perception of traditional female roles, myths, and deeply rooted prejudices.  The film is adapted from a play by Wajdi Mouawad, a Lebanese-Canadian playwright. The main protagonist Nawal Marwan is granddaughter, sister, mother, wife, and recipient of man’s desire and violence.

Italian:

In questo articolo sostengo che nell’industria cinematografica la rappresentazione dei ruoli femnminili nella società non è molto cambiata, nonostante le lotte femministe iniziate negli anni ’70. Si analizza il film canadese Incendies (La donna che canta) diretto da Denis Villeneuve (2010) adattato da un testo teatrale dello scrittore canadese di origine libanese Wajdi Mouawad. La protagonista principale, Nawal Marwan, è nipote, sorella, madre, moglie, e oggetto del desiderio e della violenza maschile.

Keywords: gender issues, Incendies, Denis Villeneuve, Wajdi Mouawad, film studies, La donna che canta

©inTRAlinea & Rosa Maria Bollettieri (2013).
La donna che canta: una proposta di analisi”
inTRAlinea Special Issue: Palabras con aroma a mujer. Scritti in onore di Alessandra Melloni
Edited by: Maria Isabel Fernández García & Mariachiara Russo
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Permanent URL: http://www.intralinea.org/specials/article/1981

Women have served all these centuries as looking-glasses
 possessing the magic and delicious power
of reflecting the figure of man at twice his natural size”

Da secoli le donne funzionano da specchi
Che hanno il magico e delizioso potere di riflettere
l’immagine dell’uomo, raddoppiandone la grandezza naturale.
(Virginia Woolf, 1929: 35)

Qualche tempo fa ho visto, quasi per caso La donna che canta (Denis Villeneuve, 2010) e ne sono rimasta talmente colpita, che ho pensato valesse la pena di analizzarlo puntualmente e cercare di capirne i numerosi messaggi. Le riflessioni che seguono sono frutto di questa analisi, poiché sono convinta che anche un film specifico possa assumere dimensioni più generali, se è vero ciò che sostiene Teresa De Lauretis, quando afferma: «Poiché il cinema è un apparato di rappresentazione sociale, le relazioni fra soggettività, genere e differenza sessuale e significato e ideologia sono centrali per una teoria del cinema» (1984: 1, mia traduzione).[1]

* * *

Se il cinema è un “un apparato di rappresentazione sociale” senza dubbio esso produce effetti di senso e di percezione, rappresentazione del sé e della posizione del soggetto che contribuiscono a formare e/o consolidare il concetto del “femminile” nella società contemporanea. (De Lauretis, 1984: 37).

Il film, distribuito in Italia dalla Lucky Red con il titolo La donna che canta (nell’originale francese Incendies, nella versione inglese uscita in contemporanea Scorched), ben si presta, come cercherò di dimostrare, a un’analisi della percezione dei ruoli femminili tradizionali, frutto di echi mitologici e pregiudizi ben radicati nella nostra società.

Questo film è adattato da un testo teatrale di Wajdi Mouawad, un drammaturgo canadese di origine libanese, che ha ben documentato l’esperienza degli immigrati di prima generazione attraverso una serie di drammi epici di grande potenza espressiva che gli hanno fatto vincere premi sia in Canada sia all’estero.[2] Secondo Mouawad:

La guerra civile libanese fu una guerra vergognosa in cui i padri uccidevano i figli, i figli uccidevano i fratelli e stupravano le madri. Non hanno voluto spiegare alla mia generazione ciò che era accaduto. Ho dovuto apprendere da estranei la mia stessa storia.[3]

Il dramma e il suo adattamento cinematografico possono aiutarci a confrontare produzioni di tipo Hollywoodiano con quelli che sono considerati filoni innovativi di produzioni che si pongono al confine fra la cultura orientale e quella occidentale. Ciò che lo rende particolarmente interessante è il milieu culturale in cui si colloca: si tratta, infatti, della lettura da parte di un regista canadese di un dramma scritto da uno scrittore medio orientale immigrato in occidente, che ha scelto come soggetto i disordini e le turbolenze del Medio Oriente. Il punto di vista dell’autore è quello di chi ha vissuto durante la guerra del 1982 e ne è stato coinvolto. Autori come Mouawad, immigranti di prima o seconda generazione, traducono lo spazio dove si trovano situati, fra la cultura occidentale e quella orientale, e offrono il loro punto di vista privilegiato.

