Il perturbante (Das Unheimliche) Freud pdf – Maddalena Damasso e l’uomo di sabbia, HOFFMANN

Das Unheimliche, by Sigmund Freud—A Project Gutenberg …

sigmund freud il perturbante – Studio Roma – Istituto Svizzero

di Maddalena Damasso, argomento: Psicoanalisi

Freud tratta il perturbante, unheimliche in lingua tedesca, in un saggio pubblicato per la prima volta in Imago nel 1919, ma elaborato già diversi anni prima. L’autore è insoddisfatto dalla identificazione tout court del termine con: insolito, orrido, angoscioso e poco convinto dal tentativo di definizione effettuato da Jentsch, che concludeva il suo saggio Zur Psychologie das Unheimlichen del 1906 con l’equazione “perturbante = inconsueto”; si propone pertanto di chiarire ulteriormente che cosa sia l’Unheimliche.

“Non c’è dubbio che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso. E’ lecito tuttavia aspettarsi che esista un nucleo particolare che giustifichi l’impiego di una particolare terminologia concettuale. Ciò che vorremmo sapere è: che cos’è questo nucleo comune che consente appunto di distinguere, nell’ambito dell’angoscioso, un che di perturbante”.

Che cosa sia questo nucleo particolare egli lo anticipa subito, per passare poi ad illustrare il percorso di ricerca fatto per giungervi: “il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”. Spaventoso e familiare sono sicuramente due termini ossimorici, se non addirittura antitetici, il perturbante scaturirebbe dal loro incontro. Perturbante non è equivalente a spaventoso e non è neppure il contrario di familiare, come potrebbe apparire dal fatto che l’aggettivo tedesco Unheimlich è, nella sua accezione più immediata, la negazione di Heimlich, familiare appunto (da Heim che significa casa), secondo la prima definizione che offe il dizionario di lingua tedesca di Daniel Sanders, cui Freud fa riferimento.

Se infatti si passa alla seconda definizione di Heimlich, il dizionario riporta termini: nascosto, celato e frasi idiomatiche in cui Heimlich è abbinato alla magia ed al mondo sotterraneo. In questa seconda accezione, dunque, Heimlich viene quasi a coincidere, a sovrapporsi alla sua negazione Unheimlich, quando appunto lo si intende come “tutto ciò che dovrebbe restar…segreto, nascosto e che invece è affiorato” come dice Schelling nell’espressione riportata nel dizionario di Sanders a titolo esplicativo.

Ora, osservando bene, si può trovare lo stesso significato espresso da James in altri termini ed in altro ambito, quello letterario; egli infatti, in una recensione critica apparsa su The Nation nel 1865, a proposito del nuovo genere gotico, afferma che questo, per catturare lo smaliziato lettore del XIX secolo, non può ricorrere più come in passato ad ingredienti esagerati quali: luoghi orrorosi, apparizioni apocalittiche ed altre mostruosità, ma deve giocare il suo gioco sapiente di seduzione introducendo una nuova alchimia: “i misteri che si trovano alle nostre porte”.

“Una storia dell’orrore oggi – continua James nella sua recensione – deve essere collegata in cento modi con gli oggetti quotidiani della vita ed il suo successo dipenderà dai suoi accessori prosaici, comuni e diurni”. L’ambiguità terminologica rilevata da Freud come radice concettuale del perturbante, è la stessa ambiguità o ambivalenza adottata da James fin dalla scelta del titolo del suo racconto. The turn of the screw, Il giro di vite, è un’espressione metaforica che risulta familiare e non sembra a prima vista preludere ad atmosfere inquietanti, ma proprio come avverrà per tutte le pagine dell’opera, trascorse da brividi che increspano la calma apparente del quotidiano, anche il titolo è solo apparentemente rassicurante nella sua quotidianità espressiva.

Octave Mannoni osserva che “l’espressione stessa figura nel testo in due passi distanziati e in due sensi molto diversi e non può essere un caso o una distrazione, perché sarebbe poco consono all’abituale modo di fare dello scrittore e al suo desiderio, ovunque evidente e al tempo stesso nascosto, di suggerire più di quanto non dica”. I due passi sono rispettivamente all’inizio e quasi alla fine dell’opera ed in essi l’espressione assume due significati molto diversi, proprio in virtù della sua ambiguità. Nella parte iniziale, quando ancora la storia non è cominciata, è il narratore esterno Douglas a pronunciarla: «Se il fanciullo aggiunge all’effetto un ulteriore giro di vite, che direste di due bambini…?» «Diremmo ovviamente,» esclamò qualcuno «che due bambini equivalgono a due giri di vite!Diremmo anche che vogliamo conoscere la storia».

In questo caso l’espressione provoca un effetto di ansiosa attesa, l’effetto perturbante è così annunciato. La seconda citazione appartiene alla narratrice interna, la giovane istruttrice, ed è espressa in un momento di grande pathos, quando ella dubita di sé, del suo equilibrio psichico e, per recuperare certezze morali, afferma che è necessario dare «un ulteriore giro di vite alla virtù umana e quotidiana».

Le coincidenze di ordine situazionale e letterario

Nello sviluppare il suo saggio Freud passa dall’ambito linguistico-etimologico a quello situazionale e letterario. Procede dapprima ad un’analisi del racconto Il mago Sabbiolino di Hoffmann, per soffermarsi poi sul tema del doppio e delle sue radici filogenetiche ed ontogenetiche e per concludere l’esame di altre possibili fonti del sentimento del perturbante quali: “la ripetizione di eventi consimili”, la relazione con la morte e con la pazzia.

A proposito del racconto Hoffmaniano, appartenente alla raccolta Notturni, Freud concede un’analisi testuale volta a dimostrare che il perturbante, di cui tutta la storia è permeata, è ricollegabile sostanzialmente a tre fonti, due delle quali erano già state individuate dallo Jentsch, mentre le terza è una scoperta tutta freudiana.

Tali fonti sono nell’ordine: vita apparente di un oggetto inanimato; incertezza intellettuale che il “narratore inizialmente produce in noi…impedendoci in un primo tempo e- va da sé- non senza intenzione di indovinare se ci introdurrà nel mondo reale o in un mondo fantastico di sua invenzione”; il fattore infantile che, in tale racconto coincide con “l’angoscia propria del complesso di evirazione infantile”.

A questo terzo elemento soprattutto Freud attribuisce la capacità di ingenerare il senso di Unheimliche, nel racconto di Hoffman, ma non solo. Il fattore infantile infatti, inteso come ritorno di quanto era stato rimosso, diviene per Freud la fonte primaria non solo del perturbante letterario, ma anche del sentimento del perturbante che si prova in situazioni reali quando: un’angoscia o un desiderio o una credenza infantile riaffiorano alla coscienza adulta e risultano insieme familiari e sconosciuti.

Proseguendo nell’esame di topoi letterari e situazioni reali che rimandano direttamente all’idea di perturbante, Freud riserva una particolare considerazione alla figura del doppio. Parlando del doppio egli si rifà all’opera di Otto Rank “Der Doppelgänger” ed attribuisce all’immagine del sosia, a cui spesso la letteratura antica e moderna ha attinto, una radice antropologica-culturale e insieme una radice psicologica.

Egli rileva così che all’origine era una sorta di assicurazione contro la morte, che nella civiltà dell’antico Egitto diventa “la spinta all’arte di modellare l’immagine del defunto in materiale durevole”, e osserva che queste duplicazioni sono legate al narcisismo primario che “domina la vita psichica sia del bambino che dell’uomo primitivo e, col superamento di questa fase, muta il segno premesso al sosia, da assicurazione di sopravvivenza diventa un perturbante precursore di morte.

La rappresentazione del sosia non scompare necessariamente insieme con questo narcisismo originario, ma può acquisire un contenuto nuovo traendolo dalle fasi di sviluppo successivo dell’Io. Nell’Io si forma lentamente un’istanza particolare capace di opporsi al resto dell’Io, un’istanza che serva all’autosservazione e all’autocritica, che esegua il lavoro della censura psichica e che diventa nota alla nostra coscienza come coscienza morale. Nel caso patologico del delirio di attenzione essa si isola, si separa dall’Io, diventa osservabile da parte del medico”.

Oltre a questa funzione di autosservazione e autocritica, il sosia può “immedesimare anche tutte le possibilità non realizzate che il destino terrebbe in serbo, alle quali la fantasia vuole ancora aggrapparsi, e tutte le aspirazioni che, per sfavorevoli circostanze esterne, non riuscirono ad attuarsi, così come tutte le decisioni della volontà represse, che diedero luogo all’illusione del libero arbitrio”. Freud conclude che il sentimento del perturbante, collegato alla figura del doppio, scaturisce dal fatto che nel sosia il significato amichevole e familiare, appartenente ai tempi culturali e psichici primordiali, si è trasformato in censura, rimozione, coazione.

Analizzando poi la ripetizione involontaria l’autore così ne sintetizza il suo rapporto con il perturbante: “il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé è innocuo, e ci insinua l’idea di fatalità, di inevitabilità là dove normalmente avremmo parlato soltanto di caso”. Anche per questa possibile fonte del perturbante Freud rimanda alla vita psichica dell’infanzia, quando esiste una coazione a ripetere che procede da moti pulsionali, tale coazione viene poi rimossa, ma può riaffiorare sotto altra forma, la superstizione per esempio, e turbarci.

E all’infanzia dell’umanità e del singolo è ricollegabile il perturbante legato all’idea della morte, che può tradursi a volte nel terrore degli spettri. Freud afferma che si tratta di un terrore primitivo ancora molto forte in noi e “pronto a manifestarsi non appena qualcosa lo faccia affiorare”: E così anche l’effetto perturbante provocato dalla pazzia ha la stessa radice antica nel tempo e profonda nella psiche: “Il profano vede qui la manifestazione di forza che non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di percepire oscuramente il moto in angoli remoti della propria personalità”.

Il rimando costante al fattore infantile in senso psichico e a quello primitivo in senso antropologico porta Freud a concludere che “la natura segreta del perturbante…” è “qualcosa di rimosso che ritorna” ciò che Schelling definiva appunto quello che dovrebbe restare nascosto e che invece è affiorato. Ora trasferire automaticamente tutte queste considerazioni all’opera di James, per trovare riscontri puntuali, può apparire un’operazione forzata, ma a ben guardare le analogie e i parallelismi sono molti ed in più punti possiamo parlare di vere e proprie coincidenze.

Se infatti prendiamo in considerazione l’ipotesi freudiana nel suo insieme notiamo subito un’aderenza non superficiale tanto alla materia narrativa del racconto jamesiano, quanto all’effetto che esso provoca sul lettore. Se perturbante è ciò che risulta allo stesso tempo misterioso e familiare, se lo è ciò che riaffiora nel presente dai primordi dell’umanità e dal profondo della psiche, ebbene tutta la narrazione nel suo complesso è una commistione di consueto e inconsueto.

L’incipit innanzitutto: il focolare vicino al quale Douglas, il primo narratore, ed altri amici sono riuniti la sera della vigilia di Natale, contribuisce a caratterizzare un’atmosfera calda e rassicurante, e predispone ad uno stato d’animo disteso, ma ecco l’annuncio di una storia che, come premette Douglas «E’ fin troppo orribile…supera ogni limite. Non vi è nulla a cui si può paragonare».

E su questa contaminazione tra familiare e misterioso si snoda tutta la vicenda. Se poi dall’ipotesi generale scendiamo agli elementi individuati in modo analitico dalla ricerca freudiana, vediamo che le corrispondenze ed i rimandi sono tutt’altro che sporadici e superficiali.

Il “fattore infantile” individuato da Freud come fonte primigenia del perturbante è sicuramente il nucleo forte, il perno del racconto ed è reso tangibile dalla presenza fisicadei due bambini Miles e Flora “se il fanciullo aggiunge all’effetto un ulteriore giro di vite, che direste di due bambini…?” Miles e Flora: innocenza o perversione?

Innocenza e perversione?

Miles e Flora vittime comunque: della possessione da parte dei due spettri dannati di Quint e della signorina Jessel o dell’isteria della giovane istruttrice che proietta la sua angoscia su di loro. Il fattore infantile dunque come condensato di Bene e di Male, di limpido e di torbido, di solarità e di tenebra. Che siano posseduti dai fantasmi o schiacciati dalle ossessioni moralistiche della istitutrice, i due fanciulli provocano nel lettore un effetto perturbante, il combinarsi di Heimliche e Unheimliche.

