Così venne a dire che un giorno, a Treviri, si persero di vista. ….

6. 15. Di qui il suo discorso si spostò sulle greggi dei monaci, sulla loro vita, che t’invia soavi profumi, e sulla solitudine feconda dell’eremo, di cui noi nulla conoscevamo. A Milano stessa fuori dalle mura della città esisteva un monastero popolato da buoni fratelli con la pastura di Ambrogio senza che noi lo sapessimo. Ponticiano infervorandosi continuò a parlare per un pezzo, e noi ad ascoltarlo in fervido silenzio. Così venne a dire che un giorno, non so quando ma certamente a Treviri, mentre l’imperatore era trattenuto dallo spettacolo pomeridiano nel circo, egli era uscito a passeggiare con tre suoi camerati nei giardini contigui alle mura della città. Lì, mentre camminavano accoppiati a caso, lui con uno degli amici per proprio conto e gli altri due ugualmente per proprio conto, si persero di vista. Ma questi ultimi, vagando, entrarono in una capanna abitata da alcuni tuoi servitori poveri di spirito, di quelli cui appartiene il regno dei cieli 69, e vi trovarono un libro ov’era scritta la vita di Antonio. Uno dei due cominciò a leggerla e ne restò ammirato, infuocato. Durante la lettura si formò in lui il pensiero di abbracciare quella vita e abbandonare il servizio del secolo per votarsi al tuo. Erano in verità di quei funzionari, che chiamano agenti amministrativi. Improvvisamente pervaso di amore santo e di onesta vergogna, adirato contro se stesso 70, guardò fisso l’amico e gli chiese: “Dimmi, di grazia, quale risultato ci ripromettiamo da tutti i sacrifici che stiamo compiendo? Cosa cerchiamo, a quale scopo prestiamo servizio? Potremo sperare di più, a palazzo, dal rango di amici dell’imperatore? E anche una simile condizione non è del tutto instabile e irta di pericoli? E quanti pericoli non bisogna attraversare per giungere a un pericolo maggiore? E quando avverrà che ci arriviamo? Invece amico di Dio, se voglio, ecco, lo divento subito 71“. Parlava e nel delirio del parto di una nuova vita tornò con gli occhi sulle pagine. A mano a mano che leggeva un mutamento avveniva nel suo intimo, ove tu vedevi, e la sua mente si svestiva del mondo, come presto apparve. Nel leggere, in quel rimescolarsi dei flutti del suo cuore, a un tratto ebbe un fremito, riconobbe la soluzione migliore e risolse per quella. Ormai tuo, disse all’amico suo: “Io ormai ho rotto con quelle nostre ambizioni. Ho deciso di servire Dio, e questo da quest’ora. Comincerò in questo luogo. Se a te rincresce d’imitarmi, tralascia d’ostacolarmi”. L’altro rispose che lo seguiva per condividere con lui l’alta ricompensa di così alto servizio. Ormai tuoi entrambi, cominciavano la costruzione della torre, pagando il prezzo adeguato 72, e cioè l’abbandono di tutti i propri beni per essere tuoi seguaci 73. In quella Ponticiano e l’amico che con lui passeggiava in altre parti del giardino, mentre li cercavano giunsero là essi pure, li trovarono e li esortarono a rientrare, visto che il giorno era ormai calato 74. Ma i due palesarono la decisione presa e il proposito fatto, nonché il modo com’era sorta e si era radicata in loro quella volontà. Conclusero pregando di non molestarli, qualora rifiutassero di unirsi a loro. I nuovi venuti persistettero nella vita di prima, ma tuttavia piansero su di sé, come diceva Ponticiano, mentre con gli amici si felicitarono piamente e si raccomandarono alle loro preghiere, per poi tornare a palazzo strisciando il cuore in terra, mentre essi rimasero nella capanna fissando il cuore in cielo. Entrambi erano fidanzati; quando le spose seppero l’accaduto, consacrarono anch’esse la loro verginità a te.


Miseria e pena di Agostino

7. 16. Questo il racconto di Ponticiano. E tu, Signore, mentre parlava mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi 75, e ponendomi davanti alla mia faccia 76, affinché vedessi quanto era deforme, quanto storpio e sordido, coperto di macchie e piaghe. Visione orrida; ma dove fuggire lungi da me? 77. Se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, c’era Ponticiano, che continuava, continuava il suo racconto, e c’eri tu, che mi mettevi nuovamente di fronte a me stesso e mi ficcavi nei miei occhi, affinché scoprissi e odiassi la mia malvagità 78. La conoscevo, ma la coprivo, la trattenevo e me ne scordavo.