Il regista canadese Denis Villeneuve, a sua volta, vive nella realtà divisa del bilinguismo e biculturalismo del suo paese e può pertanto essere particolarmente sensibile al problema degli incontri/scontri culturali.

La condizione femminile rappresentata in questo film in un contesto medio orientale non può ovviamente essere presa come emblematica dell’immagine della donna in generale a ovest come a est, nel mondo contemporaneo come nel passato, tuttavia cercherò di dimostrare che Incendies racconta l’epica di una figura femminile straordinaria che riassume in sé quasi tutti i ruoli tradizionali della donna in una società patriarcale, secondo schemi che sono tuttora presenti anche nella nostra cultura.

Un punto di partenza interessante può essere la copertina del libro in cui è pubblicato il testo teatrale che sta alla base del film, inalterata sia nella versione originale francese (Incendies) che nella versione inglese di Linda Gaboriau intitolata Scorched.

Figura 1. La copertina del libro

L’immagine, molto forte, evoca una figura femminile vestita di nero, dai seni nudi da cui esce uno zampillo di liquido (la donna come nutrice); dal grembo esce un mostriciattolo rosso sangue (la donna come fattrice) che beve da una ciotola che raccoglie lo zampillo del seno.  E’ chiara l’allusione al grembo femminile come fonte della vita e come depositario della violenza peccatrice che crea mostri.

La dicotomia fra prostituta e Madonna emerge potente da questa immagine, in cui il contrasto fra il nero del lutto e il rosso del sangue evoca il dolore e il trauma della nascita. Anche se il film, come è ovvio, non cita la copertina dell’opera originale da cui è tratto, si è voluto commentare questa immagine come una significativa introduzione alle considerazioni che seguono.

La storia inizia con la lettura del testamento di Nawal Marwan, che dà mandato ai due figli gemelli Jeanne e Simon di trovare il padre che credevano morto e un fratello di cui ignoravano l’esistenza. Fino a che la ricerca non sarà completata, la madre non vuole o non può avere una sepoltura “normale”. La donna nel testamento chiede ai figli di seppellirla sotto terra, nuda, a faccia in giù, senza alcuna lapide sulla tomba. C’è un mistero che deve essere svelato prima che sia possibile mettere il corpo in una bara, scrivere un epitaffio sulla tomba e dire una preghiera. Il dialogo del film riporta quasi letteralmente il testo dell’opera teatrale, che si cita qui nella versione inglese di Linda Gaboriau:

Bury me naked
Bury me without a coffin
No clothing, no covering
No prayers.
Face to the ground. […]
Let no stone be placed on my grave
Nor my name engraved anywhere.
No epitaph for those who don’t keep their promises
And one promise was not kept.
No epitaph for those who keep the silence.
And silence was kept.
No stone
No name on the stone
No epitaph for an absent name on an absent
Stone.
No name.

To Janine and Simon, Simon and Janine
Childhood is a knife struck in the throat.
It can’t be easily removed
(Mouawad, 2009: 8).[4]

La richiesta della madre di essere seppellita nuda richiama alla mente le teorizzazioni sulla pornografia di Yann Lardeau (1978) così commentate da De Lauretis (1984: 26):[5] «Si dice che il film pornografico riproduca incessantemente la sessualità come campo di conoscenza e di potere, potere di scoprire la verità (la donna nuda è sempre stata la rappresentazione allegorica della verità nella nostra società (De Lauretis, 1984: 26)».[6]

Tornando alla scena iniziale del film, i due gemelli ricevono dal notaio una lettera ciascuno: la lettera di Jeanne dovrà essere consegnata al padre, la lettera di Simon al fratello. Potranno seppellire la madre e scrivere il suo nome sulla tomba soltanto quando si romperà il silenzio (“The silence will be broken”, Mouawad, 2009: 9).