I bambini in questa storia “fin troppo orribile” sono per il lettore adulto ciò che egli è stato un tempo e non è più, sono le paure infantili che riemergono da lontano e perturbano, proprio perché sono conosciuti e sconosciuti insieme. Il fattore infantile, tuttavia, è presente nell’opera anche in un altro senso, nel senso cioè dell’infanzia della istitutrice e del peso che quell’infanzia comporta per lei.

Ella, “la più giovane di molte figlie di un povero parroco di campagna, era arrivata a Londra, all’età di vent’anni, per prendere servizio per la prima volta come istitutrice”. Questa “ansiosa ragazza allevata in un vicariato dell’Hampshire” ha dietro di sé una storia infantile che si è snodata nell’ambito angusto di un vicariato rurale, tra molte sorelle, sotto la guida che possiamo immaginare rigida e bigotta, di un padre che fa il parroco di campagna e, sin dall’inizio della storia, c’è dato osservare come essa compensi la mancanza di esperienza con molto sicurezza e una specie di ambizione.

Di moralismo si è nutrita, di tabù e pregiudizi, ma la sua è anche una natura passionale, come si intuisce dal fatto che si innamora a prima vista del suo datore di lavoro. “La colpì inevitabilmente, per i suoi modi galanti e cortesi…Lei se lo immaginò tanto ricco quanto stravagante: lo vide avvolto in un alone di mondanità, di bellezza, di lusso e di modi incantevoli con le donne”.

Le è bastato vederlo una sola volta, né lo incontrerà mai più, per esserne soggiogata, per decidersi ad un sacrificio, quello di assumersi la totale responsabilità dell’educazione dei due pupilli dell’uomo, nell’isolamento di una dimora sperduta, sacrificio che altre prima di lei avevano giudicato primitivo. Rigidità morale e passionalità convivono nella giovane donna in una combinazione che è destinata ad esplodere. La sua carica sessuale rimossa sotto strati e strati di repressione moralistica si proietta in un doppio che assume l’aspetto spettrale della dissoluta signorina Jessel, la precedente istitutrice che è morta tragicamente dopo aver consumato il rapporto perverso con Quint.

Questa immagine riflessa, questa sorta di doppio, e insieme la carica di morte e dannazione che rappresenta, alla luce di studi recenti si potrebbe anche leggere come “sapere della mancanza…” che è “…sapere di un desiderio. Il quale è desiderio di un corpo che cerca la sua immagine”; ma se vogliamo restare al saggio di Freud del 1919, esso (il doppio) sarà insieme tutto ciò che l’io rigetta di sé, ma anche tutto ciò a cui l’Io aspira.

Gli spettri del racconto reali forse, ma certo tali per la giovane donna, sono l’altro fattore che Freud individua tra le fonti del perturbante, lo sono nel senso che turbano tanto l’istitutrice quanto il lettore. L’inafferrabilità dell’idea della morte, qui associata a quella più comprensibile del peccato, fa scaturire un effetto fortemente perturbante, soprattutto perché non assume l’aspetto orripilante e macabro delle apparizioni del gotico classico, ma quello più familiare di un uomo e una donna che sembrano vivi, tanto sono adattati all’ambiente in cui fanno la loro comparsa o in cui li proietta il delirio della istitutrice.

A questo punto sappiamo che gli ingredienti del perturbante freudiano ci sono praticamente quasi tutti, e sono perfettamente dosati da James che annuncia che con questa storia ha effettuato una incursione nel caos. Quello che non vuol chiarire è però se questo caos appartiene alla coscienza o alla realtà. “Rendere denso come una fitta pasta il soggetto della mistificazione della mia giovane amica, della mia immaginaria narratrice, e tuttavia mantenere l’espressione così chiara e fine che ne risultasse bellezza: nessun aspetto della cosa rivive per me quanto quello sforzo”.

Non dà mai una spiegazione esplicita “chiedersi se la credenza negli spettri possa esser ricondotta alla teoria scientifica delle allucinazioni, gli sembra un problema vuoto e superficiale”, e tuttavia la pazzia è quasi palpabile negli eventi, nei pensieri, forse anche negli ambienti che si deformano sotto i nostri occhi e sembrano dilatarsi o comprimersi come se fossero riflessi da specchi deformanti. Ogni cosa nel racconto oscilla tra un realismo puntuale e concreto e una dimensione immaginaria, quasi quel “sognare ad occhi aperti (teatro privato)” che si anima di vita fittizia e si sostituisce alla realtà effettiva in quella che Freud chiama assenza allucinatoria.

A questo punto dovrebbe risultare evidente che qualunque sia la collocazione di genere, ghost story o psychical case che si voglia attribuire, il racconto di James presenta praticamente la più parte degli elementi che Freud andava individuando alla radice del perturbante e soprattutto James sottopone i lettori all’effetto perturbante, sollecitandogli ora percezioni, ora riflessioni, ora piacere, ora disagio, per qualcosa che in qualche modo mentre risulta familiare, continua ad essere sfuggente, o per meglio dire difficilmente classificabile secondo i canoni della ragione.

“Ha introdotto i bambini per dare un giro di vite, ed ha attribuito loro una purezza angelica per farli diventare sospetti. Ha tirato in ballo le innocenti superstizioni per mascherare meglio un delirio crudele… Ma l’artificio più grande sta nell’essersi egli stesso calato dietro tanti artifici e nell’essersi trincerato nella pura tecnica letteraria. Egli ha saputo sviluppare l’arte di nascondere, di nascondersi…” L’Unheimliche provocato da James ha dunque una sorgente ulteriore e niente affatto secondaria che è la sapienza dell’artista.

L’effetto perturbante di Giro di vite, così come quello di molti racconti di Edgar Allan Poe o di Guy De Maupassant o di Dino Buzzati e di molti altri scrittori (anche dei migliori scrittori di letteratura di consumo), non è riducibile alla semplice somma di elementi (spettri, isteria, fattore infantile, sessualità rimossa e quanti altri abbiamo fin qui esaminato), l’effetto perturbante in arte, come l’effetto comico quello tragico o quello elegiaco, è creazione e tecnica. James, sollecita la complicità dei lettori e poi li lascia soli, incerti e turbati, e così li rapisce in una sorta di realtà sospesa e sospetta, e così li rende suoi!

Del resto proprio su questo potere dell’arte anche Freud chiude il suo saggio esprimendo un esplicito tributo alla libertà del poeta. “Tra le molte libertà concesse ai poeti c’è anche quella di scegliersi a loro capriccio il mondo che vogliono rappresentare, in modo che coincida con la realtà a noi consueta oppure se ne allontani in qualche modo. In ogni caso noi li seguiamo”.

E quando il poeta decide di provocare nei lettori quello che finora è stato chiamato effetto perturbante può superare di gran lunga la realtà. “In questo caso egli fa proprie anche tutte le condizioni che nell’esperienza reale sono all’origine del sentimento perturbante; e tutto ciò che ha effetto perturbante nella vita l’ha anche nella poesia; ma in questo caso il poeta può anche accrescere e moltiplicare il perturbante ben oltre il limite possibile nell’esistenza reale, facendo succedere eventi che nella realtà non sperimenteremmo o sperimenteremmo molto di rado.

Egli ci abbandona allora in certo modo alla superstizione che ritenevamo in noi superata, ci inganna promettendoci la realtà più comune e poi invece la scavalca”.

James ci ha ingannato e di questo inganno non gli saremo mai troppo grati.

Bibliografia

Freud, S., (1967). Opere 1886-1894. Studi sull’isteria e altri scritti. Boringhieri, Torino.

Freud, S., (1969). Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio: il perturbante. Boringhieri, Torino.

Mannoni, O., (1972). La funzione dell’immaginario. Letteratura e psicoanalisi. Editori Laterza, Bari.

Vegetti Finzi, S. a cura di, (1995). Storia delle passioni, cap.IX, La passione della differenza di Adriana Cavarero. Edizioni Laterza, Bari.

James, H., (1956). Le preparazioni, a cura di Agostino Lombardo. Neri Pozza Editore, Venezia.

James, H., (1969). Giro di vite. Arnoldo Mondatori.

Wilson, E., (1976). L’ambiguità di Henry James nel volume Il pensiero multiplo. Garzanti, Milano.

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E.T.A. HOFFMANNL’UOMO DELLA SABBIA


