Jean-Luc Nancy : l’intruso – L’Impératif catégorique, Préface – L’essere abbandonato

Dinamiche dell’intruso

10 ottobre 2012 di Le parole e le cose | 4 commenti

 

Il cuore rivelatore del tradurre, con Jean-Luc Nancy

di Andrea Cortellessa

[Questo articolo è uscito sul numero 23 di «alfabeta2», in edicola e in libreria dall’8 ottobre. Una sua versione più lunga è in corso di pubblicazione negli atti del convegno Islam in Sicilia. Un giardino tra due civiltà, organizzato dalla Fondazione Orestiadi di Gibellina presieduta da Francesca Corrao (Palermo, 17 marzo 2012)].

 In questo consesso – di arabisti, comparatisti e studiosi della traduzione – io rappresento a tutti gli effetti un intruso: da studioso di italianistica, di Letteratura italiana contemporanea, che ha insegnato e insegna Letterature comparate, all’Università, appunto da intruso. E allora ho pensato di usare – per riflettere sulla Traduzione come strumento di dialogo interculturale – un testo piuttosto celebre, il cui titolo suona appunto L’intruso. Il suo autore, Jean-Luc Nancy, nella prima parte della sua attività s’è molto occupato di linguaggio e poesia, poi soprattutto di politica: campi entrambi nei quali ha messo a frutto il concetto di estraneità. Ma fra le sue molte opere non mi pare ve ne sia una specificamente dedicata alla pratica che lega fra loro linguaggio, poesia ed estraneità: cioè appunto alla traduzione. Anche piegare il suo pensiero in una direzione (forse) da lui imprevista rappresenta un’intrusione. Ma proprio il modo in cui Nancy ci insegna a interpretare la figura dell’intruso mi illudo autorizzi questa mia pratica.

Nel 1990 Nancy ha subito un trapianto di cuore. Dopo quella data, per nove anni, non ha mai scritto nulla su quell’evento. Nel frattempo è stato anche aggredito da un tumore dovuto probabilmente proprio ai farmaci, evidentemente intrusivi, assunti per evitare crisi di rigetto. In questa vicenda medica, dunque, la presenza dell’intruso è ambivalente: da un lato, organo estraneo prelevato da un altro corpo e inserito nel proprio, è un intruso che salva. Dall’altro, si tratta di un farmaco che – secondo la ben nota ambivalenza dell’etimo – nel momento in cui cura mette anche a repentaglio la vita del paziente. Infine si tratta del tumore stesso: intruso che minaccia.

Nel 1999 Nancy viene invitato dalla rivista «Dédale», nella persona di Abdelwahab Meddeb (scrittore e saggista tunisino che insegna Letterature comparate a Paris-X), a partecipare a un numero della rivista dedicato a La venuta dello straniero. Scrive un saggio di meno di trenta pagine, che intitola appunto L’intruso. Il saggio, quasi immediatamente, viene altresì pubblicato dalle edizioni Galilée; nello stesso 2000 esce anche in Italia (a cura di Valeria Piazza per l’editore napoletano Cronopio).

Nell’Intruso Nancy non tocca mai, esplicitamente, temi politici. Si limita a raccontare quanto avvenuto nel suo organismo nei nove anni di convivenza col corpo estraneo del cuore che gli è stato trapiantato. Ho appena usato un termine, organismo, che in realtà è a sua volta estraneo al pensiero di Nancy: la sua opera probabilmente più importante, Corpus (1992, curato da Antonella Moscati sempre per Cronopio tre anni dopo), è infatti una grande decostruzione del concetto di organismo come lo abbiamo ereditato. Non solo in senso biologico: di organismo e corpo sono lecite tutte le possibili accezioni metaforiche in ambito sociale, giuridico, politico. Nonché letterario: corpus è il corpo linguistico, l’insieme dell’opera di un autore. Corpus ci spiega che il corpo è fatto invece «di parti e di pezzi, partes extra partes, una giustapposizione senza articolazione, una vanità, una mescolanza, né esplosa né implosa, dall’ordine vaghi, sempre estendibile». Cioè, potremmo dire, di organi senza corpo – capovolgendo la nota formula di Artaud che negli anni  Settanta era stata fatta propria dalla filosofia di Gilles Deleuze e Félix Guattari. Quindi non si può parlare del corpo inteso come armonia delle parti e appunto organismo: quella che esiste è invece qualcosa come una costellazione, una collezione di parti; di esse si può dare «un catalogo invece di un logos, l’enumerazione di un logos empirico, privo di ragione trascendentale».

