su Freud il “narcisismo delle piccole differenze” + altro

Psiche 2015/1: Differenze/Disuguaglianze – Academia.edu

Bisognerebbe intanto interrogarsi su quella associazione che Freud fa tra incolti ed oppressi, come se la distruttività germinasse solo nella forma dell’espropriazione radicale e non anche nell’accesso alla cultura, che non istituisce affatto quello spartiacque illuminista fra legame e slegame, difensori della civiltà e suoi oppositori. Come se al nazismo non avessero aderito, in massa, intellettuali, filosofi, economisti, storici, giuristi. Come se i «colti» non avessero partecipato alla distruzione della civiltà, alla radicale disumanizzazione e allo sterminio di quei «parassiti» che la cultura razzista aveva contribuito a definire e ad isolare. Recentemente, uno psicoanalista iugoslavo raccontava ad un esterrefatto Diatkine, suo collega francese, la terribile descrizione della pratica della «cravatta croata», consistente nell’inchiodare vivo un prigioniero contro la porta di casa, aprirgli la trachea, far fuoriuscire la lingua per l’orifizio creato, a mo’ di una cravatta e lasciarlo agonizzare, e di come in tal modo i serbi rendessero un omaggio ironico (era il 1992), all’invenzione di questo ornamento per mano dei Croati.

Ma l’orrore, egli segnalava, non consisteva solo nel procedimento. Piuttosto nel fatto che, passando magari da Chopin ai coltellacci da cucina, chi aveva assistito alla tragedia dei propri amici ora ripeteva, dimentico di ciò che la cultura aveva sedimentato in lui, il gesto su coloro con cui aveva pacificamente convissuto per decenni. In altre parole, macellai si diventava anche dopo aver abbracciato, per anni, nient’ altro che il violino.

Certamente, la suddivisione in due grandi gruppi – colti /incolti – restituisce la celebre dicotomia già descritta da Rousseau: il popolo ideale del contratto sociale, virtuoso e disponibile, gestibile , e quello reale, sordido, prossimo al vizio, refrattario.

La realtà attuale, dove si può essere colti, supertitolati e inutilizzabili, espulsi ai bordi dei processi di produzione e di condivisione sociale e culturale, devastati da un’esistenza senza alcun diritto o protezione, oppure respinti ai margini del diritto stesso alla vita, espropriati della casa, della patria, del diritto al cibo, del sapere, della sessualità, dei diritti, mostra che le suddivisioni, le disuguaglianze, le differenze radicali, si organizzano secondo nuovi e ben più devastanti livelli di sviluppo. 

Altra questione importante: nel cuore della violenza non si situa solo la disuguaglianza, ma, come del resto Freud scriverà nello stesso testo, quella dimensione paradossale che prende il nome di narcisismo delle piccole differenze. «Sono proprio le piccole differenze nella somiglianza abituale a provocare i sentimenti di estraneità e di ostilità fra gli individui. Sarebbe allettante dar seguito a quest’idea e far risalire a questo “narcisismo delle piccole differenze” l’ostilità che, in ogni relazione umana, vediamo combattere con successo contro il senso di solidarietà e sopraffare il comandamento dell’amore universale», scrive Freud (1927, 439). Analogamente, nel Disagio della civiltà (Freud, 1929, 602), laddove scrive che «si tratta di un comodo, relativamente innocuo soddisfacimento dell’inclinazione aggressiva, in virtù del quale è facilitato l’accordo tra i membri di una comunità», aggiungendo, ironicamente, che «Il popolo ebraico, disperso per ogni dove, si è acquistato in questo modo meriti altissimi rispetto alle civiltà dei popoli che lo hanno ospitato; purtroppo tutti i massacri degli Ebrei nel Medioevo non sono bastati a rendere quest’epoca storica più pacifica e sicura per i loro compagni cristiani».