NATANIELE E LOTARIO Voi tutti sarete certo molto inquieti perché da tanto, tanto tempo non vi scrivo. La mamma sarà in collera con me, e forse Clara crederà che io stia spassandomela allegramente e abbia persino dimenticato l’immagine soave del mio angelo, che è così profondamente radicata nel mio cuore e nella mia mente. Ma non è così: ogni giorno, ogni ora, penso a voi tutti e nei sogni mi appare sempre la gentile figura della dolce Claretta che mi sorride con quei suoi limpidi occhi, con quella grazia, proprio come quando venivo da voi. Ma come era possibile scrivervi, quando il mio animo straziato sconvolgeva ogni mio pensiero? Nella mia vita è entrato qualcosa di terribile! Presentimenti oscuri di un orribile destino che mi sovrasta si agitano sopra di me come nere ombre di nubi impenetrabili a ogni benefico raggio di sole. Ma ora devo dirti cosa mi è accaduto. È necessario che te lo dica, lo capisco, ma al solo pensiero mi sembra di esplodere in una risata.
O mio carissimo Lotario, non so come cominciare per farti sentire, anche vagamente, come ciò che mi è accaduto alcuni giorni or sono abbia potuto veramente distruggere in modo così vigliacco la mia vita! Se tu fossi qui, potresti personalmente rendertene conto; invece ora mi prenderai per uno stravagante visionario. In poche parole: la cosa terribile che mi è capitata, e la cui mortale impressione invano tento di eliminare, consiste semplicemente nel fatto che alcuni giorni or sono, il 30 ottobre, proprio a mezzogiorno, un venditore di barometri entrò nella mia stanza e mi offrì la sua merce. Io non comperai nulla e minacciai di buttarlo giù dalle scale: dopo di che egli se ne andò. Tu certo capirai che soltanto precisi fatti, intimamente legati alla mia vita, possono conferire significato a questo avvenimento e che la persona di quello sciagurato mercantucolo può avere su di me influenze deleterie. Così è infatti. Ora voglio raccogliere tutte le mie forze per narrarti con calma e pazienza quel tanto della mia giovinezza che possa presentarti le cose in modo chiaro e vivido. Ma mentre sto per cominciare mi sembra di sentirti ridere e udire Clara che dice: “Ma tutte queste sono fole da bambini”. Ridete, vi prego, ridete pure di me, di tutto cuore! Ma, Dio del cielo, i capelli mi si rizzano sul capo ed è come se vi implorassi di deridermi, preso da folle disperazione, come Franz Moor implora Daniele. Ma veniamo ai fatti. Durante tutta la giornata, all’infuori del pranzo, io e mia sorella vedevamo molto di rado nostro padre. Doveva essere molto occupato nel suo lavoro. Dopo cena, che secondo una vecchia abitudine si consumava già alle sette, noi tutti con la mamma andavamo nel suo studio e ci sedevamo intorno a un tavolo rotondo. Il babbo fumava e beveva un grosso bicchiere di birra. Spesso ci raccontava storie meravigliose e vi si entusiasmava talmente da lasciar spegnere la pipa, e io dovevo riaccendergliela con un pezzo di carta a cui avevo dato fuoco: il che era per me un vero divertimento. Spesso invece ci metteva dinanzi dei libri illustrati, sedeva muto e pensieroso nella sua poltrona e soffiava attorno a sé dense nuvole di fumo, tanto che ci sembrava di nuotare nella nebbia. In quelle sere la mamma era molto triste e appena battevano le nove ci diceva: “Su, ragazzi, a letto, a letto! Viene l’uomo della sabbia, già mi pare di vederlo!”. E io ogni volta sentivo veramente un passo lento e pesante che saliva su per le scale: doveva essere l’uomo della sabbia. Una volta quel camminare cupo e rintronante mi fece venire i brividi e alla mamma che ci conduceva via chiesi: “Mamma, chi è mai quel cattivo uomo della sabbia che ci allontana sempre dal babbo? Che aspetto ha?”. “Non esiste nessun uomo della sabbia, figliolo mio” rispose la mamma “quando io vi dico che viene l’uomo della sabbia, voglio solo dire che voi siete assonnati e che non potete tenere più aperti gli occhi, come se vi avessero gettato della sabbia.” La risposta della mamma non mi soddisfece; anzi, nella mia mente infantile sempre più chiaro si fece il pensiero che la mamma volesse negare l’esistenza dell’uomo della sabbia solo perché noi non dovessimo averne paura, tanto è vero che lo sentivo sempre salire le scale. Desideroso di voler vedere più da vicino questo uomo della sabbia e di sapere quali erano i suoi rapporti con i bambini, chiesi infine alla vecchia cui era affidata la mia sorellina minore chi mai esso fosse. “Oh, Niele” rispose costei “non lo sai ancora? È un uomo cattivo, che viene dai bambini che non vogliono andare a letto e butta loro negli occhi manciate di sabbia sino a farglieli schizzare sanguinanti fuori dal capo; poi li prende, li mette in un sacco e li porta sulla luna in pasto ai suoi figlioletti; questi stanno lassù in un nido e hanno il becco ricurvo come le civette e con questo beccano gli occhi dei bambini cattivi.”
L’orribile immagine di quell’uomo crudele si impresse così nella mia mente, e quando alla sera io lo sentivo salire le scale, tremavo dall’angoscia e dal terrore. Mia madre riusciva solo a cavarmi dalla bocca questo grido balbettato tra le lacrime: “L’uomo della sabbia! L’uomo della sabbia!”. Correvo quindi nella camera da letto e tutta la notte ero torturato dalla paurosa visione dell’uomo della sabbia. Quando fui abbastanza grande per comprendere che tutto ciò che mi era stato raccontato dalla governante dell’uomo della sabbia e della sua nidiata di figlioli sulla luna non aveva nessun fondamento, l’uomo della sabbia per me continuava a essere un fantasma pauroso ed ero sempre preso da vero terrore quando lo sentivo non solo salire le scale ma anche aprire la porta dello studio di mio padre ed entrarvi. Qualche volta non si faceva vivo per molto tempo, ma poi veniva più volte di seguito. La cosa durò parecchi anni, e io non riuscivo ad abituarmi all’idea di quel fantasma la cui immagine odiosa non riuscì a impallidire nella mia mente. I suoi rapporti con mio padre finirono con l’ossessionare la mia fantasia. Avrei voluto interrogare mio padre, ma un terrore invincibile me lo impediva. Io stesso, io solo, dovevo indagare nel mistero, dovevo vedere il favoloso uomo della sabbia: questo fu il mio più vivo desiderio che col passare degli anni sempre più si radicò in me. L’uomo della sabbia mi aveva messo sulla strada dell’avventura, del meraviglioso, che così facilmente si annida nell’animo dei fanciulli. Niente mi attirava di più che ascoltare o leggere le paurose storie di folletti, di streghe, di gnomi, ma in cima a tutti stava sempre l’uomo della sabbia, che io andavo ovunque, con il gesso o con il carbone, disegnando nei più strani e orribili atteggiamenti su tavoli, su armadi e pareti. Quando ebbi dieci anni, mia madre mi fece passare dalla camera dei fanciulli in una piccola stanza che si apriva sul corridoio vicino a quella di mio padre. Come sempre quando battevano le nove e si sentiva lo sconosciuto in casa nostra, noi dovevamo in tutta fretta allontanarci. Dalla mia cameretta lo sentivo entrare dal babbo e subito dopo mi sembrava che per la casa si diffondesse un vapore dall’odore strano. Con la curiosità, sempre più cresceva in me il coraggio di fare in qualche modo la conoscenza dell’uomo della sabbia. Spesso, appena la mamma era già passata oltre, dalla mia cameretta sgusciavo nel corridoio, ma non riuscivo a vedere nulla perché l’uomo della sabbia, quando raggiungevo il punto da dove avrei potuto vedere, era già entrato nella camera del babbo. Alla fine, spinto da un impulso irresistibile, decisi di nascondermi proprio nella camera del babbo per aspettarvi l’uomo della sabbia. Una sera, dal silenzio del babbo e dalla tristezza della mamma, compresi che l’uomo della sabbia sarebbe venuto. Con la scusa che ero molto stanco, lasciai prima delle nove la stanza e mi nascosi in un nascondiglio vicino alla porta. Il portone di casa cigolò: dal vestibolo, su, verso la scala, rintronarono i passi lenti e pesanti. La mamma mi passò dinanzi con la sorellina. Piano piano aprii la porta della stanza del babbo. Egli come al solito se ne stava seduto muto e rigido, volgendo le spalle alla porta e non si accorse di me. Fui subito dentro e mi cacciai dietro la tendina, che era tesa su un armadio aperto, vicino alla porta, dove il babbo teneva i suoi abiti. Sempre più vicino… sempre più vicino risuonavano i passi… ecco!… di fuori un tossire, uno scalpicciare, un borbottio strano. Nell’attesa angosciosa il cuore mi tremava. Ecco, proprio vicino alla porta un passo serrato… un colpo violento sulla maniglia… la porta si spalanca con rumore! Facendomi animo, con cautela sporgo la testa. L’uomo della sabbia sta nel mezzo della stanza, davanti a mio padre: la luce chiara delle candele gli illumina il viso! L’uomo della sabbia, il tanto temuto uomo della sabbia, è il vecchio avvocato Coppelius, che qualche volta a mezzogiorno viene a mangiare da noi. Ma nessuna figura più mostruosa avrebbe potuto atterrirmi come quella di Coppelius. Immaginati un uomo alto, dalle spalle larghe, con una grossa testa informe, il viso terreo, le sopracciglia grigie e cespugliose, sotto le quali lampeggiano due occhi da gatto verdastri e pungenti e un naso grande e grosso cadente sopra il labbro superiore. La sua bocca si torce spesso in un sorriso malvagio; si vedono allora sulle guance due macchie scarlatte e uno strano sibilo gli passa attraverso i denti stretti. Coppelius compariva sempre con una giacca color cenere di taglio antiquato, il panciotto e i calzoni dello stesso colore, ma portava calze nere e le scarpe con piccole fibbie ornate di pietre. La piccola parrucca gli copriva a stento il cocuzzolo, i cernecchi gli stavano appiccicati sopra le grandi orecchie rosse e una larga reticella per i capelli saltava fuori dalla nuca, lasciando vedere il fermaglio d’argento che teneva fissata la cravatta pieghettata. Tutto il suo aspetto era stomachevole e odioso; ma soprattutto a noi bambini facevano senso le sue mani pelose e nodose tanto che rifiutavamo tutto ciò che toccava. Egli se ne era accorto e si divertiva a toccare con un pretesto qualsiasi ora un pezzo di torta, ora un frutto dolce che la nostra buona mamma ci aveva messo sul piatto, cosicché, piangendo per lo schifo e per il ribrezzo, rinunciavamo a quelle ghiottonerie che dovevano darci gioia. La stessa cosa faceva nei giorni di festa, quando il babbo ci mesceva un bicchierino di vino dolce: allora egli subito vi posava la mano oppure si portava addirittura il bicchiere alle labbra e rideva diabolicamente quando non riuscivamo a manifestare la nostra rabbia se non attraverso sommessi singhiozzi. Era abituato a chiamarci bestiole. Lui presente, non dovevamo dire neppure una parola e non potevamo fare altro che maledire quel cattivo, odioso uomo che ci rovinava apposta anche il piacere più innocente. Anche la mamma sembrava che odiasse quel ripugnante Coppelius appena infatti egli appariva, tutta la sua serenità, la sua natura gaia e semplice si mutava in una cupa tristezza. Mio padre invece di fronte a lui si comportava come davanti a un essere superiore di cui si devono sopportare le scortesie e che occorre mantenere a ogni costo di buonumore. Bastava che quello vi accennasse perché subito si preparassero cibi prelibati e si servissero vini scelti. Quando dunque vidi Coppelius, provai orrore e raccapriccio, perché solo lui poteva essere l’uomo della sabbia. Ma l’uomo della sabbia per me non era certo lo spauracchio delle fole della governante, quello che veniva a prendersi in pasto gli occhi dei bambini per le civette sulla luna, no, certo: era un mostro orribile che, dove arrivava, portava con sé dolori e miserie, momentanei o perpetui. Ero come affascinato. Con il pericolo di essere scoperto e quindi severamente punito, rimasi dove ero, e origliavo sporgendo la testa dalla tendina. Mio padre accolse Coppelius con molto rispetto. “Su, al lavoro” fece questi, con voce stridula, deponendo la giubba. Il babbo cupo e silenzioso si tolse la veste da camera, ed entrambi indossarono lunghe tuniche nere. Dove le avessero prese non riuscii a vedere. Mio padre aprì le ante di un armadio a muro; ma vidi che quello che per tanto tempo avevo creduto un armadio era una caverna nera in cui stava un piccolo focolare. Coppelius si avvicinò e vi accese una fiamma azzurra e scoppiettante. Attorno vi stavano vari e strani oggetti. Dio mio! come era mutato mio padre mentre si chinava sul fuoco! Si sarebbe detto che un dolore tremendo e lancinante avesse trasfigurato i suoi lineamenti dolci e nobili in quelli di un demonio brutto e riluttante. Ora assomigliava a Coppelius. Questi con tenaglie arroventate toglieva dal denso fumo materiali