7. 18. Avevo pensato che la ragione per cui differivo di giorno in giorno 80 il momento di seguire unicamente te, disprezzando le promesse del secolo, fosse la mancanza di una luce sicura, su cui orientare il mio corso. Ed era venuto il giorno in cui mi trovavo nudo davanti a me stesso e sotto le rampogne della mia coscienza: “Dov’è la tua loquacità? Tu proprio andavi dicendo che rifiutavi di sbarazzarti del tuo bagaglio di vanità per l’incertezza del vero. Ecco, ora il vero è certo, e la vanità ti opprime ancora. A spalle più libere delle tue spuntarono le ali senza che si fossero consumate nella ricerca e in una meditazione di oltre un decennio su questi problemi”. Così mi rodevo in cuore e mi sentivo violentemente turbare da un’orrenda vergogna al racconto di Ponticiano. Concluso per altro il discorso e l’affare per cui era venuto, egli uscì e io rientrai in me. Cosa non dissi contro di me? Di quali colpi non flagellai la mia anima con le verghe dei pensieri affinché mi seguisse nei miei sforzi per camminare sulle tue orme 81? Recalcitrava, ricusava e non si scusava. Tutti gli argomenti erano stati sfruttati e confutati. Non le rimaneva che un’ansia muta; come la morte temeva di essere costretta a ritrarsi dal flusso della consuetudine, che la corrompeva fino a morirne.

In giardino

Agostino e Alipio in giardino

8. 19. Allora, nel mezzo della grande rissa che si svolgeva dentro alla mia casa e che avevo scatenato energicamente contro la mia anima nella nostra stanza più segreta 82, nel mio cuore, sconvolto il viso quanto la mente, mi precipito da Alipio esclamando: “Cosa facciamo? cosa significa ciò? cosa hai udito? Alcuni indotti si alzano e rapiscono il cielo 83, mentre noi con tutta la nostra dottrina insensata, ecco dove ci avvoltoliamo, nella carne e nel sangue 84. O forse, poiché ci precedettero, abbiamo vergogna a seguirli e non abbiamo vergogna a non seguirli almeno?”. Dissi, penso, qualcosa del genere, poi la mia tempesta interiore mi strappò da lui, che mi mirava attonito, in silenzio. Certo le mie parole erano insolite, ma più ancora delle parole che pronunciavo, esprimevano i miei sentimenti la fronte, le guance, gli occhi, il colore della pelle, il tono della voce. Annesso alla nostra abitazione era un modesto giardinetto, che usavamo come il resto della casa, poiché il nostro ospite, padrone della casa, non l’abitava. Là mi sospinse il tumulto del cuore. Nessuno avrebbe potuto arrestarvi il focoso litigio che avevo ingaggiato con me stesso e di cui tu conoscevi l’esito, io no. Io insanivo soltanto, per rinsavire, e morivo, per vivere, consapevole del male che ero e inconsapevole del bene che presto sarei stato. Mi ritirai dunque nel giardino, e Alipio dietro, passo per passo. In verità mi sentivo ancora solo, malgrado la sua presenza, e poi, come avrebbe potuto abbandonarmi in quelle condizioni? Sedemmo il più lontano possibile dall’edificio. Io fremevo nello spirito 85, sdegnato del più torbido sdegno perché non andavo verso la tua volontà e la tua alleanza 86, Dio mio, verso le quali tutte le mie ossa gridavano 87 che si doveva andare, esaltandole con lodi fino al cielo. E là non si andava con navi o carrozze o passi, nemmeno i pochi con cui ero andato dalla casa al luogo ov’eravamo seduti. L’andare, non solo, ma pure arrivare colà non era altro che il volere di andare, però un volere vigoroso e totale, non i rigiri e sussulti di una volontà mezzo ferita nella lotta di una parte di sé che si alzava, contro l’altra che cadeva.

8. 20. Nelle tempeste dell’esitazione facevo con la persona molti dei gesti che gli uomini talvolta vogliono, ma non valgono a fare, o perché mancano delle membra necessarie, o perché queste sono avvinte da legami, inerti per malattia o comunque impedite. Mi strappai cioè i capelli, mi percossi la fronte, strinsi le ginocchia fra le dita incrociate, così facendo perché lo volevo. Avrei potuto volere e non fare, se le membra non mi avessero ubbidito per impossibilità di muoversi. E mentre feci molti gesti, per i quali volere non equivaleva a potere, non facevo il gesto che mi attraeva d’un desiderio incomparabilmente più vivo e che all’istante, appena voluto, avrei potuto, perché all’istante, appena voluto, l’avrei certo voluto. Lì possibilità e volontà si equivalevano, il solo volere era già fare. Eppure non se ne faceva nulla: il corpo ubbidiva al più tenue volere dell’anima, muovendo a comando le membra, più facilmente di quanto l’anima non ubbidisse a se stessa per attuare nella sua volontà una sua grande volontà.

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