Enea incontra Evandro – regia di Franco Rossi, LIBRO XI funerali e dolore per la morte di Pallante


LIBRO XI

ENEIDE

Ora a le mura
ce n’andrem di Latino. Ognuno a l’armi
s’accinga: ognun s’affidi, e si prometta
guerra e vittoria. In punto vi mettete,
ché quando dagli augúri ne s’accenne
di muover campo, e che mestier ne sia
d’inalberar l’insegne, indugio alcuno
non c’impedisca, o ‘l dubbio o la paura
non ci ritardi. In questo mezzo a’ morti
diam sepoltura, e quel che lor dovuto
è sol dopo la morte, eterno onore.
Itene adunque, e quell’anime chiare
che n’han col proprio sangue e con la vita
questa patria acquistata e questo impero,
d’ultimi doni ornate. E primamente
al mesto Evandro il figlio si rimandi,
che, di virtú maturo e d’anni acerbo,
cosí n’ha morte indegnamente estinto».
  Ciò detto, lagrimando il passo volse
vèr la magione, u’ di Pallante il corpo
dal vecchierello Acete era guardato.
Era costui già del parrasio Evandro
donzello d’armi; e poscia per compagno
fu (ma non già con sí lieta fortuna)
dato al suo caro alunno. Avea con lui
d’Arcadi suoi vassalli e di Troiani
una gran turba. Scapigliate e meste
le donne d’Ilio, sí com’era usanza,
gli piangevano intorno; e non fu prima
Enea comparso che le strida e i pianti
si rinnovaro. Il batter de le mani,
il suon de’ petti, e de l’albergo i mugghi
n’andâr fino a le stelle. Ei poi che vide
il suo corpo disteso, e ‘l bianco volto,
e l’aperta ferita che nel petto
di man di Turno avea larga e profonda,
lagrimando proruppe: «O miserando
fanciullo, e che mi val s’amica e destra
mi si mostra fortuna? E che m’ha dato,
se te m’ha tolto? Or che, vincendo, ho fatto?
Che, regnando, farò, se tu non godi
de la vittoria mia, né del mio regno?
Ah! non fec’io queste promesse allora
al buon Evandro, ch’a l’acquisto venni
di questo impero. E ben temette il saggio,
e ben ne ricordò che duro intoppo,
e d’aspra gente, avremmo. E forse ancora
il meschino or fa vóti e preci e doni
per la nostra salute, e vanamente
vittoria s’impromette. E noi con vana
pompa gli riportiam questo infelice
giovine di già morto, e di già nulla
piú tenuto a’ celesti. Ahi, sconsolato
padre! vedrai tu dunque una sí cruda
morte del figlio tuo? Questo ritorno,
questo trionfo ohimè! d’ambi aspettavi?
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,
no ‘l vedrai già di vergognose piaghe
ferito il tergo; e non gli arai tu stesso
(se con infamia a te vivo tornasse)
a desïar la morte. Ahi, quanto manca
al sussidio d’Italia, e quanto perdi,
mio figlio Iulo!» E, posto al pianto fine,
ordine diè che ‘l miserabil corpo
via si togliesse; e del suo campo tutto
scelse di mille una pregiata schiera
che scorta gli facesse e pompa intorno,
e d’Evandro a le lagrime assistesse,
e le sue gli mostrasse, a tanto lutto
assai debil conforto, e pur dovuto
al suo misero padre. Altri al suo corpo,
altri a la bara intenti, avean di quercia,
d’àrbuto e di tali altri agresti rami
fatto un ferètro di virgulti intesto
e di frondi coperto, ove altamente
del giovinetto il delicato busto
composto si giacea qual di vïola,
o di giacinto un languidetto fiore
còlto per man di vergine, e serbato
tra le sue stesse foglie, allor che scemo
non è del tutto il suo natio colore
né la sua forma; e pur da la sua madre
punto di cibo o di vigor non ave.
  Enea due prezïose vesti intanto,
l’una d’òr fino e l’altra di scarlatto,
addur si fece, ambe ornamenti e doni
de la sidonia Dido, e da lei stessa
con dolce studio e con mirabil arte
ricamate e distinte. E l’una indosso
gli pose, e l’altra in capo, ultimo onore
con che dolente la dorata chioma
allor velogli, ch’era additta al foco.

Poi che Drance ebbe detto, ai detti suoi
tutti gli altri fremendo acconsentiro,
e per dodici dí commercio e pace
fur tra l’un oste e l’altro. E senza offesa
entrambi si mischiaro, e per gli monti
e per le selve a lor diletto andaro.
Allor sonare accette e strider carri
per tutto udissi. In ogni parte a terra
ne gîro i cerri e gli orni e gli alti pini
e gli odorati cedri al funebre uso
svèlti, squarciati e tronchi. E già la Fama,
che di Pallante a Pallantèo volata
dicea pria le sue prove, e vincitore
l’avea gridato, or d’ogni parte grida
che morto si riporta. In ciò commossa
la città tutta in vedovile aspetto
di funeste facelle e d’atri panni
si vide piena; e vèr le porte ognuno
gli usciro incontro. Si vedea di lumi
e di genti una fila che le strade
e i campi in lunga pompa attraversava.
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto
piangendo ne venian da l’altra parte,
e con pianto incontrârsi. Indi rivolti
tutti vèr la città, non pria fûr giunti,
che di pianti di donne e d’ululati
risonar d’ogn’intorno il cielo udissi.
Né forza, né consiglio, né decoro
fu ch’Evandro tenesse. Uscí nel mezzo
di tutta gente; e la funerea bara
fermando, addosso al figlio in abbandono
si gittò, l’abbracciò, stretto lo tenne
lunga fïata, e da l’angoscia oppresso
pria lagrimando, e sospirando, tacque.
Poscia, la strada al gran dolore aperta,
cosí proruppe: «O mio Pallante, e queste
fûr le promesse tue, quando partendo
il tuo padre lasciasti? In questa guisa
d’esser guardingo e cauto mi dicesti
ne’ perigli di Marte? Ah! ben sapeva,
ben sapev’io quanto ne l’armi prime
fosse, in cor generoso, ardente e dolce
il desio de la gloria e de l’onore.
Primizie infauste, infausti fondamenti
de la tua gioventú! vane preghiere,
vóti miei non accetti e non intesi
da nïun dio! Santissima consorte,
che morendo fuggisti un dolor tale,
quanto sei tu di tua morte felice!
Quanto infelice e misero son io,
che vecchio e padre al mio diletto figlio
sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni
prolungo a mio tormento!

http://www.forumromanum.org/literature/aeneid-ital11.html

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