Se dunque organismo è già un termine discutibile secondo Nancy, anche l’accezione in cui ne ho usato un altro, straniero, gli è a ben vedere estranea. Ancora Corpus ci spiega come tutti i corpi, in effetti, siano stranieri a loro stessi: «Il corpo è la nostra angoscia messa a nudo, è la nostra estraneità». Il tema dell’estraneità, lo si accennava, è fondamentale nel pensiero di Nancy. E nel regime corporeo l’estraneità in quanto angoscia si manifesta come malattia. La malattia è il momento della disfunzionalità, il momento in cui le funzioni del corpo fuoriescono dalla norma e mettono a nudo una difficoltà, un’angoscia che alla malattia preesiste, è del corpo costitutiva.

Ma ecco la premessa di Nancy a L’intruso:

L’intruso si introduce di forza con la sorpresa o con l’astuzia, in ogni caso senza permesso e senza essere stato invitato, bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che altrimenti perderebbe la sua estraneità. Se ha già diritto d’ingresso e di soggiorno, se è già aspettato e ricevuto senza che niente di lui resti al di là dell’attesa e dell’accoglienza, non è più l’intruso, ma non è più nemmeno lo straniero. […] Una volta giunto, se resta straniero e per tutto il tempo che lo resta, invece di naturalizzarsi, semplicemente, la sua venuta non cessa, continua a venire e la sua venuta resta  in qualche modo una sua intrusione. Rimane cioè senza diritto, senza familiarità e senza consuetudine: un fastidio e un disordine nell’intimità.

È questo che si tratta di pensare e praticare, altrimenti l’estraneità dello straniero viene riassorbita prima ancora che lui stesso abbia varcata la soglia; e non è più in questione. Accogliere lo straniero dev’essere anche provare la sua intrusione. Anche se per lo più non lo si vuole ammettere: il motivo dell’intruso è esso stesso un’intrusione nella nostra correttezza morale (è anche un esempio cruciale contro il political correct). Questa correttezza morale presuppone che si riceva lo straniero annullando sulla soglia la sua estraneità: pretende quindi che non lo si sia affatto ricevuto. Ma lo straniero insiste e fa intrusione. È proprio questo che non è facile accettare e neppure forse concepire…

Sono parole che fanno a pezzi il feticcio concettuale, che fa da base appunto all’ideologia del politically correct, del dialogo: che si svuota di senso se, come viene il più delle volte praticato nelle nostre società, non c’è reale ascolto, non c’è riconoscimento dell’altro in quanto appunto diverso, estraneo. Del resto la filosofia contemporanea ci ha pure ricordato l’ambivalenza etimologica di una figura in apparenza rassicurante come l’ospite: dove l’hospes coesiste con l’hostis e l’ospite, figura ancipite attiva-passiva, porta in sé raccolto, altresì, colui che è ostile, dialettico, in frizione con l’altro.

Ma è proprio questa tensione, che ci mette in pericolo, a essere vitale. Assai più di recente (un una conferenza tenuta a Pordenone nel 2008 col titolo Strani corpi estranei, pubblicata l’anno dopo in un volume curato da Marco Vozza per Ananke, col titolo Indizi sul corpo) Nancy ha potuto impiegare questa stessa ambivalenza per parlare d’amore:

Un corpo è penetrabile solo secondo una delle due logiche opposte, quella dell’assimilazione e quella della distruzione. O la materia viene assimilata dal corpo – ingerita, assorbita, metabolizzata – o al contrario intacca l’integrità del corpo: lo ferisce, lo strappa, addirittura lo mutila o lo lacera. (Quando si parla di penetrazione senza designare la minaccia invasiva, militare o medica, significa che si parla di amore. Nell’amore c’è presa senza assimilazione sé lacerazione. C’è corpo l’uno nell’altro senza incorporazione né decorporazione. «Amore» significa il prendersi di due che eludono tutte le trappole dell’uno.)