sfavillanti che poi con grande energia martellava. Mi sembrava di vedere tutto attorno visi umani, ma senza occhi, e al posto di questi impressionanti cavità nere. “Qua gli occhi, qua gli occhi” gridava Coppelius con voce cupa e tonante. Preso da una paura selvaggia, mandai un grido e saltai fuori dal mio nascondiglio. Coppelius mi afferrò: “Bestiola, bestiola!” belò digrignando i denti… Mi sollevò, mi buttò nel fuoco e la fiamma cominciò a bruciarmi i capelli. “Ora abbiamo gli occhi, gli occhi… un bel paio di occhi di fanciullo.” Così sussurrava Coppelius e con le mani prese dalla fiamma alcuni granelli incandescenti che voleva buttarmi negli occhi. Mio padre implorando alzò le mani e gridò: “Maestro, maestro, lascia gli occhi al mio piccolo Nataniele, lasciaglieli”. Coppelius rise in modo stridulo e disse: “Li tenga pure gli occhi il ragazzo per frignare nel mondo; ma ora osserviamo un po’ il meccanismo delle mani e dei piedi”. E mi afferrò con violenza, le giunture scricchiolarono, mi svitò mani e piedi che andava poi rimettendo a posto: “Non tutti vanno bene, era meglio prima! Il vecchio aveva capito bene!” così sibilava e bisbigliava Coppelius, ma intorno a me vi erano le tenebre: una specie di spasmo mi attraversò i nervi e le ossa e non sentii più nulla. Un dolce alito caldo mi accarezzò il viso. Mi ripresi come da un sonno mortale, la mamma stava china su di me. “È ancora qui l’uomo della sabbia?” balbettai. “No, figliolo caro: ormai se ne è andato, non può più farti del male” così diceva la mamma accarezzando e baciando il suo caro figliolo ritrovato. Ma perché annoiarti oltre, mio carissimo Lotario? Perché raccontarti così estesamente ogni particolare, quando mi rimane ancora tanto da dire? Basta. Fui scoperto a origliare e maltrattato da Coppelius. La paura e l’angoscia mi fecero venire un febbrone per cui me ne stetti a letto qualche settimana. “L’uomo della sabbia è ancora qui?” Queste furono le mie prime parole sensate, e furono il segno della mia guarigione, della mia salvezza. Ma devo ancora raccontarti il momento più spaventoso della mia giovinezza: poi tu stesso comprenderai che se per me oggi tutte le cose non hanno più colore, ciò non è dovuto alla debolezza dei miei occhi, bensì a un oscuro destino che ha steso sulla mia vita un velo opaco di nubi che forse solo morendo squarcerò. Coppelius non si fece più vedere: aveva lasciato la città. Era passato circa un anno e noi una sera, secondo l’immutabile vecchia consuetudine, sedevamo attorno al tavolo rotondo. Mio padre era sereno e raccontava molti episodi divertenti dei viaggi che aveva fatto in gioventù. Improvvisamente, al battere delle nove, udimmo il portone di casa cigolare sui cardini e dal vestibolo, su verso le scale, risuonarono lenti passi pesanti. “È Coppelius” disse mia madre impallidendo. “Già, è Coppelius” ribatté mio padre con voce stanca e tremante. Le lacrime scesero dagli occhi di mia madre: “Babbo, babbo” gridò essa “ma sarà sempre così?”. “Per l’ultima volta” egli rispose “per l’ultima volta viene da noi. Te lo prometto. Va’, va’ con i ragazzi. Andate, andate a letto. Buona notte.” Avevo l’impressione di essere premuto tra pietre fredde, il respiro mi mancava. Siccome non riuscivo a muovermi, la mamma mi prese per un braccio: “Vieni, vieni, Nataniele, su, vieni”. Mi lasciai condurre via ed entrai nella mia camera. “Sta’ calmo, sta’ calmo, mettiti a letto, dormi, dormi…” diceva mia madre; ma io, tormentato da un’indescrivibile angoscia, non potei chiudere occhio. L’odiato e nauseante Coppelius stava davanti a me con occhi sfavillanti e rideva beffardamente: invano cercavo di allontanarne l’immagine.
Poteva essere mezzanotte, quando si udì uno scoppio tremendo, come se avessero sparato un colpo di cannone. Tutta quanta la casa rintronò: dinanzi alla mia porta era un gran tramestio. Il portone di casa si chiuse con fracasso. “È Coppelius” gridai atterrito e balzai dal letto. In quella si udì un pianto disperato, mi precipitai nella stanza del babbo… La porta era aperta, un vapore soffocante mi sommerse, la fantesca gridava: “Oh, il padrone, il padrone!”. Davanti al focolaio fumante, per terra, giaceva mio padre morto, con il viso nero, bruciato, orribilmente stravolto e attorno a lui gemevano e piangevano le mie sorelle, e la mamma, accanto, era svenuta. “Coppelius, Coppelius, Satana infame, hai ucciso mio padre!” così gridai e svenni. Due giorni dopo, quando mio padre fu messo nella bara, i lineamenti del suo viso erano ritornati ancora dolci e miti, come da vivo. Mi consolai al pensiero che il legame con il diabolico Coppelius non aveva potuto precipitarlo nella dannazione eterna. L’esplosione aveva svegliato i vicini, la notizia dell’avvenimento giunse sino alle autorità che vollero fare un processo a Coppelius. Ma questi era sparito senza lasciare tracce. Se ti dicessi, caro amico, che quel venditore di barometri era proprio il maledetto Coppelius, non ti meraviglieresti certo che io consideri quell’apparizione come presagio di gravi sciagure. È vero che era vestito diversamente, ma la figura e i lineamenti del viso di Coppelius sono così profondamente impressi in me che non posso sbagliarmi. Coppelius non ha neppure cambiato nome. Qui si fa passare per un meccanico piemontese di nome Giuseppe Coppola. Sono deciso a liquidare i conti con lui e a vendicare la morte di mio padre, qualunque cosa accada. Non dire nulla alla mamma dell’apparizione di quel mostro odioso. Saluta la mia dolce Clara: le scriverò quando il mio animo sarà più tranquillo. Sta’ bene.
Clara a Nataniele
È vero che non mi hai scritto da lungo tempo, ma sono sicura che mi porti nel cuore e nei pensieri. E certo pensavi intensamente a me se nell’ultima lettera che volevi inviare a mio fratello Lotario mettesti il mio indirizzo invece del suo. L’aprii con gioia e mi accorsi dell’errore soltanto alle parole: “Mio carissimo Lotario”. Non avrei dovuto continuare a leggere, bensì consegnare la lettera a mio fratello. Benché talvolta nei nostri piccoli litigi fanciulleschi tu mi abbia rimproverato di avere un’anima così tranquilla e così giudiziosa per cui, come quella tal donna, di fronte al crollo della casa, prima di fuggire lascerei rapidamente una piega mal fatta alla tendina della finestra, posso assicurarti che l’inizio della tua lettera mi ha profondamente scossa. Rimasi senza fiato: era come se avessi avuto dei bagliori dinanzi agli occhi. Oh, mio caro Nataniele, come ha potuto una cosa tanto terribile entrare nella tua vita? Separarmi da te, non più rivederti, questo pensiero mi attraversò il petto come una pugnalata arroventata. Lessi e rilessi. La tua descrizione del nauseante Coppelius è terribile. Solo ora ho saputo di quale violenta e terribile morte sia morto il tuo vecchio, buon padre. Mio fratello Lotario, a cui consegnai ciò che era suo, cercò di consolarmi, ma non vi riuscì bene. Il maledetto mercante di barometri, Giuseppe Coppola, mi seguiva a ogni passo e quasi mi vergogno di riconoscere che egli sia riuscito persino a turbare con strani e fantastici sogni il mio sonno di solito così sereno e tranquillo. Ben presto però, il giorno seguente, tutto aveva preso un aspetto differente. Non volermene, mio adorato, se Lotario dovesse dirti che, nonostante il tuo strano presentimento che cioè Coppelius debba farti del male, io come sempre sono calma e serena. Anzitutto vorrei persuaderti che, secondo me, tutto ciò che vi è di terribile e di pauroso in quello che dici ha origine nel tuo intimo: il mondo esterno vi ha ben poca parte Nauseante certo deve essere stato il vecchio Coppelius, ma il fatto che egli odiasse i fanciulli originò in voi un vero ribrezzo nei suoi riguardi. Ora, nel tuo animo infantile il pauroso uomo della sabbia, tratto dalle fole della balia, si collegò con il vecchio Coppelius, il quale, anche se tu non credevi all’uomo della sabbia, per te rimase il mostro fantastico, pericoloso soprattutto per i fanciulli. Quella attività notturna con tuo padre dipendeva semplicemente dal fatto che ambedue in segreto facevano esperimenti di alchimia, e tua madre non poteva certo esserne contenta perché si sprecavano danari e inoltre, come sempre avviene con gente che fa tali esperimenti, l’animo di tuo padre, pieno di desiderio ingannevole di penetrare dentro la saggezza eterna, si sarà allontanato dalla famiglia. Tuo padre avrà certo trovato la morte a causa di una imprudenza e Coppelius non ne ha affatto colpa. Proprio ieri poi ho chiesto al bravo farmacista che abita vicino a noi se in esperimenti chimici è possibile un’esplosione così improvvisa e mortale. Egli mi rispose: “Senza dubbio” e mi descrisse alla sua maniera diffusa e pignola come ciò possa avvenire e fece tanti nomi strani che non mi fu possibile ricordare. Ora tu sarai indignato con la tua Clara e dirai: “In quell’anima fredda non penetra nessun raggio di quel mistero che spesso stringe gli uomini con braccia invisibili; essa riesce solo a vedere la variopinta superficie del mondo e si accontenta come una bambinetta ingenua di vedere il frutto dorato, nel cui intimo è nascosto un veleno mortale”. Ma, mio adorato Nataniele, non credi tu allora che anche nelle anime serene, limpide e ingenue possa albergare il presentimento di una oscura potenza che ostilmente cerca di rovinarci nel nostro più profondo io? Perdonami se da quella ragazza semplice che sono faccio il tentativo di spiegare in qualche modo cosa io pensi di una tale intima lotta. Alla fine può darsi che io non trovi le parole adatte e che tu rida di me non già perché dico delle cose sciocche, ma perché mi mostro così poco abile nell’esporle. Se vi è un potere oscuro e ostile che a tradimento trapianta un filo nel nostro intimo con il quale ci lega a sé e ci trascina per una via pericolosa e fatale che altrimenti non avremmo mai battuto, se esiste una simile possibilità, essa deve prendere dentro di noi la nostra stessa forma, anzi deve diventare il nostro stesso io. Soltanto così noi crediamo a esso e gli cediamo quello spazio di cui esso ha bisogno per portare a termine la sua opera segreta. Se abbiamo una mente abbastanza salda, rafforzata da una vita serena, per potere costantemente riconoscere gli influssi ostili come tali e per seguire con passo tranquillo la via a cui inclinazione e vocazione ci hanno indirizzato, allora quel sinistro potere naufraga nel vano tentativo di prendere quella forma che dovrebbe essere la nostra immagine rispecchiata. “È anche certo” aggiunge Lotario “che l’oscuro potere dell’anima, quando a esso ci abbandoniamo, spesso fa entrare in noi forme estranee che il mondo ci mette tra i piedi, cosicché noi stessi finiamo con l’eccitare il nostro spirito, che, come a noi sembra per una meravigliosa illusione, parla da quella forma. È il fantasma di quel nostro vero io la cui profonda affinità e profonda influenza sul nostro spirito ci precipitano nell’inferno o ci rapiscono in cielo.” Vedi dunque, mio carissimo Nataniele, come noi due, io e mio fratello Lotario, abbiamo discorso a lungo sopra questo argomento delle forze oscure: argomento che, dopo averne descritto non senza fatica i principali concetti, mi sembra abbastanza profondo. Le ultime parole di Lotario non le capisco completamente; intuisco solo ciò che vuol dire, ma mi sembra che sia molto vero. Ti prego, togliti dalla mente l’odioso avvocato Coppelius e il venditore Giuseppe Coppola. Sii persuaso che queste due figure estranee non possono nulla su di te; soltanto la fede nella loro potenza ostile può renderli veramente ostili. Se in ogni riga della tua lettera non esprimessi il profondo turbamento del tuo spirito, se il tuo stato d’animo non mi addolorasse sin nel profondo, sarei veramente capace di scherzare sull’avvocato della sabbia e su Coppelius, l’uomo del barometri. Sii sereno! Sii sereno! Mi sono proposta di apparirti come il tuo angelo custode e di cacciar via con una grande risata l’odioso Coppelius, nel caso volesse azzardarsi a turbare i tuoi sogni. Non ho assolutamente paura di lui né delle sue brutte minacce. Egli certo non deve rovinare le mie ghiottonerie come avvocato e gli occhi come uomo della sabbia. Per sempre, mio adorato Nataniele.Nataniele a Lotario