E tuttavia, come ha ben mostrato Appadurai (2005), le piccole differenze non sono più, attualmente, tratti distintivi eventualmente da privilegiare nella costituzione di una soggettività incerta, ma categorie pericolose capaci di attestare o provocare un passaggio sentito come inaccettabile fra maggioranze e minoranze e che si esprimono nella brutalità e nella disumanizzazione che ha accompagnato la violenza etnicizzata in questi anni. Il che probabilmente è all’origine di un narcisismo predatorio che considera la differenza come un problema da estirpare, cancellare, in una modalità arcaica dove l’altro è necessariamente messo a morte, gettato via. Poiché tuttavia non vi è alcuna isola culturale, neanche nel sogno più radicale di costruzione totalitaria di una nuova identità, e dunque alcuna speranza di vedere sparire per sempre la differenza, ecco che la violenza risorge ancora più brutale, come in un’iperbolica caccia a tutto ciò che potrebbe mettere in crisi il progetto originario.Che l’umanità si pensi e pensi il reale a cui essa ha accesso tramite la differenza, questo non ci sorprende. Alto/basso, duro/molle, nero/bianco, giorno/notte, maschile/femminile: la serie potrebbe continuare e dare luogo ad una serie di svariate riflessioni.

 In primis , così come cerchiamo di pensare in questo numero di

Psiche:

quali sono i meccanismi che permettono o obbligano di passare da una differenza necessaria, o invece già fonte di misconoscimento identitario, alla disuguaglianza? Cosa fa sì che una differenza venga avvertita come inaccettabile e si trasformi in disuguaglianza? Quale soglia può essere tollerata nel campo delle differenze fra noi e gli altri? Dove, al contrario, nasce un eccesso insopportabile? E quali risposte determina l’eccedenza? Probabilmente, se prendiamo in considerazione il campo clinico, essa può assumere forme diverse, per esempio quella di una rappresentazione vittimaria, nei termini di una soggettività limitata che assume in sé, inghiotte, potremmo dire, le caratteristiche di quella condizione di vita in cui si è immersi e la cancellazione di ogni possibilità alternativa di sviluppo. Oppure la forma di una teoria del destino, di una teoria organizzata intorno ad uno scenario melanconico, di un impossibile lutto della mancanza. Quella di una potenzialità paranoica o, invece, di una rivolta che può dispiegarsi secondo direttrici le più varie, fino all’autosacrificio in nome di un ideale finalmente raggiunto in una nuova configurazione religiosa o politica, da cui probabilmente prende origine – per esempio – l’enorme massa di arruolati nello stato islamico che, qui e là, si preparano alla costruzione di un punto zero della storia (attraverso la distruzione del passato, di ciò che esiste, di tutto ciò che non è assimi-abile al principio di un’identità assoluta). Ritroviamo qui il problema posto da Freud sulle masse «incolte»: la distruzione che scorgiamo, dove cultura, vite, arte, monumenti, libertà di pensiero e di critica sono accumulate in un enorme falò dalle proporzioni inaudite, rende conto della giustezza dell’osservazione freudiana secondo cui l’ignoranza non è una lacuna, ma una passione , quella dell’odio verso il sapere, verso sé e l’altro che tendenzialmente può incarnarlo.

Di qui probabilmente la passione distruttiva verso tutto ciò che definisce uno spazio di pensiero, cultura, libertà. Altre strade ovviamente sono sempre possibili: la dimensione dei conflitti identitari non esclude la lotta per una cancellazione assoluta di ogni alterità, di ciò che potrebbe mettere in gioco il principio di unicità che genera le guerre sanguinarie a cui assistiamo nel mondo.

