Bright Star di Jane Campion

 Nonostante l’esiguo (rispetto ai suoi colleghi uomini) numero di film all’attivo, Jane Campion (unica donna ad aver vinto la Palma d’oro a Cannes – nel 1993 con Lezioni di Piano), può vantare una carriera di tutto rispetto, in cui ha saputo asservire il suo sguardo squisitamente femminile al racconto di eroine annichilite dalla condizione umana o sociale, ma battutesi con coraggio nell’affermazione dei propri credo, o nell’ostentazione dei propri difetti. La complessità dei personaggi della Campion è infatti sempre stata coniugata alla genuinità del suo narrare, attraverso cui si sciolgono facilmente i nodi delle aberrazioni umane, degli istinti repressi o dei bisogni più infantili. Dopo aver contemplato la grazia indocile della Ada di Lezioni di Piano, capace di raccontare un mondo tramite uno sguardo o un movimento di mano, e il pervicace spirito di libertà della Nicole Kidman di Ritratto di signora, questa volta la Campion si cimenta con il romanticismo bucolico di un giovane John Keats, narrato attraverso gli occhi della sua Fanny, suo primo e ultimo grande amore. Se l’austerità del tempo ne limita formalmente le occasioni, la capacità evasiva del poeta in un mondo passionale e appassionato troverà risposta nella poliedrica Fanny, capace di suscitare nel poeta quell’inabissamento elegiaco grazie al quale sono nate alcune delle sue opere più belle: Ode on a Grecian Urn, Ode on Melancholy, Ode to a Nightingale, ma anche un componimento intitolato “Bright Star” dedicato appunto a Fanny, sua stella splendente.

La stella splendente di Keats

Londra, 1818. John Keats è un giovane (ventitreenne) studente di medicina che non vede nella professione di medico il suo compimento umano, ma che nutre la segreta aspirazione di esprimere il suo mondo dolcemente malinconico tramite la poesia. Ma la vita del poeta è ardua e piena di insidie: senza una lira e osteggiato dalla critica saccente e velenosa che accoglierà malamente la sua prima opera Endimione, egli sarà costretto a vivere di stenti e miseria il ruolo di artista incompreso. Alla morte del fratello Tom, Keats si trasferisce nell’Hampstead village, a nord est di Londra, ospitato dal suo amico Charles Browne, dove conoscerà l’eccentrica Fanny Brawn. L’incontro con la ragazza, studentessa di moda dall’indole ribelle (tanto che inizlamente Keats la reputerà una sfacciata), lo avvicinerà a una creatura a lui diversa, più mondana e prosaica che nondimeno riuscirà a poco a poco a entrare in sintonia col poeta più di chiunque altro. La relazione, un’innocente passione vissuta con un trasporto emotivo che sfiorerà l’ossessione, verrà osteggiata sia dall’amico di Keats, Brown, che vede in Fanny una frivola civettuola ed è geloso del suo rapporto esclusivo con Keats, sia dalla famiglia di lei che non vede di buon occhio (secondo i precetti del tempo) che una ragazza benestante si accompagni ad un poeta squattrinato. I due vivranno comunque la loro storia, breve ma intensa, fin quando l’avvento della tubercolosi non costringerà Keats a trasferirsi a Roma, su invito dell’amico Shelley, in cerca di un clima più mite che non lo strapperà comunque al suo destino. Morirà a soli venticinque anni proprio nella città eterna, una lugubre scena della bara che attraversa una piazza di Spagna spettrale, quando ancora il suo nome non era associato a quello di uno dei più grandi poeti romantici.

Finché morte non ci separi… e oltre

Il film si apre sul filo che corre, su e giù lungo il tessuto, in quella che è l’unica espressione di libertà concessa a Fanny, nell’austerità di un mondo ottocentesco (molto caro alla regista Campion) in cui la donna non vive che nell’attesa, di trovare un buon partito per continuare la sua attesa altrove. Ed è scardinando questo concetto di donna monocromatica (tant’è che Fanny cuce pizzi e merletti multicolore che ostenta con una certa esuberanza), come sempre ha cercato di fare nei suoi film, che Jane Campion ricama la storia tra John Keats e Fanny Brawne. Lui (il John Keats di Ben Whishaw) è emaciato, meditabondo, e così diafano da sembrare la proiezione di una delle sue struggenti poesie, mentre lei (la Fanny di Abbie Cornish) è vitale, con le gote rosate a ricordare la carnagione nivea di una acerba Nicole Kidman. Apparentemente agli antipodi, i loro mondi s’incontreranno a metà strada, là dove prosa e poesia si fondono per diventare una cosa sola, lontano dagli occhi indiscreti delle cricche poetiche e dai salotti del pettegolezzo mondano. Nella cornice bucolica che la Campion ricostruisce con minuziosa attenzione per il dettaglio cromatico, tra distese di lavanda blu e giacinti violacei, ammantati in una natura che sembra poco a poco impossessarsi delle vite dei protagonisti, il poeta romantico e la sua stella splendente, attraverso il contatto con la vita campestre, restituiscono il tono elegiaco di un amore bambinesco e profondo, casto e passionale. Grandissima eleganza nel tratteggiare questa dicotomia che si estrinseca nel gesto candido di due mani che s’intrecciano o di un bacio casto a fior di labbra al quale si contrappone il tono emancipato del loro ragionare, suggellato dai componimenti di Keats, perso nella ricerca di un amore assoluto e atemporale, secondo cui: “e così vivere in eterno, o se no venire meno nella morte“.

Una ballata romantica

L’opera filmica, realizzata nello stile di una ballata alla Keats, come afferma la stessa Campion, trae giovamento dalla regia minimalista (con pochi movimenti di macchina) che la regista utilizza, lasciando il campo ai due protagonisti (entrambi eccellentemente in parte) e alla stessa poesia di Keats, soffermandosi invece a tratteggiare la costrizione di un amore confinato nella geometria di certi spazi (sentire la presenza dell’altro attraverso un muro o osservarsi inermi nella trasparenza di una finestra), e controllato (l’onnipresenza dei fratelli minori di Fayne e della gente che mormora), ma destinato a sconfinare negli abissi della mente e nell’infinità dell’immaginazione, al quale neanche la morte può togliere il respiro. Ed è questo, come dice ancora Keats, il fine: vivere solo tre giorni come le farfalle ma farlo con un’intensità che cinquant’anni non saprebbero racchiudere.

http://cinema.everyeye.it/articoli/recensione-bright-star-11655.html

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