Mi dispiace molto che Clara ultimamente abbia per errore aperto e letto la lettera che avevo diretto a te, anche se ciò è dovuto alla mia distrazione. Mi ha scritto una lettera piena di profonda filosofia dove dimostra che Coppelius e Coppola esistono solo nel mio intimo e che sono fantasmi del mio Io, che subito svanirebbero appena li riconoscessi per tali. Non si crederebbe infatti che lo spirito di quella fanciulla, che dai suoi chiari e ridenti occhi spesso emana luce come un dolce sogno soave, sappia fare delle distinzioni così intelligenti, degne di un professore. Essa fa appello a te. Voi avete parlato di me. Tu certo le tieni dei corsi di logica, perché essa riesca a vagliare perfettamente e accuratamente ogni cosa. Ma lascia correre! È certo che il venditore di barometri Giuseppe Coppola non è il vecchio avvocato Coppelius. Ora seguo le lezioni del professore di fisica da poco arrivato, che ha lo stesso nome del famoso naturalista Spallanzani ed è di origine italiana. Questi conosce Coppola già da parecchi anni e inoltre si capisce dalla pronuncia di quest’ultimo che è veramente piemontese. Coppelius era un tedesco e, da quel che mi sembra, non era una persona onesta. Ora sono assolutamente tranquillo. Consideratemi pure, tu e Clara, un cupo sognatore, ma non posso liberarmi dall’impressione che il viso di Coppelius fa su di me. Sono felice che sia lontano dalla città, come dice Spallanzani. Questo professore è un bel tipo. È un piccolo uomo rotondetto, il viso dai forti zigomi, naso sottile, labbra grosse, occhi piccoli e pungenti. Meglio di qualsiasi altra descrizione ti servirà il ritratto di Cagliostro che Chodowiecki ha messo in non so quale calendario berlinese. Così è veramente Spallanzani. Ultimamente, salendo le scale, noto che la tendina, di solito tirata su una porta a vetri, lascia libera una fessura. Non so neppure io come arrivai a gettarvi dentro un’occhiata curiosa. Nella stanza sedeva dinanzi a un tavolino, su cui appoggiava le braccia, le mani giunte, una donna alta, snella, molto ben fatta e magnificamente vestita. Essa sedeva di fronte alla porta, cosicché potevo vedere perfettamente il suo viso angelico. Sembrava che non si fosse accorta di me e i suoi occhi avevano qualcosa di rigido, potrei anzi dire che non vedesse: era come se dormisse con gli occhi aperti. La cosa mi fece paura e scivolai subito nell’Auditorium, lì vicino. Seppi poi che quella strana creatura era la figlia di Spallanzani, Olimpia, che egli certo in modo malvagio tiene segregata perché nessuno possa avvicinarla. Certo c’è sotto qualcosa di misterioso o forse è deficiente o pressappoco. Perché ti scrivo questo? Potrei riferirtelo meglio direttamente. Sappi che tra quindici giorni sarò da voi. Devo rivedere la mia Clara, il mio angelo così dolce. Svanirà allora il mio malumore che, devo riconoscere, stava per dominarmi dopo quella mia lettera piena di fatalismo. Perciò neppure oggi le scrivo. Tanti saluti. Non si potrebbe inventare nulla di più stravagante di quello che capitò al mio povero amico, il giovane studente Nataniele, e che, benevolo lettore, mi accingo a narrarti. Non ti è mai capitato, carissimo lettore, che qualcosa si impossessasse completamente del tuo animo, della tua mente e dei tuoi pensieri, così che tutto il resto ne venisse scacciato? C’era in te come un fermento, un fervore che ti avvampava e il sangue cocente ti scorreva nelle vene e le tue guance ardevano. Il tuo sguardo era così strano come se volesse afferrare in uno spazio vuoto figure invisibili ad altro occhio e le tue parole si dissolvevano in cupi sospiri. E gli amici ti chiedevano: “Che cosa le succede, caro amico? Che cosa ha mai”. E tu allora volevi esprimere le immagini interiori con i colori più accesi e con le ombre e le luci e ti preoccupavi di trovare le parole che ti permettessero almeno di incominciare. E credevi di poter riportare perfettamente subito, sin dalle prime parole, tutto ciò che di meraviglioso, di stupendo e di terribile e di allegro e raccapricciante ti fosse accaduto, in modo da colpire tutti come con una scarica elettrica. Ma ogni tua parola, ogni tuo modo di esprimerti, ti appariva incolore e freddo. Tu cerchi, cerchi e balbetti e infine le domande degli amici ti colpiscono come soffi di vento gelato, dentro, nel tuo fervore infocato, sin quasi a spegnerlo. Ma se tu riesci da ardito pittore a tracciare con poche linee temerarie i contorni della tua immagine interiore, allora con poca fatica e con ardore sempre crescente vi stendi i colori, e il vivo tumulto delle molteplici figure trascina gli amici, i quali, come te, si vedono vivi dentro l’immagine espressa del tuo spirito. Veramente devo riconoscere, benevolo lettore, che nessuno mi ha chiesto la storia del giovane Nataniele ma tu sai che io appartengo a quella razza di scrittori i quali, quando portano dentro di sé qualcosa come quella che ti ho descritto, hanno l’impressione che chiunque gli passi vicino, anzi tutto quanto il mondo, debba chiedergli: “Che cosa è mai ciò? Racconta, carissimo”. Così fu più forte di me parlarti della vita sventurata di Nataniele. Il meraviglioso, lo strano si impossessò di tutto il mio animo, ma appunto perché io, o lettore, volevo renderti capace di sopportare il meraviglioso, che non è poca cosa, mi sono preoccupato di cominciare la storia di Nataniele in modo significativo, originale, attraente. “C’era una volta…” è in genere questo il miglior inizio, ma freddo. “Nella piccola città di provincia di S. viveva…”, un po’ meglio certo, si entra almeno nell’atmosfera. O subito medias in res: “Vada al diavolo! – esclamò con gli occhi ardenti di collera e di terrore lo studente Nataniele quando il mercante di barometri Giuseppe Coppola…”. Veramente questo lo avevo già scritto, quando nello sguardo selvaggio dello studente Nataniele mi parve di vedere qualcosa di buffo, ma la storia non è certo allegra. Non mi venne in mente nessuna frase che anche vagamente potesse rispecchiare lo splendore dei colori della mia intima immagine poetica. Decisi perciò di non incominciare. Prendi perciò, benevolo lettore, le tre lettere che l’amico Lotario gentilmente mi fece avere come contorni del quadro che attraverso la mia narrazione farò di tutto per colorire. Forse mi riuscirà di presentarti, come può fare un buon pittore, qualche figura che tu troverai somigliante anche se non conosci l’originale, anzi forse ti sembrerà di averla già vista con i tuoi occhi. Forse, caro lettore, allora penserai che non vi è nulla di più meraviglioso e di più folle della vita reale e che il poeta solo questo può fare: afferrarla come un pallido riflesso di uno specchio opaco. Affinché si sappia ciò che è necessario sapere sin da principio, bisogna aggiungere al contenuto di quelle lettere che, poco dopo la morte del padre di Nataniele, Clara e Lotario, figli di un lontano parente, che pure era morto lasciandoli orfani, erano stati accolti in casa dalla mamma di Nataniele. Nataniele e Clara furono legati da una forte, reciproca simpatia e nessuno al mondo aveva certo da dire qualcosa in contrario. Si fidanzarono quando Nataniele lasciò la città per continuare i suoi studi a G. Là appunto lo troviamo nella sua ultima lettera, dove frequenta le lezioni del famoso professore di fisica, Spallanzani. Ora potrei senza più alcuna preoccupazione continuare il mio racconto; ma proprio in questo momento l’immagine di Clara mi sta così viva dinanzi agli occhi da non poterli distogliere da lei, come mi capitava sempre quando mi guardava con quel suo dolce sorriso. Non si poteva dire che Clara fosse bella; questo lo riconoscevano tutti coloro che per professione si intendono di bellezza. Ma gli architetti lodavano le belle proporzioni della sua statura, i pittori trovavano fin troppo caste le forme delle sue spalle, del collo e del busto, ma quasi tutti erano innamorati dei magnifici capelli alla Maddalena e fantasticavano sul colorito degno di Batoni. Uno di loro, un individuo veramente tutto fantasia, paragonò in modo veramente originale gli occhi di Clara a un lago di Ruisdael, nel quale si specchia l’azzurro limpido di un cielo senza nubi, la ricchezza dei fiori e del boschi, la vita serena della ricca campagna tutta colori. Poeti e pittori andavano oltre e dicevano: “Ma che lago, ma che specchi! Possiamo forse guardare questa fanciulla senza che dal suo sguardo si sprigionino canti celesti che penetrano nel profondo del nostro animo cosicché tutto in noi si risveglia e diventa vivo? E se non riusciamo a cantare nulla di veramente bello, è segno che dentro di noi non c’è veramente nulla e questo lo possiamo leggere chiaramente nell’ironico sorriso che fluttua sulle labbra di Clara quando tentiamo di cinguettarle qualcosa che vorrebbe essere un canto, ma che in verità è solo un confuso saltellare di suoni isolati”. Ed era veramente così. Clara possedeva la vivace fantasia della fanciulla serena, semplice, ingenua, un’anima veramente femminile, un’intelligenza limpida e acuta. Le persone complicate e confusionarie non avevano buon gioco con lei, perché pur parlando poco (Clara in genere era silenziosa per natura), per lei parlava quel suo sguardo limpido e quel suo ironico sorriso che sembrava dire: “Amici cari, come potete aspettarvi che io prenda queste vostre immagini inconsistenti per reali figure dotate di vita e di movimento?”. Perciò da molti Clara era considerata un tipo freddo, senza sentimenti, prosaica; altri invece, che avevano sentito la vita in tutta la sua profondità, adoravano questa fanciulla semplice, intelligente, piena di spirito, ma nessuno certo come Nataniele la cui vita si svolgeva serenamente nella scienza e nell’arte. Clara si attaccò con tutta l’anima all’amato; le prime nubi nella loro vita sorsero quando egli si separò da lei. Con quale rapimento perciò essa volò nelle sue braccia, quando egli, come aveva detto nella sua ultima lettera a Lotario, ritornò veramente a casa e fece il suo ingresso nella stanza della madre! Avvenne come Nataniele aveva pensato: nel momento in cui vide Clara, non pensò più né all’avvocato Coppelius né all’acuta lettera di Clara, e ogni cattivo umore svanì. Però Nataniele aveva ragione quando scriveva al suo amico Lotario che la persona odiosa del venditore di barometri Coppola era entrata nella sua vita in modo veramente ostile. Tutti lo notarono, giacché Nataniele sin dai primi giorni apparve completamente mutato. Si immerse in tetre fantasticherie e si comportò in modo così strano come mai lo si era visto. Ogni cosa, tutta quanta la vita, gli era diventata sogno e presentimento; e continuava a dire che ogni uomo si illude di essere libero, ma che in verità è legato al feroce gioco dei poteri oscuri contro i quali è vano ribellarsi, anzi bisogna essere umili e rassegnarsi al proprio destino. Arrivò persino ad affermare che era da stolti credere che nell’arte e nella scienza si crei secondo un libero arbitrio; giacché anche quell’entusiasmo che è necessario per la creazione non ha origine nel nostro io, ma sarebbe l’azione di un indefinito principio superiore che sta fuori di noi. Alla chiara intelligenza di Clara tutta questa esaltazione mistica non andava assolutamente a genio, ma sarebbe stato inutile tentare di confutarla. Solo quando Nataniele affermò che Coppelius era il principio cattivo che lo aveva afferrato nel momento in cui spiava dietro la tenda e che quel demonio odioso avrebbe finito per distruggere in qualche spaventoso modo la loro felicità, allora Clara diventò molto seria e disse: “Sì, Nataniele, hai ragione. Coppelius è veramente un principio maligno e può veramente agire in modo deleterio come una potenza diabolica che è entrata tangibilmente nella vita, ma solo se tu non la scacci dalla tua anima e dai tuoi pensieri. Sino a che tu credi, egli esiste veramente e agisce: solo la tua fede è la sua potenza”. Nataniele, veramente irritato che Clara ponesse l’esistenza del demonio soltanto dentro il suo io, volle esporre tutta quanta la dottrina mistica dei diavoli e delle forze oscure, ma Clara, seccata, lo interruppe portandosi su argomenti futili, con gran dispetto di Nataniele. Egli pensava che per i temperamenti freddi e irriducibili simili profondi misteri rimangono sempre tali e in tal modo non si rendeva conto che finiva con il porre Clara tra le nature subordinate, per cui non tralasciava ogni tentativo di iniziarla a quei misteri. La mattina presto, quando Clara aiutava a preparare la colazione, egli le stava vicino e le leggeva vari libri mistici, finché Clara lo pregò: “Caro Nataniele, e se cominciassi a pensare che sei tu il principio del male che agisce ostilmente sul mio caffè? Se infatti, come tu desideri, piantassi qui ogni cosa per guardarti negli occhi mentre leggi, il caffè traboccherebbe e voi tutti rimarreste senza colazione”. Nataniele sbatté il libro e corse arrabbiatissimo a chiudersi nella sua camera. Normalmente nei vivaci racconti che egli scriveva, e che Clara seguiva con grande piacere, dimostrava veramente un notevole vigore; ora invece le sue poesie erano oscure, incomprensibili, informi; così egli si accorgeva quanto poco la toccassero, anche se Clara per delicatezza non glielo diceva. Per Clara non vi era nulla di più mortale della noia; dallo sguardo e dalle parole traspariva allora la sua invincibile sonnolenza spirituale e le poesie di Nataniele erano certo molto noiose. Il dispetto di Nataniele per l’anima fredda e prosaica di Clara aumentò sempre più, Clara d’altra parte non riusciva a vincere il suo malumore per le noiose, oscure astruserie mistiche di Nataniele, e così senza accorgersene si allontanavano sempre più l’uno dall’altra. La figura dell’odioso Coppelius, come lo stesso Nataniele doveva riconoscere, si era infiacchita nella sua fantasia, e gli costava perciò una certa fatica colorirla in modo vivace in quella poesia dove doveva apparire come l’orrendo spauracchio del destino. Infine decise di prendere come soggetto quell’oscuro presentimento per cui Coppelius avrebbe distrutto la loro felicità. Egli immaginava se stesso e Clara uniti fedelmente nell’amore, ma di tanto in tanto, tra loro, si insinuava una mano nera che strappava loro ogni gioia. Ed ecco apparire, quando già sono dinanzi all’altare, l’odioso Coppelius e toccare i dolci occhi di Clara; questi balzano dentro nel petto di Nataniele, bruciando e ardendo come scintille di fuoco. Coppelius lo afferra e lo scaglia entro un cerchio di fiamme che gira con la velocità della bufera e fischiando e mugghiando lo trascina via. È uno strepito come quando l’uragano rabbioso frusta i marosi spumeggianti che si impennano in una furiosa lotta come neri giganti incoronati di bianco. Ma in quel clamore selvaggio si ode la voce di Clara: “Perché non vuoi guardarmi? Coppelius ti ha ingannato. Non erano i miei occhi che bruciavano dentro il tuo petto, erano gocce ardenti del tuo sangue. Io li ho, i miei occhi: guardami, guardami dunque!”