I figli scopriranno la verità indicibile nella dimensione edipica della storia, ma a questo punto né i protagonisti né il pubblico sanno o possono minimamente sospettare che Jeanne e Simon sono figli di un padre che è al tempo stesso il loro fratello maggiore. Il tabu dell’incesto non si può nominare, ma come si vedrà, sarà rappresentato nei flash back della storia. La trama del film si snoda intorno alla ricerca di identità di Jeanne e di Simon. Jeanne è la prima ad accettare la volontà della madre mettendosi alla ricerca del padre, mentre Simon si oppone a quella che considera un’assurdità del testamento materno. Jeanne, che insegna matematica all’università e rappresenta la parte razionale della coppia di gemelli, accetta dunque subito il ruolo femminile di figlia obbediente, mentre il maschio Simon, più emotivo della sorella (e forse più fragile) si ribella.

Vedremo poi come i fatti smentiranno la regola principale nella vita di Jeanne che “uno + uno = due”. Fin da questa prima distribuzione di caratteristiche di genere (la parte razionale alla femmina e quella emotiva al maschio) si può notare la volontà di sovvertire gli stereotipi di genere da un lato e di recuperarli dall’altro (la femmina è obbediente ai voleri della madre, il maschio è ribelle e li combatte).

La ricerca di Jeanne comincia nel paese natale della madre, un luogo non specificato che evoca un paesaggio libanese, ma potrebbe essere ovunque in Medio Oriente, se non fosse per il fatto che il conflitto fra cristiani, palestinesi e mussulmani che fa da sfondo alla storia è caratteristico della situazione libanese.

I paesaggi in cui si svolge il racconto hanno una dimensione biblica e trasmettono un senso di solitudine e disorientamento. L’occhio della macchina da presa scruta fra le rovine di villaggi sperduti alla ricerca delle tracce inesorabili della guerra ripresa con lo sguardo pietoso di chi condanna, ma al tempo stesso cerca di capire, in soggettive sapientemente orchestrate che ci fanno vedere le cose con gli occhi scrutatori di Jeanne. L’uso del flash back sovrappone l’immagine della figlia a quella della madre, mentre lo spettatore, come Jeanne, viene a conoscere gli eventi dell’atroce vicenda che si compongono come le parti di un puzzle, irrisolto fino alle scene finali, in cui Simon raggiunge la sorella e viene prescelto dai responsabili delle vicende della madre come colui che, maschio, può sostenere l’indicibile verità.

All’origine del dramma c’è la storia d’amore fra la giovane Nawal, cristiana e un non cristiano, probabilmente palestinese, che, appartenendo a una fazione nemica viene ucciso dai fratelli di Nawal. Il figlio nato da questo amore viene sottratto alla giovane donna che giura però di ritrovarlo. È questo il giuramento/promessa nominato nel testamento.

Dopo il parto, che avviene ovviamente nel dolore come si vede in uno dei primi flash back,

Figura 2. Nawal Marwal, mater dolorosa

Nawal Marwal, lascia il villaggio natale, studia e lavora presso un giornale propagandistico cristiano, ma abbandona tutto ciò per mettersi alla ricerca del figlio. Pur di essere aiutata a ritrovarlo, decide di ripagare violenza con violenza e passa alla fazione opposta, accettando di tendere un agguato e di uccidere un capo cristiano. Catturata, viene rinchiusa in una prigione del sud, dove resterà per 15 anni subendo torture e violenze.