L’incontro ha sempre qualcosa di violento, di lacerante. Qualcosa si apre, si espone: tocca il senso. È nella «frammentazione della scrittura», in questa «intersezione» e «interruzione», che si verifica per Nancy l’«effrazione di ogni linguaggio»: che appunto «avviene dove il linguaggio giunge a toccare il senso» (Corpus).

Nell’applicare il concetto di intruso alla traduzione mi ispiro a un classico della traduttologia, La prova dell’estraneo di Antoine Berman: un saggio del 1984 dedicato alla cultura della traduzione nella Germania romantica (tradotto da Gino Giometti in una delle prime pubblicazioni di Quodlibet, nel 1997). (È il caso di ricordare che a sei anni prima risale una grande antologia commentata dei frammenti estetici usciti su «Athenaeum» e dintorni, curata per Seuil proprio da Nancy con Philippe Lacoue-Labarthe: L’absolu littéraire.) Il sintagma che intitola il saggio di Berman è prelevato dalle Note all’Edipo e all’Antigone, che Friedrich Hölderlin prepose alle sue celebri versioni da Sofocle: episodio-chiave di una pratica traduttoria estrema – dopo la quale il poeta svevo s’inabissò nella follia. Tradurre i Greci per noi Occidentali moderni, si legge nella celebre lettera a Böhlendorff del 4 dicembre 1801, non significa affatto per Hölderlin ritornare alle nostre origini, a quanto ci è assolutamente proprio. Al contrario la Grecia, «il mondo violento del mito», ci «appare come ciò che, nella sua origine e nella sua traiettoria, ci è estraneo, è l’estraneo per antonomasia». Non è un caso che si concluda sul sesto grado delle sue versioni sofoclee quello che resta il più celebre dei saggi sulla traduzione, Il compito del traduttore di Walter Benjamin (testo del 1923 diffuso da noi nell’antologia einaudiana curata nel ’63 da Renato Solmi, Angelus Novus): che parte dal presupposto secondo il quale «ogni traduzione è solo un modo pur sempre provvisorio di fare i conti con l’estraneità delle lingue». L’«arcaismo sovrano e violento» delle versioni di Hölderlin grecizza in modo perturbante il tedesco: esso ne risulta, dice Berman, «come forzato, violentato, trasformato e magari fecondato dalla lingua straniera». Al tempo stesso, d’altra parte, da una simile forzatura anche «il testo originale, nella sua lingua e nel suo contenuto», viene com’è ovvio «violentato». Ma questo caso-limite non fa altro che mostrarci quanto si produce in ogni reale atto di traduzione. Nel quale secondo Benjamin il compito del traduttore, anziché «attenersi allo stadio contingente della propria lingua», dovrebbe invece «lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera».

Ben lungi dal rappresentare un’assimilazione, una pacificazione, una neutralizzazione della diversità culturale e linguistica, la «vera» traduzione esalta il momento della differenza, dell’estraneità, dell’intrusione del testo straniero nel nostro sistema linguistico e letterario. Più che di un abbraccio o di una fusione si tratta di un contrasto, un conflitto, una sfida. È il caso di ripetere, con la citazione più risaputa appunto da Hölderlin: là dove è il pericolo, lì è la salvezza. O forse, è il caso di correggere, viceversa. E infatti Benjamin – che ne sapeva qualcosa – conclude il suo saggio con un caveat che mostra la sua tipica, enigmatica ambivalenza: «abita in esse, più che in altre, il pericolo terribile e originario di ogni traduzione: che le porte di una lingua così estesa e dominata si chiudano – e chiudano il traduttore nel silenzio. Le traduzioni da Sofocle furono l’ultima opera di Hölderlin. In esse il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo». «Archetipo» (Urbild), modello supremo e originario, e insieme, per Benjamin, «pericolo terribile» nonché «originario», le versioni di Hölderlin esemplificano a meraviglia, insomma, tutte le  ambivalenze dell’intruso.