Lungo un’altra direttrice si dispiega invece il campo della lotta per il riconoscimento, per l’accoglimento di diritti, spazi, posizioni. Ma anche qui si apre una vasta serie di problemi: non è solo la disuguaglianza a rappresentare un eccesso , ma la stessa giustizia, verso cui il movimento di riconoscimento si muove, finisce di fatto per essere «un di più». Sammadar, ad esempio, ha proposto di considerare la giustizia come un eccesso del diritto, un eccedente che trova origine sia nel fatto che essa reclama molto più che dei semplici aggiustamenti amministrativi per inverarsi, sia nel fatto che essa non può mai essere l’oggetto di una semplice amministrazione o mediazione di conflitti di interesse.«Il mondo giuridico genera il soggetto della giustizia, ma il soggetto che persegue la realizzazione della giustizia nel momento in cui esso è preso nel “gioco” dell’apparato giudiziario chiede qualcosa in più che una soluzione giuridica. La giustizia essendo precisamente ciò che all’interno del diritto eccede il diritto» (Sammadar, cit. in Balibar 2013, 22). Come a dire: la forma giuridica trova – tendenzialmente – una soluzione equa per il regolamento dei conflitti, ma a patto di stendere un velo di ignoranza sulla maggior parte delle pratiche e dei generi di vita della gente.   Questa eccedenza però definisce, inversamente, una mancanza nel campo stesso del diritto, che spinge il diritto medesimo verso la costituzionalizzazione di nuovi diritti. Ci si può chiedere ovviamente se la questione della differenza e della disuguaglianza non possa trovare una sua pensabilità nella teoria del riconoscimento di Honneth secondo cui «Mentre le rivendicazioni avanzate dai gruppi sociali mutano storicamente, il fatto […] che gli esseri umani siano sempre disposti a lottare per condizioni sociali nelle quali possano ottenere riconoscimento e rispetto di sé può […] essere considerato una costante dello sviluppo storico» (Honneth 2011, 155). La lotta per il riconoscimento costituirebbe dunque il vero motore dei conflitti, cosicché esso finisce per istituire il campo di possibilità di una vita buona, nei termini, per Honneth, di un’eticità formale. Ma se il modello del riconoscimento si propone come una sorta di metamodello dei conflitti, come pensare allora il conflitto che nasce non dalle differenze, ma dall’eccesso di uguaglianza alla radice dell’homo homini lupus hobbesiano, in cui l’essere umano (nella lotta per la supremazia), tenta di allontanare da sé ad ogni costo lo spettro dell’uguaglianza (quello della capacità di autogoverno e della non necessità di dipendenza dall’altro)?

Se l’uguaglianza, inversamente, deve poter contenere in sé le differenze e il processo medesimo della produzione di differenze, come evitare la loro proliferazione fino alla dissoluzione della stessa uguaglianza? Ed ancora, come poter accettare di vivere una vita giusta , vera, in un mondo retto da disfunzionamenti massicci, da profonde ingiustizie? Per questo motivo la Butler aveva ripreso la celebre affermazione di Adorno: non esiste vita vera nella falsa, interrogandosi sulle possibilità di una vita buona

. «La domanda più individuale che concerne la moralità scrive Butler (2015) – come vivo questa vita che è mia? – è connessa a questioni biopolitiche concentrate nelle seguenti forme: quali vite sono importanti? Quali vite non sono importanti in quanto vite, non sono riconoscibili come viventi, o lo sono soltanto in maniera ambigua? Tali domande presuppongono che non si possa dare per scontato che tutti gli esseri umani viventi abbiano lo status di soggetti degni di diritti, protezione, libertà e senso di appartenenza politica; al contrario, questo status va garantito attraverso mezzi politici e, quando viene negato, la deprivazione va resa manifesta.

Uno dei miei suggerimenti è che, al fine di comprendere la modalità diffe-renziale con cui questo status è assegnato, ci si debba chiedere: quali vite sono degne di lutto e quali non lo sono? La suprema ingiustizia, si potrebbe dire, risiede nel fatto che molteplici vite non sono degne di lutto, non sono accompagnate dal senso della loro perdita, e dunque dal riconoscimento del loro valore, del senso della loro esistenza e della loro utilità, sorta di vite infami per cui non vi sono abbastanza racconti, attestazioni della loro presenza e della loro storica o affettiva necessità. Questo non significa necessariamente che non ci sarà nessuno che ne piangerà la morte, ma esprime la percezione di quella vita come «non degna di cura, protezione e valore», una vita che si definisce pertanto come «una penombra della vita pubblica, espressione di una svalutazione di fondo che istituisce zone di non interesse, di non valore, di non protezione».«Dobbiamo, per così dire – scrive sempre la Butler –, essere degni di lutto prima di scomparire, prima che si ponga la questione di essere dimenticati o abbandonati. Dobbiamo essere capaci di vivere una vita sapendo che la perdita di questa vita sarà pianta, e dunque che verranno prese tutte le misure per prevenirla» (ibidem, 15). Ora, quali sono le conseguenze psichiche o giuridico-amministrative di questa situazione? In che misura noi riusciamo ad incontrare, pensare, trattare, le domande o la scomparsa delle domande che una vita senza lutto ci pone? In che modo le vite infami , le vite non vere, non giuste, non buone possono essere accolte, senza chiederci allo stesso tempo che ne è del loro destino nel momento in cui la realtà o la violenza della storia le espropria, costringendole alla perdita di memoria, speranza, patria, casa, famiglia, diritti? In che modo l’orrore del mondo che ci circonda entra nelle nostre stanze d’analisi e che riusciamo a fare di esso?

Maurizio Balsamo

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