Lo spettatore apprende la vicenda dalla figlia Jeanne che scopre la prigionia della madre e, fattasi raggiungere dal gemello Simon, va a visitare la prigione in cui Nawal è stata rinchiusa senza mai piegarsi alle torture e alle violenze e dove era conosciuta come “la donna che canta”. Jeanne e Simon scoprono anche che in seguito agli stupri subiti, la madre ha partorito due gemelli: loro due. Nella ricerca del padre (il violentatore della prigione) e del fratello (che era stato affidato ad un orfanotrofio distrutto durante la guerra) trovano l’aiuto dei guerriglieri palestinesi ai quali “la donna che canta” aveva dato molto, uccidendo il leader politico avversario. Arrivano così alla scoperta della tremenda verità: il fratello, insieme agli altri bambini dell’orfanotrofio, era stato preso dai palestinesi e, dopo varie vicissitudini, era diventato lo spietato torturatore della prigione; quindi padre e fratello sono la stessa persona. Costui vive in Canada e i gemelli possono quindi ritrovarlo e consegnare le lettere a loro affidate nel testamento materno.

* * *

Il mio interesse in questa storia nasce dal fatto che tutti i ruoli sociali femminili vi sono rappresentati e riassunti nella figura di Nawal Marwan e in quella della figlia Jeanne, in una sequenza di immagini crude e violente, ma anche cariche di una struggente emotività che hanno un forte impatto specialmente sul pubblico femminile.

Il senso di disagio che, come donna, ho provato vedendo il film non è dovuto al tema dell’incesto, ma alla sensazione che la tesi implicita del racconto sia che l’amore sacrificale della dolente figura materna possa salvare il mondo. Se ciò fosse, l’orrore della violenza maschile e della sopraffazione sarebbe mitigato dalla considerazione che la redenzione dell’uomo passa attraverso la donna, unico essere che ha il potere di ricondurlo sulla retta via. La donna come strumento di redenzione è uno dei cardini dell’ideologia patriarcale e proprio per questo il film suscita in me qualche perplessità, pur nella sua travolgente bellezza.

Il primo flash back del film rappresenta l’incontro fra Nawal e il suo giovane amante palestinese in una sorta di giardino dell’Eden, fra rocce e ulivi, una sorta di “scena originale” connotata da echi biblici evidenti nella rappresentazione di temi come amore / peccato / punizione. L’amante è assassinato dai fratelli di Nawal, la cui ferocia si sta per rivolgere anche contro la sorella peccatrice quando sono fermati da una figura di vecchia misericordiosa, la nonna, che impedisce il secondo delitto. Un’altra figura femminile portatrice di pace.

Questa scena mi ricorda un interessante articolo di Laura Mulvey (1979) in cui si sosteneva che il classico apparato del cinema di Hollywood poneva inevitabilmente lo spettatore nella posizione di soggetto maschile il cui sguardo percepiva la donna nello schermo come oggetto del desiderio. La tesi di Mulvey è che lo spettatore a cui il cinema si rivolge è inevitabilmente un “maschio” che trae piacere visivo da una prospettiva dominante sadica. Questo articolo fu scritto per la rivista Screen ai tempi del femminismo radicale, ma è sorprendente verificare quanto esso sia attuale anche nella produzione cinematografica contemporanea. Le scene di tortura nel film di Villeneuve lo dimostrano chiaramente.

Figura 3. Scene di tortura 1

Figura 4. Scene di tortura 2

A una prima lettura il tema dell’incesto può essere visto come una denuncia dell’orrore della guerra, del fratricidio (la parola ‘sororicidio’ o ‘femminicidio’ è una invenzione recente), dello stupro e della violenza cieca. Ma a un livello più profondo l’incesto in questa storia allude anche a quanto scriveva Lévi Strauss nel lontano 1969 sul concetto di parentela (“kinship”). Secondo Strauss la proibizione dell’incesto che si trova in tutte le società umane, presuppone che la donna sia oggetto di scambio, con la funzione di assicurare l’ordine sociale. La donna “data” in sposa a un uomo di un’altra famiglia, tribù o gruppo sociale assume il ruolo di tramite per mantenere la pace per mezzo di un allargamento dei legami di parentela.