. Nataniele pensa: “Costei è Clara e io sono suo per sempre”. Ecco, ora è come se il pensiero violentemente entrasse nel cerchio di fiamme che si arresta e tutto il fragore svanisce in un oscuro abisso. Nataniele guarda gli occhi di Clara; ma quella che lo fissa amorevolmente con gli occhi di Clara è la Morte. Mentre Nataniele così poetava, era molto calmo e sereno, correggeva e limava ogni riga e siccome si era assoggettato alle esigenze metriche, non si dava pace finché ogni verso non fosse scorrevole e pulito. Ma quando ebbe finito e si mise a leggere per suo conto a voce alta la poesia, fu preso da un terrore folle ed esclamò: “Di chi è questa voce spaventosa?”. Poco dopo però tutta quanta la poesia gli parve ben riuscita e pensò che l’anima fredda di Clara ne potesse essere riscaldata, benché non capisse bene a che scopo dovesse essere riscaldata, né perché l’angustiasse con le orribili descrizioni di quello spaventoso destino che avrebbe distrutto il loro amore. Tutti e due, Nataniele e Clara, erano seduti nel piccolo giardino della madre. Clara era molto serena, perché Nataniele, già da tre giorni, durante i quali scriveva il suo poema, non l’aveva angustiata con i suoi sogni e presentimenti. Anche Nataniele parlava con vivacità di cose allegre, come una volta, sicché Clara disse: “Ecco che finalmente ti ho ritrovato: vedi anche tu che abbiamo scacciato l’odioso Coppelius”. Allora Nataniele si ricordò di avere in tasca la poesia che voleva leggerle. Subito tirò fuori i fogli e cominciò. Clara, che si aspettava come al solito qualcosa di noioso, già rassegnata, incominciò calma calma a fare la calza. Ma proprio quando la cupa nuvolaglia sempre più tenebrosa saliva, lasciò cadere il lavoro e guardò fisso negli occhi di Nataniele. Questi era irresistibilmente trasportato dalla sua poesia: le sue guance arrossate rivelavano il tumulto interiore, lacrime gli scorrevano dagli occhi… alla fine, esausto, emise un gemito, prese la mano di Clara sospirando e quasi dissolvendosi in un dolore sconsolato: “Ah, Clara, Clara!”. Clara lo strinse dolcemente al seno e sottovoce, lentamente, ma severa disse: “Nataniele, mio adorato Nataniele, getta nel fuoco questa pazza fiaba che non ha alcun senso”. Nataniele balzò in piedi indignato allontanando da sé Clara e gridò: “Tu, automa maledetto e senza vita!”. E fuggì via, mentre Clara, profondamente offesa, versava amare lacrime. “Oh, non mi ha mai amato, perché non mi comprende” singhiozzava. Lotario entrò nella pergola; Clara dovette raccontargli l’accaduto. Egli amava la sorella con tutta l’anima: quelle parole di accusa entrarono come scintille nel cuore, sicché lo sdegno che da lungo tempo portava nell’animo contro quel sognatore di Nataniele divampò in un’ira selvaggia. Corse da Nataniele, gli rinfacciò con aspre parole il suo insensato comportamento verso l’amata sorella. Nataniele replicò infuriato. L’uno diceva: bellimbusto, trasognato, pazzo. L’altro rispondeva: volgare, miserabile. Il duello era inevitabile. Stabilirono di battersi il giorno seguente dietro il giardino, con fioretti acuminati e taglienti, secondo le consuetudini accademiche di allora. Si aggiravano attorno muti e cupi. Clara, che era venuta a sapere della lite e aveva visto il maestro d’armi che al crepuscolo portava i fioretti capì quello che stava per accadere. Portatisi sul luogo del duello, Lotario e Nataniele si erano già tolti la giacca in silenzio, negli occhi la brama del duello all’ultimo sangue, e stavano per scagliarsi l’uno contro l’altro, quando essa arrivò di corsa attraverso il giardino. Singhiozzando gridò: “Sciagurati, uccidete me, prima di battervi tra voi! Come potrei vivere se l’amato assassinasse il fratello, o il fratello l’amato?”. Lotario lasciò cadere l’arma e guardò fisso a terra, in silenzio, mentre nel cuore di Nataniele rinasceva con dolore straziante tutto l’amore per Clara, che aveva provato nei più bei giorni della sua radiosa giovinezza. L’arma mortale gli cadde di mano, si buttò ai piedi di Clara: “Perdonami, ti prego, perdonami, tu, mia unica, mia adorata Clara. Potrai tu mai perdonarmi, o mio carissimo fratello Lotario?”. Lotario si commosse al dolore profondo dell’amico: tutti e tre si abbracciarono tra le lacrime e giurarono di non lasciarsi mai, uniti in amore e fedeltà. Nataniele ebbe l’impressione di essersi liberato da un peso che lo opprimeva, anzi di aver salvato tutta quanta la sua esistenza minacciata da rovina, resistendo a una forza oscura che l’aveva imprigionato. Trascorse ancora tre giorni felici tra i suoi cari, poi ritornò a G. dove sarebbe rimasto ancora un anno e quindi sarebbe tornato per sempre a casa sua. Tutto ciò che riguardava Coppelius fu taciuto alla madre: sapevano che essa non avrebbe potuto pensare a lui senza terrore, perché, al pari di Nataniele, dava a lui la colpa della morte del marito. Quale fu la meraviglia di Nataniele quando, arrivato dinanzi alla sua abitazione, trovò la casa completamente bruciata: le sole nude pareti emergevano dal mucchio di rovine. Benché l’incendio fosse scoppiato nel laboratorio del farmacista, che abitava al piano di sotto, per cui la casa era bruciata dal sotto in su, i bravi e coraggiosi amici riuscirono a entrare giusto in tempo nella camera di Nataniele posta al piano di sopra e a salvare così libri, manoscritti e strumenti. Essi avevano portato tutto il materiale intatto in un’altra casa e avevano prenotato una camera che Nataniele affittò subito. Non fece caso al fatto che il professore Spallanzani abitasse proprio di fronte, né gli parve strano che dalla sua finestra potesse vedere direttamente nella camera dove Olimpia se ne stava sola; poteva chiaramente vederne la persona ma non i lineamenti. Notò infine che Olimpia stava per lunghe ore nella stessa posizione in cui l’aveva vista la prima volta attraverso la porta a vetri, e sedeva là, al piccolo tavolo, senza occuparsi di nulla, guardando con occhi fissi verso di lui. Dovette riconoscere di non aver mai visto una creatura più bella, ma siccome aveva Clara nel cuore, quella dura e rigida Olimpia gli era assolutamente indifferente. Solo qualche volta, sollevando lo sguardo dai libri, guardava di sfuggita quella bella statua: questo era tutto. Stava scrivendo a Clara quando fu bussato sommessamente; al suo invito la porta si aprì e apparve il viso odioso di Coppola. Nataniele fu percorso da un brivido, ma ricordando ciò che Spallanzani gli aveva detto del suo conterraneo Coppola, nonché le solenni promesse che aveva fatto alla fidanzata a proposito dell’uomo della sabbia Coppelius, si vergognò del suo terrore infantile, si fece coraggio e con la maggior calma possibile disse: “Non compro barometri, caro amico: andate pure.” Ma Coppola entrò definitivamente nella stanza e disse con tono rauco, torcendo il muso in una odiosa risata, mentre gli occhietti lampeggiavano sotto le lunghe e grigie ciglia: “No niente barometri, niente barometri! Ho anche degli occhi belli… begli occhi”. Atterrito Nataniele gridò: “Pazzo, come puoi tu avere degli occhi?… occhi?…”. In quell’istante Coppola, messi da parte i suoi barometri, prese dalla larga tasca del soprabito occhiali e occhialini e li pose sul tavolo: “Ecco, ecco… occhiali… occhiali… da mettere sul naso… questi sono i miei occhi… occhi belli!”. E traeva fuori continuamente occhiali, cosicché tutto il tavolo cominciò stranamente a sfavillare e a lampeggiare. Mille occhi guardavano e occhieggiavano convulsi e fissavano Nataniele che non riusciva a distogliere lo sguardo dal tavolo, e sempre di nuovo Coppola vi metteva altri occhiali, mentre sempre più sfrenatamente quegli sguardi fiammeggianti si intrecciavano, scoccando nel petto di Nataniele i loro raggi sanguigni. Sopraffatto da un terrore folle gridò: “Basta, basta, sciagurato!”. E afferrò Coppola per un braccio mentre questi stava ancora infilando le mani nella tasca per trarne altri occhiali, nonostante il tavolo ne fosse tutto coperto. Coppola si liberò dolcemente con una risata rauca dicendo: “Ah! niente per voi?… ma qui c’è un bel cannocchiale”. Aveva raccolto tutti quanti gli occhiali e se li era messi in tasca; dalla tasca interna del soprabito tirò fuori una grande quantità di piccoli e grandi cannocchiali. Scomparsi gli occhiali, Nataniele divenne completamente calmo e pensando a Clara capì che l’odioso incantesimo era sorto solo nella sua mente e che certamente Coppola era un onesto meccanico e ottico e non già il sosia maledetto di Coppelius. Inoltre tutti i cannocchiali di Coppola non avevano nulla di speciale e tanto meno di spettrale come gli occhiali. Per mettere le cose a posto Nataniele decise di acquistare qualcosa da Coppola. Egli prese un piccolo cannocchiale tascabile finemente lavorato e per provarlo guardò dalla finestra. Mai in vita gli era capitato un cannocchiale che avvicinasse come quello gli oggetti con tanta chiarezza e precisione. Involontariamente guardò dentro nella stanza di Spallanzani; come sempre Olimpia sedeva dinanzi al piccolo tavolo sul quale appoggiava le braccia e le mani giunte. Solo ora Nataniele vide il viso meraviglioso di Olimpia. Gli occhi solamente gli parvero stranamente morti e fissi. Ma aguzzando lo sguardo attraverso il cannocchiale, gli parve che gli occhi di Olimpia si illuminassero di umidi raggi di luna. Sembrava che per la prima volta avessero la capacità di vedere; e gli sguardi fiammeggiavano sempre più vivi. Come incantato, Nataniele se ne stava alla finestra a contemplare la bellezza celestiale di Olimpia. Un raschiare di gola, uno scalpicciare di piedi lo risvegliarono come da un sonno profondo. Coppola gli stava alle spalle: “Tre zecchini… tre ducati…”. Nataniele aveva completamente dimenticato l’ottico e subito gli pagò il dovuto. “Bello, non è vero, il cannocchiale?” domandò Coppola con la sua voce rauca e antipatica. “Sì, sì” rispose Nataniele infastidito “addio, caro amico.” Coppola lasciò la camera non senza aver lanciato di traverso strani sguardi. Nataniele lo udì ridere forte sulle scale: “Certo” pensò Nataniele “egli ride di me perché ho pagato troppo caro questo piccolo cannocchiale, troppo caro”. Mentre diceva queste parole sottovoce, gli sembrò di sentire risuonare nella stanza un mortale, raccapricciante sospiro: per il terrore gli si mozzò il fiato. Ma era stato lui stesso a sospirare, ora lo aveva capito. “Clara” disse a se stesso “ha ragione quando mi prende per uno strambo visionario, ma è strano, anzi più che strano, che mi angusti così lo stupido pensiero di aver pagato troppo caro a Coppola il cannocchiale: non riesco a comprenderne il motivo.” Poi si sedette per terminare la lettera a Clara, ma uno sguardo attraverso la finestra lo convinse che Olimpia sedeva ancora là e subito, come spinto da una forza incoercibile, balzò in piedi, afferrò il cannocchiale di Coppola e non avrebbe più staccato lo sguardo dalla seducente vista di Olimpia se non fosse venuto il suo amico e fratello Sigismondo a prelevarlo per portarlo dal professor Spallanzani. La tendina davanti alla camera misteriosa era completamente tirata, sicché egli non poté vedere allora e neppure i giorni seguenti Olimpia, per quanto raramente abbandonasse la finestra e vi guardasse sempre con il cannocchiale di Coppola. Al terzo giorno si chiusero anche le finestre. Disperato, tormentato dalla nostalgia e dal desiderio bruciante egli uscì dalla città. La figura di Olimpia si muoveva sempre nell’aria attorno a lui, sbucava dai cespugli, lo guardava con grandi occhi luminosi dalle chiare sorgenti. L’immagine di Clara gli era uscita del tutto di mente, egli non pensava che a Olimpia e andava lamentandosi: “Oh tu, mio stupendo astro, sei forse sorto solo per eclissarti subito e abbandonarmi nella oscura notte senza speranza?”