Ed ecco, fuori dal campo linguistico, Nancy nell’Intruso: «Nel trapianto tutti i segni paiono vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi». Il turbamento della lingua, il suo vacillare nell’atto della traduzione, dà vita a opere che scuotono e sommuovono non solo la lingua d’arrivo della traduzione ma la lingua dell’arte in quanto tale. Ha impiegato infatti la stessa immagine, il Nancy più recente: «Tanto più un’opera è grande, tanto più essa è aperta e noi non finiamo più di sprofondare in quest’apertura…. com’è possibile rileggere sempre Sofocle? rivedere sempre Cézanne? rivedere sempre Eisenstein? riascoltare sempre Beethoven? Sono sempre nuovamente intrusi, operano sempre nuovamente in noi delle estrusioni» (dalla conversazione con Marco Vozza contenuta nel cit. volume Indizi sul corpo, corsivo mio).

È stato Gilles Deleuze, tra i filosofi della generazione precedente a Nancy, ad aver teorizzato questo fenomeno. Chi scrive, dice nelle conversazioni con Claire Parnet del ’77 (tradotte da Giampiero Comolli e uscite da Feltrinelli nel 1980, sono state poi riproposte da ombre corte nel 1998), non può che «essere un traditore del proprio regno, traditore del proprio sesso, della propria classe, della propria maggioranza – quale altra ragione per scrivere? Ed essere traditore della scrittura stessa». In questo tradimento il traduttore è a tutti gli effetti un agente doppio (direbbe Paolo Fabbri) o, diciamo pure, una spia. Che furtivamente, sotto falso nome, riporta notizie riservate dalla cultura da cui traduce. Ma, nel mettere a rischio la propria lingua e la propria cultura con l’atto della traduzione, il traduttore-traditore ha bisogno di un complice: della collaborazione da parte dell’intruso-tradotto. Il tradotto e il traduttore, anche e soprattutto quando sono in conflitto, sono figure complici.

Il risultato è che nella grande letteratura ogni lingua è una lingua straniera. Così ha sostenuto Proust, nel Contro Sainte-Beuve: «i bei libri sono scritti come in una lingua straniera». E così ha parafrasato Deleuze, in Critica e clinica (Cortina 1996): «un grande scrittore è sempre come uno straniero nella lingua in cui si esprime, anche se è la sua lingua nativa. […] È uno straniero nella sua lingua: non mescola un’altra lingua alla sua, ma intaglia nella sua lingua una lingua straniera non preesistente». Ne risulta confermato il paradosso apparente che Hölderlin è stato forse il primo a formulare: quello per cui a ciò che ci è proprio dobbiamo accostarci come a quanto ci sia più estraneo. Anche la lingua in cui scriviamo, la nostra lingua madre, ci appare una lingua strana – straniera, tradotta – quando viene impiegata, e tradita – scossa e sommossa – dai grandi scrittori.

Ma più in generale vale, questa medesima estraneità originaria, in qualsiasi dinamica di incontro fra culture. Colui che meglio lo ha spiegato è stato un grande critico psicoanalitico recentemente scomparso, Francesco Orlando: non solo «il nativo capisce meglio la propria realtà a contatto con l’estraneo» – come hanno capito gli antropologi da Clifford Geertz in poi – ma «l’estraneo capisce la realtà del nativo meglio di lui» (L’altro che è in noi. Arte e nazionalità, Bollati Boringhieri 1996). È l’arrivo dello straniero che mette a nudo i nostri paradigmi culturali: per noi talmente inveterati da essere ormai inavvertiti. Ci fa conoscere noi stessi, in sostanza, meglio di quanto potessimo farlo per nostro conto. È quanto mostrava già il vecchio Montesquieu delle Lettere Persiane. Il «persiano» – lo straniero – guarda il nostro mondo con occhio appunto estraniato: e così è in grado di accorgersi di quanto a noi sfugge. Ma così facendo mette a nudo – lui, l’estraneo – la nostra estraneità, il nostro essere stranieri a noi stessi. Così conclude Nancy il suo scritto: «L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso, non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato, denudato e bardato, intruso nel mondo come in se stesso».