Nel film di Villeneuve il ruolo della donna come quintessenza dell’amore e come responsabile di mantenere la pace assume una chiarezza inequivocabile alla fine della storia quando il figlio/torturatore/stupratore/padre è chiamato dalla sua vittima/madre/amante “figlio dell’amore” nella lettera che verrà letta nelle scene conclusive.

La lettera al figlio comincia così:

I looked for you everywhere.
Here, there and everywhere.
I searched for you in the rain.
I searched for you in the sun.
In the forest
In the valleys
On the mountaintops
In the darkest of cities
In the darkest of streets
I searched for you in the south
In the north
In the east
In the west
[…]
No matter what happens I will always love you
No matter what happens I will always love you (Scorched: 130-31).[7]

* * *

Prima di concludere, vorrei aggiungere due considerazioni. La prima riguarda il tema del silenzio: la vittima sacrificale, la mater dolorosa sceglie il silenzio come unica difesa possibile contro l’indicibile. La donna prototipo, come la Cordelia di King Lear non ha scelta: «What shall Cordelia do? Love and be silent» (Cosa può fare Cordelia? Amare e tacere) (Shakespeare, King Lear, Act 1, sc. 1). Così Nawal, nella lettera al padre: «Silence awaits everyone in the face of truth» (Mouawad, 2009: 130).[8]

La seconda considerazione è suggerita da una delle ultime scene, quando il giovane Simon, che aveva il compito di trovare il fratello, “vede la luce”. L’identità del fratello gli viene rivelata dal guerrigliero che aveva chiesto a Narwal di uccidere il capo della falange cristiana, e tale rivelazione viene rappresentata visivamente dal gesto del ragazzo di togliersi la benda che gli copriva gli occhi. Infatti Simon era stato portato dal guerrigliero depositario del segreto sull’identità del padre/fratello a occhi bendati per ragioni di sicurezza.

Figura 5. Simon, cieco come Edipo

Tuttavia il capo mussulmano accetta di farsi vedere nel momento in cui racconta la storia dell’aguzzino padre e fratello. Il frutto dell’amore fra Marwan e Wahab (rifugiato mussulmano), sottratto alla madre, era stato portato in un orfanatrofio cristiano, da cui era stato rapito e allevato dai mussulmani, che gli insegnarono a sparare. Divenuto un imbattibile cecchino, fu catturato dai cristiani e divenne il torturatore della prigione dove era detenuta “la donna che canta”. Come Edipo non riconosce nella prigioniera la madre; come Edipo (il cui nome significa letteralmente “dai piedi gonfi”)[9] ha un segno di riconoscimento su un piede, un tatuaggio voluto dalla madre alla nascita allo scopo di ritrovarlo e identificarlo un giorno; come Edipo è “due in uno”, al tempo stesso figlio e padre.

Si era detto all’inizio che nella coppia di gemelli Jeanne è la parte razionale, con mentalità matematica per cui “uno + uno = due”, mentre Simon si difende in modo emotivo da una realtà inaccettabile, negandola. Lo stereotipo tipico della nostra cultura è che l’uomo sia razionale e la donna intuitiva ed emotiva. Nel mondo tragico della guerra e degli istinti primordiali il dato culturale è rovesciato. Alla fine non è tanto la mancanza di logica che prevale, quanto la decostruzione della logica che deve arrendersi di fronte a una realtà paradossale in cui un uomo che è padre di suo fratello e di sua sorella, è sia marito sia figlio della stessa donna.

Questo paradosso è costruito sul corpo di una donna la cui tradizionale mancanza di logica si traduce nell’assurdità che uno + uno = uno.