. Rientrando a casa notò nell’abitazione di Spallanzani un rumoroso affaccendamento. Le porte erano aperte, vi si portava dentro roba di ogni specie, i vetri del primo piano erano stati tolti, indaffarate fantesche spazzavano e spolveravano muovendosi qua e là con grandi ramazze e nell’interno era un gran battere e martellare di tappezzieri e di falegnami. Nataniele si fermò stupefatto in mezzo alla strada. In quella arrivò ridendo Sigismondo: “Beh, che cosa ne dici del nostro vecchio Spallanzani?”. Nataniele assicurò che egli non poteva dire nulla perché non sapeva assolutamente nulla del professore e si meravigliava che in quella oscura, silenziosa casa si fosse scatenato tutto quel gran daffare. Seppe da Sigismondo che Spallanzani il giorno dopo avrebbe dato una grande festa, un concerto e un ballo e che mezza università era stata invitata. Si sparse poi la voce che la figlia di Spallanzani, Olimpia, che era stata per così lungo tempo ostinatamente nascosta a ogni sguardo, sarebbe stata presentata per la prima volta in società. Nataniele trovò un biglietto d’invito e con un gran batticuore andò dal professore all’ora stabilita, quando già arrivavano le carrozze e le luci splendevano nelle sale addobbate. Numerosi erano gli invitati e la compagnia era brillante. Olimpia apparve in un abito molto ricco e di buon gusto. Certo non si poteva non ammirare il suo bel viso e la sua statura. La schiena stranamente incavata e la sottigliezza della vita erano senza dubbio da attribuirsi al busto troppo stretto. Nei suoi atteggiamenti e nel suo incedere vi era qualcosa di rigido e di misurato che a molti dispiaceva; lo si attribuiva alla soggezione che la compagnia le imponeva. Il concerto cominciò. Olimpia suonò il pianoforte con molta abilità e cantò anche un pezzo di bravura con voce chiara e tagliente come quella di una campana di vetro. Nataniele era estasiato, si trovava nell’ultima fila e nell’abbagliante luce delle candele non poteva distinguere bene i lineamenti di Olimpia. Di nascosto estrasse perciò il cannocchiale di Coppola e guardò la bella Olimpia. Ah! allora si accorse come essa lo guardasse con passione e ogni nota scaturiva di sicuro da quello sguardo amoroso che bruciante gli penetrava nel cuore. I gorgheggi da vera artista parvero a Nataniele grida divine dell’anima trasfigurata nell’amore, e quando alla fine, dopo la cadenza, squillò nella sala il lungo trillo, come stretto tra braccia ardenti non riuscì a contenersi e gridò con dolore ed entusiasmo: “Olimpia!”. Tutti guardarono verso di lui, parecchi risero. L’organista del duomo fece il viso scuro e si limitò a dire: “Via, via”. Il concerto era alla fine e cominciò il ballo. “Ballare con lei, con lei!” Questo era lo scopo ultimo di tutti i desideri di Nataniele; ma come trovare il coraggio di invitare lei, la reginetta della festa? Bene… egli stesso non seppe come avvenne, ma, quando la danza ebbe inizio, si trovò proprio accanto a Olimpia che non era ancora stata invitata; le strinse la mano riuscendo appena a pronunciare qualche parola. Gelida era la mano di Olimpia. Si sentì scosso da un brivido mortale, fissò Olimpia negli occhi che lo guardavano pieni d’amore e di desiderio e gli parve che in quel momento, in quelle fredde mani incominciassero a pulsare le vene e a scorrervi vive correnti di sangue. Anche nel cuore di Nataniele sempre più avvampò il desiderio d’amore e stringendo la bella Olimpia si lanciò nella danza. Egli aveva sempre creduto di tenere il ritmo, ma dinanzi alla rigidità meccanica con cui Olimpia danzava portandolo spesso fuori tempo pensò invece che esso gli mancasse. Ma non voleva danzare con nessun’altra e avrebbe commesso un delitto se qualcuno si fosse avvicinato a Olimpia per chiederle un ballo. Ciò avvenne due volte: ma con sua grande meraviglia Olimpia rimase a sedere ed egli non mancò di invitarla ogni volta. Se Nataniele, oltre la bella Olimpia, fosse stato in grado di osservare qualcosa d’altro, sarebbe certo sorto qualche litigio inevitabile; giacché le sommesse risate a stento represse che si levavano tra i giovanotti qua e là nella sala erano evidentemente dirette a Olimpia che essi seguivano con strane occhiate, non si sa perché. Eccitato dalla danza e dall’abbondante vino, Nataniele aveva messo da parte la sua solita timidezza. Sedette presso Olimpia, la mano nella mano, e le parlava estasiato del suo amore con parole che nessuno capiva, né lui né Olimpia. Quest’ultima forse sì; giacché lo guardava negli occhi continuamente sospirando “Ah, ah, ah”, e subito Nataniele esclamava: “Donna sublime e divina, raggio della terra promessa dell’amore, tu, anima profonda in cui si specchia tutto il mio essere…” e altre cose simili, ma Olimpia semplicemente e continuamente sospirava: “Ah, ah”. Il professor Spallanzani passò alcune volte davanti ai due fortunati e sorrise loro, stranamente soddisfatto. A Nataniele pareva, per quanto si muovesse in un altro mondo, che lì, dal professor Spallanzani, si facesse buio; guardò attorno a sé e non senza spavento notò che le due ultime candele finivano di consumarsi e stavano per spegnersi. Da lungo tempo ormai le danze e la musica erano cessate. “Lasciarsi, lasciarsi” gridò disperato; baciò la mano di Olimpia, si chinò sulla sua bocca e le sue labbra ardenti incontrarono le gelide labbra di lei. Come quando aveva toccato la fredda mano di Olimpia, così ora fu preso da un brivido di terrore e la leggenda della sposa morta gli attraversò di colpo la mente: ma Olimpia lo aveva stretto a sé e le labbra parvero riscaldarsi a nuova vita. Il professor Spallanzani attraversò lentamente la sala vuota, i suoi passi rimbombarono, la sua figura, presa nel gioco di vacillanti battiti d’ombre, aveva i paurosi tratti spettrali. “Mi ami, Olimpia, mi ami… solo questa parola… mi ami?” così sussurrava Nataniele mentre Olimpia sospirava soltanto: “Ah, ah…”. “Sì, sì, mio soave astro d’amore” disse Nataniele “tu sei sorta per me e tu mi illuminerai, trasfigurerai sempre la mia anima.” “Ah… ah…” replicava continuamente Olimpia, mentre si avviava. Nataniele la seguì e si trovarono dinanzi al professore. “Si è trattenuto molto volentieri con mia figlia” disse questi ridendo. “Bene, bene, caro signor Nataniele, se ci trova gusto a parlare con questa sciocca ragazza, ogni sua visita sarà sempre bene accetta.” Con tutto un raggiante firmamento di stelle nel petto, Nataniele prese congedo. Nei giorni successivi, la festa di Spallanzani fu oggetto di tutti i discorsi. Nonostante Spallanzani avesse fatto di tutto per apparire splendido, le teste allegre riuscivano a raccontare ogni sorta di sconvenienze e di stravaganze che avevano notato e soprattutto ebbero modo di criticare quella mummia di Olimpia, alla quale, malgrado la bellezza esteriore, attribuivano una stupidità totale, e proprio questa sarebbe stata la ragione per cui Spallanzani l’aveva così a lungo celata. Nataniele ascoltava queste cose non senza crucciarsi, ma taceva e pensava: “Vale forse la pena di mostrare a questi giovanotti che è proprio la loro stupidità che gli impedisce di comprendere la profonda e stupenda anima di Olimpia?”. “Fammi il piacere, fratello” disse un giorno Sigismondo. “Fammi il piacere, ma dimmi un po’ come è possibile che un tipo così in gamba come te si sia perduto dietro a un simile viso di cera, a una pupattola di legno!” Nataniele trasportato dall’ira stava per scattare, ma subito si contenne e disse: “Dimmi un po’, Sigismondo, come è potuto sfuggire al tuo sguardo che sa vedere le cose belle, alla tua mente così aperta, il fascino celestiale di Olimpia? Ma stando così le cose, grazie al cielo, non ho in te un rivale: altrimenti uno di noi due dovrebbe soccombere”. Sigismondo, considerando a che punto stavano ormai le cose, abilmente cambiò rotta e, dopo aver detto che in amore non bisogna mai discutere, aggiunse: “Però è curioso che molti di noi abbiano espresso gli stessi giudizi su Olimpia. Non prendertela, fratello, ma a noi è apparsa stranamente rigida e priva di vita. Certo, la statura è regolare come pure il viso. E potrebbe anche passare per bella se il suo sguardo non fosse come inanimato, oserei dire, senza capacità visiva. Il suo incedere è troppo misurato, ogni suo gesto sembra regolato da una carica di orologeria. Quando suona, quando canta, segue proprio il ritmo spiacevole privo di anima, di una macchina, altrettanto si dica quando danza. Questa Olimpia ci ha fatto paura. Non volevamo avere niente a che fare con lei; ci sembrava che essa cercasse di comportarsi come una creatura viva, ma che sotto ci fosse qualche mistero”. Nataniele non si lasciò prendere da quell’amarezza che gli potevano arrecare le parole di Sigismondo, si padroneggiò e rispose quindi solamente: “Certo, a voi gente fredda e prosaica può essere che Olimpia faccia paura. Solo all’anima poetica può schiudersi l’anima gemella. Io solo colsi il suo sguardo amoroso che mi illuminò anima e pensieri, solo nell’amore di Olimpia ritrovo il mio vero io. A voi non sembrerà giusto che essa, come le altre anime superficiali, si effonda in una piatta conversazione. Essa parla poco, è vero; ma queste poche parole appaiono come l’essenziale geroglifico del suo mondo interiore, pieno d’amore e di grande comprensione della vita spirituale nell’intuizione dell’aldilà. Ma per tutto questo voi non avete nessuna comprensione, sono parole perdute, per voi”. “Dio ti protegga, amico e fratello” disse Sigismondo molto dolcemente, quasi dolorosamente “ma mi sembra che tu sia su una cattiva strada. Puoi contare su di me nel caso che tutto… ma non voglio dire altro.” Improvvisamente Nataniele ebbe l’impressione che il freddo e prosaico Sigismondo gli fosse molto fedele e perciò strinse calorosamente la mano che l’amico gli aveva offerto. Nataniele aveva del tutto dimenticato che nel mondo ci fosse una Clara che egli aveva amato; la mamma, Lotario, tutto era svanito dalla sua memoria, egli viveva solo per Olimpia, presso la quale ogni giorno per ore intere sedeva, fantasticando del suo amore, dell’ardente e viva simpatia dell’affinità elettiva, tutte cose che Olimpia ascoltava con grande devozione. Dal fondo di una scrivania Nataniele tirò fuori tutto quello che aveva scritto. Poesie, fantasie, visioni, romanzi, racconti, a cui bisogna aggiungere sonetti quotidianamente improvvisati, stanze e canzoni che egli per ore e ore leggeva a Olimpia senza stancarsi. E veramente non aveva mai avuto una simile ascoltatrice. Essa non ricamava, non faceva la calza, non guardava dalla finestra non dava da mangiare all’uccellino, non giocava con il cagnolino in grembo, non aveva il suo gatto preferito, non rigirava nelle mani pezzetti di carta o altro, non doveva scacciare lo sbadiglio con una tossettina appena forzata, in breve, per lunghe ore rimaneva rigida con gli sguardi fissi negli occhi dell’amato, senza voltarsi, senza muoversi, e quello sguardo diventava sempre più vivo, sempre più ardente. Solo quando alla fine Nataniele si alzava e le baciava la mano e anche le labbra essa diceva: “Ah! Ah!” o anche “Buona notte, mio caro”. “Anima splendida e profonda” esclamava Nataniele, quando era nella sua camera “solo tu, solo tu mi comprendi veramente.” Egli tremava rapito, quando pensava a quella meravigliosa armonia che ogni giorno di più si manifestava tra la sua anima e quella di Olimpia, perché gli sembrava che Olimpia avesse parlato dal profondo dell’animo di lui su quelle opere, sulle sue facoltà poetiche, anzi che la voce stessa fosse uscita dal proprio cuore. E doveva certo essere così; giacché Olimpia non diceva mai più di quello che ho riferito. Se poi Nataniele in certi momenti lucidi, per esempio alla mattina, subito dopo la sveglia, si ricordava della assoluta passività di Olimpia e della sua taciturnità, allora esclamava: “Che cosa sono mai le parole? Lo sguardo dei suoi occhi divini dice molto più di ogni discorso. Può forse una creatura del cielo depositarsi entro la cerchia ristretta che i quotidiani bisogni terreni hanno tracciato?”. Il professor Spallanzani sembrò oltremodo felice dei rapporti di sua figlia con Nataniele, al quale del resto dava molte prove di benevolenza, e quando Nataniele, alla fine, trovò il coraggio di alludere a un possibile matrimonio, il viso gli si illuminò e disse che lasciava pienamente libera sua figlia di scegliere. Incoraggiato da queste parole, ardente di desiderio, Nataniele decise di implorare già il giorno seguente Olimpia, perché francamente e chiaramente essa gli dicesse ciò che già da lungo tempo il suo sguardo amoroso aveva detto, che essa cioè desiderava essere sua per sempre. Cercò l’anello donatogli dalla madre al momento del commiato, per donarlo a Olimpia, quale simbolo della sua devozione, della propria vita rigermogliata in lei. Gli capitarono fra le mani le lettere di Clara e di Lotario: indifferentemente le mise da parte, trovò l’anello, se lo mise in tasca e corse da Olimpia.