Siamo tutti intrusi, insomma. È per questo che, malgrado i pericoli che comportano, sempre avremo bisogno di nuove intrusioni.

http://www.leparoleelecose.it/?p=6961

Préface à l’édition italienne de L’Impératif catégorique

Jean-Luc Nancy

Texte intégral

1Le volume ici traduit en italien se compose d’essais rédigés entre 1977 et 1983, dont les thèmes convergent autour d’un motif de l’obligation non pas tout d’abord morale mais on­tologique : que l’être en tant qu’être au monde et en tant que con­crétion finie de l’infini de l’« être » même ou de l’acte d’« être » soit un être-obligé, ce n’est pas une réduction de sa dignité, c’est au contraire ce qui lui ouvre la possibilité de la dignité et du sens : à savoir, la valeur absolue du rapport qu’il est chaque fois (à chaque être-au-monde, en chaque singularité) par lui-même à l’infini et à l’absolu. On peut aussi le dire ainsi : l’obligation le libère pour son être le plus propre.

2Pour préfacer cette traduction, j’ai cru ne pouvoir mieux faire que d’expliciter à nouveaux frais le contenu de cette obligation, à partir du nom et du concept que Kant en a fixés au seuil de la modernité.

1

3L’« impératif catégorique » est un de ces termini technici de la philosophie dont une popularité légitime a répandu l’usage en l’éloignant inévitablement de son concept (il en est allé de même, par exemple, pour « idea », pour « monade » ou pour « déconstruc­tion »).

4Au sens vulgaire, un impératif catégorique est un comman­dement absolu, qui ne souffre aucune modalisation, aucun accom­modement et encore moins de discussion. Un impératif impérieux, pourrait-on dire, et donc en somme une intensification de la valeur jussive de l’impératif.

5Cette valeur n’est certes pas étrangère à l’acception kantienne du terme, mais elle ne constitue qu’une implication ou bien une conséquence de son concept proprement dit.

6Ce concept, quant à lui, s’établit dans l’ordre de ce que désigne l’épithète « catégorique » et ne saurait se limiter à porter le carac­tère « impératif » à une puissance supérieure. On sait que l’adjectif « catégorique » spécifie cet impératif en le distinguant de l’espèce « hypothétique ». Comme ce dernier terme l’indique, cet autre im­pératif commande sous la condition d’une supposition : si tu veux ceci, alors fais cela.

7Ce caractère conditionnel ne s’oppose pas pour autant à la tona­lité impérieuse du commandement. Si je veux guérir, je dois abso­lument suivre tel traitement : une fois la condition donnée et reçue (étant admis que je veuille vraiment guérir), la contrainte impéra­tive est aussi impérieuse, dans son ordre, que s’il s’agissait d’une obligation morale.

8Autrement dit, l’impératif est toujours impérieux, quelle que soit son espèce. Ou bien il n’est pas un impératif, mais un conseil, une exhortation, voire une simple recommandation.

9Ce qui spécifie l’impératif catégorique, en revanche, c’est qu’il ordonne sans conditions. Le caractère de commandement n’est pas dans la dépendance d’une fin donnée par ailleurs : il est intrin­sèque. De soi, c’est un commandement. Autrement dit, ce qui est commandé et le fait du commandement sont une même chose, ou plus exactement s’entr’appartiennent de manière nécessaire. Il n’y a pas ici le concept d’une fin, d’une part, et d’autre part une vo­lonté qui peut vouloir ou ne pas vouloir cette fin, et qui doit si elle la veut se plier à une contrainte. Il y a au contraire le concept d’une fin qui enveloppe en elle-même la volonté de cette fin et la soumis­sion de cette volonté à l’impératif de cette fin. Le caractère impé­ratif est impliqué dans le concept ou dans la catégorie de la fin.

10Kant emprunte le couple « catégorique/hypothétique » à la lo­gique scolastique pour laquelle la proposition « catégorique » ou le « catégorématique » affirme absolument un prédicat d’un sujet, tandis que l’hypothétique l’affirme sous une condition (« S. est mor­tel » / « si S. est un homme, alors il est mortel »). En ce sens, le « catégorique » est de l’ordre propositionnel, tandis que la « caté­gorie » équivaut, comme on sait, au concept. La libre variation que je propose ici consiste à considérer l’impératif catégorique comme la modalité propositionnelle de la catégorie seule, comme si l’on disait que « le concept doit être » est la proposition enveloppée dans le concept lui-même, se prescrivant lui-même comme fin.

