Carmelo Bene – Macbeth ; Antropologia e Teatro pdf

Sangue stillante

nostra sola bevanda, sanguinosa

carne nostro solo cibo

Thomas S. Eliot (1940)

Ferita era la benda e non la piaga…

Carmelo Bene

Sanguina, misera patria, sanguina!

Shakespeare (Macbeth 1606)

Ripensiamo alla ‘Danza macabra’, traccia in forma letteraria e pittorica di un topos medievale, il dialogo con la propria morte. Questa forma simbolica di danza con la morte si ritrova dipinta e descrita in una forma sempre uguale: un girotondo formato da coppie di morti e vivi, dove, accanto ad ogni morte, – rappresentata nella forma di un cadavere nudo, asessuato e in putrefazione, o di tradizionale fgura con la sua bella falce – troviamo un uomo o una donna che vengono accompagnati, danzando allegramente, verso la loro ultma destnazione (Ariès 1977).

Diversamente dal ‘Trionfo della Morte’, anche questo tema caro alle rappresentazioni artistiche medievali (dove l’individuo morente è colto proprio nel momento del suo ultmo esame di coscienza, quando esamina razionalmente come sia stata la sua vita e ha timore del suo destino finale) la ‘Danza macabra’ illustra quello immediatamente successivo, quando la morte si è già compiuta e, personifcata, sta conducendo l’uomo verso la decomposizione del corpo.

Ariès racconta del passaggio in epoca medievale da un’attudine antica , che si traduceva in una sorta di rassegnazione spontanea dell’uomo di fronte alla morte intesa come naturale destinazione e momento di condensazione necessario del proprio percorso esistenziale, a un amore disperato verso la propria vita, che lo distacca dalla precedente attudine di fducia e rassegnazione verso il suo destno.

Quando la costruzione di cimiteri vicini alle cità avvicinerà i mort ai vivi, in tarda epoca medievale, l’iconografa darà spazio alle nuove inquietudini dell’uomo di fronte alla morte. L’umanità proverà, da allora in poi, a sfuggirla.

L’occhio non veda ciò che fa la mano…

Facciamo un brusco salto in avanti  ma anche un ritorno all’indietro rispetto allo spettacolo contemporaneo con cui abbiamo aperto il discorso. Usiamo i versi di Shakespeare che, scrivendo nel 1606 la tragedia di Macbeth, ha tratato il tema dell’angoscia di un assassino di fronte alla vista della morte, anche quando da lui stesso provocata e desiderata. Macbeth, commenta Agostino Lombardo, “è un’opera oscura e sanguinosa (il sangue la percorre tutta, nella realtà, nell’immaginazione dei personaggi e nel linguaggio)” (Lombardo 1993: IX)6. Macbeth mette al centro il sangue, per raccontare la tragedia di un uomo che uccide per ambizione ma che non sopporta il rimorso provocato dalla vista del suo stesso delito, quando il sangue, che tutto macchia, in primis le coscienze, rende evidente agli occhi dell’omicida che, a causa della morte, “il vino della vita è spillato”7. Le parole di Shakespeare sono molto chiare: il sangue, che ha un colore come il vino e come lui è nutrimento, come una bottiglia  di vino viene spillata dal corpobotte e lo svuota, ‘spillando via la vita’ dal corpo dell’ucciso.

Usciamo dalla fnzione, ora siamo nel 1944, in quell’anno uccidere o venire uccisi era molto più facile di oggi: con la seconda guerra mondiale ancora in corso, con molte migliaia di morti ammazzati  legalmente dal confito tra le nazioni, con le camere a gas e i forni crematori nazisti che macinano corpi a pieno regime, Jean Genet racconta la morte da lui conosciuta e praticata  in prima persona, non quella legale dei governi, così difusa in tutte le epoche, ma la morte illegale, infitta per rapina, seguendo solo le impellenti ragioni della lotta per la sopravvivenza. Così scrive a questo proposito: “Uccidere è facile, dato che il cuore è situato a sinistra, proprio di fronte alla mano armata dell’uccisore, e che il collo s’incastra così bene tra le due mani giunte. Il cadavere del vecchio, di uno dei mille vecchi destinati a morire così, giace sul tappeto blu.” (Genet 1951: 58)8.

Viene qui descritta da un ‘esperto’ la tecnica fsica per dare la morte: il collo s’incastra così bene tra le due mani giunte. Benché il gesto delle mani giunte sia lo stesso di quello cristano, benché davanti all’assassino sta ugualmente un uomo agonizzante, come l’iconografa di Cristo sulla croce, ben diversa è qui evidentemente l’azione, e anche il suo efetto. Il gesto delle mani giunte in preghiera, di chi ringrazia Dio morente per la propria vita, gesto semplice e molto conosciuto, qui provoca la morte per strangolamento di un altro essere umano.

Ma che succede all’assassino dopo aver causato la morte, dopo averla chiamata e averla vista così da vicino? Seguiamo ciò che scrive Genet: Là, per conciliargli il sonno, la notte vera, la notte  degli astri, scende a poco a poco, un fremito d’orrore gli dà la nausea: è il disgusto fsico dei primi momenti, che l’assassino prova per la sua vittima, e di cui mi hanno parlato in molti. Ossessionante, non è vero? Il morto è robusto. Il morto è dentro di voi; mischiato al vostro sangue, vi scorre nelle vene, vi trasuda dai pori, il vostro cuore vive di lui, come dai cadaveri germogliano i fori del cimitero…Vi esce dagli occhi, dalle orecchie, dalla bocca. (Genet 1951: 59)

Se nelle danze macabre medievali i personaggi morti  si agitano invano danzando, qui assistamo ai vivi che, dopo aver incontrato la Morte, si fanno invadere il corpo da lei, come per un procedimento di contagio. Con pochi vividi tratti  basati sulla sua vita, Genet spiega come il corpo del morto entra in quello del vivo, perché l’assassino, dopo aver visto la morte, si trova macchiato per sempre dall’esperienza di quella visione. Ha svelato un tabù, ha visto quello che colpirà a suo tempo anche lui, il momento del trapasso. Spiega questa reciprocità con meravigliosi versi Thomas S. Eliot:

“Colui che era vivo adesso è morto/ noi che eravamo vivi stiamo morendo/ adesso, con un po’ di pazienza”

(Eliot 1995-II: 57 )9.

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