1 + 1 = 1

Questo paradosso matematico è alla base del film, una sfida alle semplici regole a cui siamo abituati e che dovrebbero generare certezza. Il sovvertimento della più indiscussa verità entrata a far parte del senso comune riassume emblematicamente il capovolgimento totale dei valori quando prevale la barbarie e l’atrocità della guerra.

Bibliografia

De Lauretis, Teresa (1984) Alice doesn’t. Feminism, Semiotics, Cinema, Bloomington, Indiana University Press.

Lardeau, Yann (1978) “Le sexe froid (du porno au-delà)” Cahiers du cinéma no 289, June 1978 cit by T De Lauretis.

Lévi Strauss, Claude (1969) Elementary Structure of Kinship, Boston, Beacon Press.

Mouawad, Wajdi (2009) Scorched. Trad. Linda Goboriau, Toronto, Playwrights Canada Press. Titolo originale Incendies, Montreal, 2009.

Mulvey, Laura (1975) “Visual Pleasure and Narrative Cinema” Screen 16, n. 3, 6-18.

Shakespeare, William King Lear.

Woolf, Virginia (1929) A Room of One’s Own, New York and London, Harcourt Brace.

Note

[1] «Being cinema an apparatus of social representation, the relations of subjectivity, gender, and sexual difference to meaning and ideology are central to cinematic theory» (De Lauretis 1984: 16).

[2] Mouawad ha fondato compagnie teatrali a Montreal e a Parigi ed è attualmente il direttore artistico del teatro francese presso il National Arts Centre di Ottawa.

[3] Da un articolo di Openforum Blog pubblicato il 1 ottobre 2010, consultato su internet in agosto 2013 all’indirizzo http://www.cbc.ca/arts/theatre/story/2008/09/19/f-wajdi-mouawad-scorched.html# 

The Lebanese civil war «was a very shameful war, where fathers killed sons, where sons killed their brothers, where sons raped their mothers,» Mouawad says. «They didn’t want to explain to my generation what had happened. Strangers had to tell me my own story.» — Wajdi Mouawad.

[4] Seppellitemi nuda / Seppellitemi senza bara / senza vestiti, senza niente / Senza preghiere. / Faccia a terra. […] / Nessuna lapide sulla tomba / Che il mio nome non sia inciso da nessuna parte. / Nessun epitaffio per chi non mantiene le promesse / E una promessa non fu mantenuta. / Nessun epitaffio per chi ha mantenuto il silenzio / E il silenzio fu mantenuto. / Niente lapide / Niente nome sulla lapide / Niente epitaffio per un nome assente su una lapide / Assente. / Niente nome. / A Janine e a Simon, Simon e Janine / L’infanzia è un coltello puntato alla gola. / Non può essere rimosso facilmente (mia traduzione).

[5] «The pornographic film is said relentlessly to produce sexuality as the field of knowledge and power, power in the uncovering of truth (the naked woman has always been in our society the allegorical representation of Truth)» (De Lauretis 1984: 26).

[6] Basti pensare alla Nuda Veritas di Gustav Klimt del 1899, (olio su tela, conservata presso l’Österreichisches Theatermuseum di Vienna) una splendida rappresentazione della nudità femminile come icona della verità.

[7] Ti ho cercato dappertutto / qui, là, dappertutto / ti ho cercato nella pioggia / nel sole / nella foresta / nelle valli / in cima alle montagne / nelle città più buie / nelle strade più buie / ti ho cercato a sud / a nord / a est / a ovest […] Qualunque cosa accada ti amerò sempre / qualunque cosa accada ti amerò sempre (mia traduzione).

[8] Il silenzio si impone a chiunque di fronte alla verità (mia traduzione).

[9] Edipo (in greco antico Οδίπους / Oidípous significa uomo dai piedi gonfi – οδος (gonfiatura, rigonfiamento) + πούς (piede) –

http://it.wikipedia.org/wiki/Edipo

http://www.intralinea.org/specials/article/la_donna_che_canta_una_proposta_di_analisi

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