2

11Au demeurant, il n’y a rien d’illégitime à traiter la catégorie comme le noyau ou comme l’embrayeur d’une proposition catégo­rique (affirmative ou impérative) : car la catégorie au sens de Kant et d’Aristote n’est pas le concept au sens le plus général du terme. Elle désigne l’ordre des prédicats possibles pour un jugement quel qu’il soit (pour une proposition, pour une prédication) : ainsi les catégories d’unité, ou d’existence, ou de communauté ne con­sistent pas tant par elles-mêmes que comme possibilités d’attribu­tion dans un jugement (cette chose est une, elle existe, elle est en rapport de communauté avec telles autres). Dans l’impératif caté­gorique, l’attribution ou la prédication se fait sur le mode impératif et non affirmatif ni hypothétique. Par exemple : « cette chose doit être une ! » ou bien « cette communauté d’existence doit adve­nir ! ». Et ce « devoir » implique un « agir » qui lui réponde : c’est pourquoi l’impératif énonce « agis de telle façon que… », c’est-à-dire : que ton action effectue la prédication, la catégorisation indi­quée (sans soumission à aucun autre concept de l’intérêt ou de la finalité de cette action).

12Une seule fin relève de ce régime : l’universalité de la ratio­nalité. La raison ne peut pas ne pas se vouloir comme fin. Elle ne peut donc pas, en tant que volonté rationnelle, ne pas s’obliger à cette fin. Alors que l’hypothèse (si je veux telle fin) suppose le re­cours à quelque intuition empirique (par exemple, l’attrait ou l’avantage que représente la guérison, et donc le désir de guérir plutôt que de dépérir), en revanche la catégorie pure, sans intui­tion 1, se trouve par elle-même comporter aussi le commandement de vouloir sa fin, ou plus encore de vouloir la fin qu’elle est elle-même : la raison ou le rationnel, un ordre raisonnable ou rationnel du monde.

13Il s’en suit, par corollaire, que l’impératif hypothétique relève d’un jugement analytique – si ceci est donné, alors cela s’en déduit – tandis que l’impératif catégorique suppose un jugement synthé­tique : à la raison pure – ou à la catégorie – s’ajoute a priori la motion impérative 2. L’impératif catégorique est en ce sens un schématisme pratique, mais c’est un strict schématisme du sujet pratique et non de l’objet, puisque l’objet en question – un monde rationnel – ne peut être présenté (sinon par analogie et selon ce que Kant appelle la typique de la raison pratique, qui de soi ne com­porte pas la dimension ou la motion impérative).

14La « catégorie », c’est ici l’ordre entier des concepts ou des caté­gories. C’est la table complète de celles-ci qui s’adjoint l’impératif de sa propre intégralité pratique. Pratiquement, et non formelle­ment, le système de cette fameuse table se prescrit lui-même comme devoir. On fera ici l’économie de l’analyse détaillée des douze catégories : il suffira de dire que leur système présente en effet la totalité des existences déterminées, dans la communauté de leurs rapports – totalité qui en tant que fin pratique serait identique à l’effectuation de la liberté.

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15L’impératif catégorique signifie que le concept d’un monde est indissociable de celui d’un impératif – un monde, cela doit être – et que le concept d’un impératif pur (non relatif à une fin donnée) est indissociable du concept d’un monde : ce qui doit être, c’est un monde, et rien d’autre qu’un monde ne doit, absolument, être mis en œuvre.

16L’impératif catégorique de Kant inaugure ainsi de manière péremptoire et sans doute irréversible l’âge contemporain de l’éthique : il ne s’agit plus de répondre à une ordonnance donnée, ni dans le monde ni hors du monde dans la représentation d’un autre monde, mais il s’agit d’instaurer un monde là où n’est dis­ponible et discernable qu’un agrégat confus. Il faut faire en ce monde et malgré lui advenir le monde de la raison, ou bien la raison comme monde. C’est le dernier avatar de l’ethos chrétien de la distinction entre ce monde et ce qui n’est pas de ce monde.

17Dans cet avatar devient tout à fait clair que l’autre monde ou plutôt le monde autre n’est pas donné, ni ici ni ailleurs. Il n’est même pas donné comme raison, dans la mesure du moins où la ra­tionalité n’est pas, telle quelle, disponible : elle se présente à elle-même comme le commandement de se faire (en tant que « loi uni­verselle de la nature »).