Ma già sulle scale, dal vestibolo, udì uno strano fracasso; pareva che venisse dallo studio di Spallanzani. Un pestare… un urtare… un tintinnare… colpi contro la porta e bestemmie e maledizioni. “Lascia andare… lascia andare… infame… maledetto… per questo ci avevo messo anima e corpo!… ah, ah, ah, ah… non avevamo scommesso così… io, io ho fatto gli occhi… io l’orologeria… al diavolo con la tua orologeria… maledetto cane d’un orologiaio… via da me… Satana… ferma… maledetto burattinaio… bestia infernale… ferma… via… lascia andare!” Erano le voci di Spallanzani e dell’odioso Coppelius che si intrecciavano furibonde. Nataniele si precipitò dentro, preso da un’indicibile angoscia. Il professore aveva afferrato per le spalle una figura femminile, l’italiano Coppola per i piedi e la tiravano e la stiracchiavano qua e là lottando furiosamente per il possesso. Come vi riconobbe Olimpia Nataniele diede un balzo all’indietro; avvampando di collera fece per strappare la donna amata a quei due pazzi, ma in quel momento Coppola con tutte le sue forze strappò la figura femminile dalle mani del professore e con essa gli menò un colpo tremendo facendolo barcollare e cadere all’indietro sul tavolo, dove stavano fiale, storte, bottiglie e tubi di vetro: tutto questo materiale andò in frantumi. Coppola caricò la figura sulle spalle e corse via, giù, per le scale con una risata orribile, mentre i piedi penzolanti della figura sbatacchiavano e rintronavano sui gradini della scala con rumore di legno. Nataniele rimase impietrito… aveva visto troppo bene che il volto di cera di Olimpia, pallido come la morte, non aveva occhi: al loro posto caverne buie. Era una bambola senza vita. Spallanzani si dimenava per terra, schegge di vetro gli avevano tagliuzzato il capo, il petto e le braccia e il sangue gli scorreva fuori come da una polla d’acqua. Ma raccolte tutte le sue forze gridò: “Corrigli dietro… corrigli dietro cosa aspetti?… Coppelius… Coppelius mi ha rubato il mio miglior automa… ci ho lavorato vent’anni… ci ho messo anima e corpo… l’orologeria… la parola… i passi… mio, tutto mio… gli occhi… gli occhi rubati a te… dannato… maledetto, corrigli dietro… va’ a prendergli Olimpia… prenditi i tuoi occhi”. E Nataniele vide un paio di occhi sanguinanti sul pavimento che lo fissavano; Spallanzani li afferrò con la mano illesa e glieli scagliò contro colpendolo sul petto. La follia allora lo attanagliò con artigli roventi e gli penetrò profondamente nell’anima, dilaniandogli la mente e il pensiero. “Hu, hu, hu… cerchio di fuoco… cerchio di fuoco… gira, cerchio di fuoco… allegro… allegro… bambola di legno, hu, bella bambola di legno, gira…” E si scagliò contro il professore e lo strinse alla gola. Lo avrebbe strangolato se tutto quel fracasso non avesse richiamato molta gente che afferrò l’impazzito Nataniele, sottraendogli il professore che fu subito medicato. Sigismondo per quanto forte non riusciva a tener fermo il forsennato che continuava a gridare con voce orribile: “Bambola di legno, gira, gira” e roteava i pugni. Infine, unite tutte le forze, riuscirono a sopraffarlo e, gettatolo a terra, a legarlo. Le sue parole si trasformarono in mugolii bestiali. E così pazzo furioso fu portato al manicomio. Prima che io, benevolo lettore, continui a narrare cosa avvenne in seguito dell’infelice Nataniele, nel caso tu voglia sapere qualcosa dell’abile meccanico e fabbricatore di automi Spallanzani, posso assicurarti che guarì perfettamente dalle sue ferite. Egli dovette però lasciare l’università, perché la storia di Nataniele aveva suscitato un vero scalpore e tutti considerarono un trucco illecito quello di aver barattato presso i circoli intellettuali, che Olimpia aveva frequentato con molta fortuna, una persona viva con una bambola di legno. I giuristi vi trovarono una truffa sottile e tanto più condannabile in quanto diretta contro il pubblico e organizzata con tanta furberia che nessuno (eccettuato qualche studente intelligente) se n’era accorto, benché ora tutti facessero i saccenti e si richiamassero a molti fatti che a loro erano sembrati sospetti. Ma questi particolari non mettevano in chiaro nulla di decisivo. Come infatti poteva destare sospetto il fatto che, secondo l’affermazione di un elegante frequentatore di quei tè, Olimpia aveva più spesso starnutito che sbadigliato? Lo starnuto, opinava l’elegantone, era stato semplicemente la carica automatica del meccanismo nascosto; la si era sentita stridere ecc. Il professore di poesia e di eloquenza annusò una presa di tabacco, chiuse la tabacchiera, si schiarì la gola e parlò solennemente: “Molto rispettabili signore e signori, non vedete dunque dove sta il busillis? Tutto quanto è una allegoria, una metafora tirata un po’ in lungo! Voi mi capite! Sapienti sat”. Ma molti signori rispettabili non si fermarono a questo, la storia dell’automa aveva messo profonde radici nel loro cuore e infatti in loro si insinuò una paurosa diffidenza verso tutte le figure umane. Per essere completamente persuasi che l’amata non fosse una bambola di legno, si pretese da parte di molti innamorati che essa cantasse, suonasse qualcosa non a tempo e che durante le letture ricamasse, facesse la maglia, giocasse con il cagnolino ecc., ma che soprattutto non stesse soltanto ad ascoltare, bensì qualche volta parlasse in modo però che il loro discorso desse prova di intelligenza e di sensibilità. Per molti il legame di amore divenne più saldo e più piacevole, per altri invece lentamente si dissolse.
“Veramente è difficile garantire”… diceva questo o quello. Durante i tè si sbadigliava incredibilmente e mai si starnutiva per non destare sospetti. Come abbiamo detto, Spallanzani andò via al fine di evitare un processo per aver introdotto con truffa un automa nella società umana. Anche Coppola scomparve.
Nataniele si destò da un sonno grave e pauroso, aprì gli occhi e si sentì scorrere dentro un’indescrivibile sensazione di dolcezza e un tepore dolce e paradisiaco. Era a letto nella propria camera della casa paterna, Clara era china su di lui e vicino c’erano la mamma e Lotario.
“Finalmente, finalmente, mio caro Nataniele, ora sei guarito da una grave malattia, ora sei nuovamente mio!” disse Clara dal profondo dell’anima stringendo Nataniele nelle sue braccia. E dagli occhi di lui sgorgarono lacrime ardenti di malinconia e di gioia mentre sospirava: “Mia… mia Clara!”.
Entrò Sigismondo, che era stato fedelmente vicino all’amico nella sventura, e Nataniele gli porse la mano dicendo: “Tu, fedele fratello, non mi hai dunque abbandonato”.
Ogni segno di pazzia era dunque svanito e ben presto Nataniele con le affettuose cure della madre, dell’amata e dell’amico riprese le forze. Intanto la fortuna era rientrata in casa; un vecchio zio spilorcio dal quale non si era mai sperato nulla era morto e aveva lasciato alla mamma un patrimonio non indifferente e un piccolo podere in una località amena nei pressi della città. Là dovevano trasferirsi la madre, Nataniele con la sua Clara che ora avrebbe sposato, e anche Lotario. Nataniele era diventato più dolce, come un bambino, e solo ora aveva potuto conoscere l’anima pura, buona, celestiale di Clara. Nessuno più gli ricordava il passato, neanche attraverso il più lieve accenno. Solamente quando Sigismondo prese congedo, Nataniele gli disse: “Sul serio, fratello, ero veramente sulla cattiva strada, ma un angelo seppe guidarmi a tempo sul sentiero della luce. È stata Clara”. Sigismondo non lo lasciò continuare, preoccupato che risorgessero in lui troppo vividi i ricordi che potevano fargli del male.
Venne il tempo in cui i quattro felici esseri dovevano trasferirsi nel piccolo podere. A mezzogiorno stavano attraversando la città.
Avevano fatto molti acquisti, l’alta torre del municipio gettava la sua ombra gigantesca sopra la piazza del mercato.
“Oh” disse Clara “saliamo ancora una volta lassù, a vedere i monti lontani.” Detto e fatto, Nataniele e Clara salirono sulla torre, la mamma andò a casa con la domestica, e Lotario, che non si sentiva di salire tanti gradini, aspettò giù. Ed ecco i due innamorati a braccetto sul più alto ballatoio della torre, guardare verso le foreste profumate, dietro le quali si elevavano come una città di giganti le montagne azzurrine.
“Guarda, guarda quel piccolo strano cespuglio grigio che sembra camminare verso di noi” disse Clara.
Nataniele infilò meccanicamente una mano in tasca; vi trovò il cannocchiale di Coppola e guardò… Clara era davanti al cannocchiale. I suoi polsi e le sue vene ebbero un moto convulso, pallido come la morte fissò Clara, ma all’improvviso torrenti di fuoco divamparono e ribollirono attraverso i suoi occhi, mugghiò paurosamente come una bestia inseguita; si mise poi a saltare e fra orribili risate gridava con voce tagliente: “Bambola di legno, gira… gira, bambola di legno… gira, gira…”. E afferrò con forza tremenda Clara per buttarla giù, ma essa si avvinghiò in una disperata angoscia mortale alla ringhiera. Lotario udì il pazzo strepitare, udì il grido d’angoscia di Clara, ebbe terribili presentimenti, corse su, la porta del secondo piano era sprangata… Sempre più disperate risuonavano le grida di Clara. Pazzo di rabbia e di terrore si scagliò contro la porta che finalmente cedette. La voce di Clara diventava ora sempre più fievole: “Aiuto… salvatemi… salvatemi…” e la sua voce moriva nell’aria.
“Ormai è perduta… assassinata da quel pazzo di Nataniele” così gridava Lotario. Anche la porta del ballatoio era chiusa. La disperazione gli diede una forza gigantesca e riuscì a scardinare la porta. Dio del cielo! Clara stretta da quel pazzo di Nataniele era sospesa nell’aria oltre la ringhiera. Solo ancora con una mano si teneva avvinghiata. Rapido come il baleno Lotario afferrò la sorella, la tirò dentro e nello stesso tempo colpì con un pugno in viso quel pazzo furioso che cadendo all’indietro lasciò andare la preda.
Lotario corse giù con la sorella svenuta fra le braccia. Era salva.
Ora Nataniele correva su e giù per il ballatoio e spiccava alti salti gridando: “Cerchio di fuoco, gira… gira… cerchio di fuoco…”. Parecchie persone accorsero a quelle grida selvagge: tra loro emergeva il gigantesco avvocato Coppelius, che da poco era venuto in città e si era direttamente recato in piazza. Volevano salire per prendere quel pazzo, ma Coppelius ridendo disse: “Ah, ah, aspettate pure che venga giù da solo!” e guardò, come gli altri, per aria. Nataniele improvvisamente rimase come paralizzato, si sporse in fuori, vide Coppelius e con un acuto grido “Oh, gli occhi belli… gli occhi belli” saltò oltre il parapetto.
Quando Nataniele giacque sul selciato con la testa sfracellata Coppelius era già sparito nella confusione della calca.
Si racconta che dopo parecchi anni Clara sia stata vista in una lontana località, seduta davanti alla porta di una bella casa di campagna con le mani tra quelle di un uomo simpatico mentre davanti a lei giocavano due vispi bambini. Si dovrebbe concludere che Clara riuscì ancora a trovare quella tranquilla felicità domestica che era proprio l’aspirazione del suo animo sereno e vivace e che a lei Nataniele, straziato nell’anima, non avrebbe mai potuto offrire.

http://www.rodoni.ch/OPERNHAUS/coppelia/uomosabbiahoffmann.html

Coppélia versão completa – Royal Ballet, ano 2000 .

su Freud il “narcisismo delle piccole differenze” + altro .

Shining e il Perturbante freudiano – controappuntoblog.org

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