18L’impératif catégorique est bel et bien l’impératif de la caté­gorie, du concept ou de l’Idée – en ce qu’il est l’impératif de la rai­son pure en tant que telle. En dernière instance, d’ailleurs, il n’indique et ne prescrit rien d’autre que l’acte de la liberté, qui est l’Idée même ou le concept intégral de la raison. Il énonce l’auto-prescription de la raison. Bien loin d’être auto-fondatrice, ou plus exactement au lieu même de son auto-fondation, la raison est auto­prescriptive, et c’est là en définitive la « clef de voûte » (expression que Kant emploie, comme on sait, pour la liberté) de sa rationalité même. Le concept de la raison s’adjoint comme concept le com­mandement de se réaliser – étant entendu que ce qui est à réaliser n’est pas donné (n’est pas intuitionnable). La raison se commande d’être ce qu’elle doit être : liberté créatrice d’un monde.

19Elle se commande ainsi d’être en quelque sorte l’équivalent ou le substitut du Dieu créateur : l’impératif catégorique figure à ce compte la résolution de tous les problèmes liés avant Kant à l’idée de Dieu et de la liberté ou nécessité de son acte créateur. La raison s’oblige à sa liberté et se libère pour son obligation. Le paradoxe est qu’une telle formule montre bien à quel point les embarras du Dieu de la métaphysique étaient liés à son anthropomorphisme et à la contradiction en lui de la liberté et la nécessité : contradiction qui se dissout dans la raison kantienne. Mais il en résulte aussi que cette raison n’est pas anthropomorphique, en l’occurrence n’est pas psychologique, ni sociale, et enfin n’est pas humaine. Ou bien : l’humain en elle n’est pas donné, mais autoprescrit.

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20Ce qui est ainsi prescrit revient donc, sur un mode encore une fois d’extraction chrétienne, à ne pas être de ce monde. Cela com­mande d’ouvrir en ce monde un autre monde. La raison doit s’ou­vrir en ce monde comme un autre monde et comme l’autre du monde – en général, comme l’autre du donné.

21Toutes les ambiguïtés, les ambivalences, les contradictions et les apories de l’« autre (du) monde » à partir de Kant sont ici en germe : le sens de l’histoire et de sa fin, l’utopie, la transformation du monde, le messianisme comme avènement ou bien comme ina­vènement d’un « Messie », l’errance d’un destin, la précipitation d’un entraînement, la délivrance dans l’instant et de l’instant…

22L’impératif catégorique commande simultanément un présent, une histoire et une éternité. C’est le nouage de ces trois instances qui nous reste encore à penser, et à penser comme la praxis d’une raison qui ne se contente pas d’être ce qu’elle peut être : qui ne se contente pas de tout ce que nous désignons à l’ordinaire comme « rationnel » et comme « raisonnable ».

23La destitution de l’étant suprême a pour conséquence directe et nécessaire l’obligation de créer un monde. On remarquera au pas­sage que cette destitution – la ruine de l’argument ontologique – n’a pu s’opérer qu’en défaisant le lien de nécessité entre la catégo­rie et l’existence (l’idée de l’être parfait n’inclut pas son effectivité). À cet égard, l’impératif catégorique peut apparaître comme la resti­tution jussive de cette nécessité auparavant entendue comme lo­gique et ontologique.

24Une formidable ambiguïté trouve ici sa possibilité : ce régime qu’on peut dire ontologique de l’impératif (en définitive, le catégo­rique engendre ici l’ontologique) peut faire passer l’être tout entier dans le devoir-être. Avec le devoir-être en position de « subs­tance », si l’on peut dire, on entre dans le règne du « sujet » tel que Hegel, précisément, va le substituer à la substance. C’est-à-dire que le devoir-être engage le rapport à soi d’une volonté ou d’un désir, d’un projet ou d’un programme, d’une intention ou d’une attente – en général d’une tension finalisée par une représentation de son propre accomplissement. Tous les pièges signalés à l’instant de l’« histoire », de la « destination », de l’« avènement » sont ici prêts à fonctionner.

25Mais si ces pièges sont évités, et s’il reste exclu que l’être su­prême passe de l’être au devoir-être, alors il s’en suit bien plutôt que le « suprême » n’est plus un prédicat de l’être mais que l’impé­ratif devient sa consistance propre, si l’on peut dire. Rien n’est plus haut que le commandement : non pas le « commander », mais l’« être-commandé ». Non pas le sujet-maître, mais le sujet assujetti à cette réceptivité de l’ordre.

26Il reçoit l’ordre – il se reçoit en tant que l’ordre – de faire un monde. Mais il ne s’agit pas (et c’est ce que doit comprendre le sujet) de venir occuper la place de l’étant démiurgique, puisque c’est précisément cette place qui vient d’être vidée. Il s’agit de se tenir en ce vide et à lui – c’est-à-dire de rejouer à nouveaux frais ce que « ex nihilo » veut dire. Que rien ouvre un monde et s’ouvre dans le monde, que le sens du monde écarte toute vérité donnée et délie toute signification liée. Que je reçoive, que nous recevions l’ordre de nous tenir dans cette ouverture. C’est impératif, en effet.

*
* *

27En terminant cette préface, j’exprime toute ma gratitude à Fulvio Palese qui a entrepris et mené à bien la traduction et l’édition de ce volume. Je sais quel travail soigneux il y a consacré, à la fois en philosophe et en ami.

28Jean-Luc Nancy, mars 2005

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Notes

1. On pourrait introduire ici la question délicate dans ce contexte des formes pures de l’intuition. Mais cela exigerait un tout autre développement.
2. Voir Fondements de la métaphysique des mœurs, 2e section, Ak. IV, p. 421.

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Pour citer cet article

Référence électronique

Jean-Luc Nancy, « Préface à l’édition italienne de L’Impératif catégorique », Le Portique [En ligne], 18 | 2006, mis en ligne le 15 juin 2009, consulté le 31 mai 2015. URL : http://leportique.revues.org/831

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Auteur

Jean-Luc Nancy

Jean-Luc Nancy, philosophe, professeur à l’Université de Stras­bourg, auteur de nombreux ouvrages dont les plus récents sont : L’Expérience de la liberté (1988), Une pensée finie (1990), Le Sens du monde (1993), Les Muses (1994), Être singulier pluriel (1996), aux Éditions Galilée, Hegel, l’inquiétude du négatif, Hachette, 1997 et aux éditions Galilée : Le Regard du portrait, 2000, L’Intrus, 2000, La Communauté affrontée, 2001, À l’écoute, 2002, La Création du monde ou la Mondialisation, 2002, Au fond des images, 2003, Fortino Samano (Les débordements du poème), 2004 (avec Virginie Lalucq), La Communauté désœuvrée, 2004, « Loth et ses filles de Simon Vouet », [catalogue de l’exposition Éclairages sur un chef-d’oeuvre. Loth et ses filles, Musée des beaux-arts de Strasbourg, 2005, La Naissance des seins, suivi de Péan pour Aphrodite, 2006, La Déclosion (déconstruction du christianisme, 1), 2006.

http://leportique.revues.org/831

Jean-Luc Nancy
L’imperativo categorico
traduzione e cura di Fulvio F. Palese, Nardò (LE), Besa,
2007 (astrolabio, 10), pp. 164,
ISBN 978-88-497-0340-5, € 14,00

Concepito alla fine degli anni Settanta e pubblicato in Francia all’inizio degli anni Ottanta, il testo di Nancy problematizza l’obbligo non tanto come questione che rimanda a un dover essere, ma come problema dell’essere stesso – e perciò come problema ontologico –, visto che nell’essere-obbligato si aprirebbe la possibilità della dignità e del senso, liberando così l’essere per il suo essere più proprio. Se il Kant secolarizzato di una ragione autoprescrittiva che tiene insieme coercizione e libertà è il riferimento principe («Bisogna in questo mondo e suo malgrado far avvenire il mondo della ragione o piuttosto la ragione come mondo», perciò «La ragione si obbliga alla sua libertà e si libera per il suo obbligo», p. 11, “Prefazione”), non meno presenti sono, per esempio, Nietzsche o Derrida, Hegel e Heidegger, insomma la costellazione degli autori che anche altrove sono gli interlocutori privilegiati di Nancy.

Oltre ogni rigorismo moralistico, autoposizione soggettivistica o esaltazione di un libero arbitrio individualizzante, l’imperativo categorico kantiano è letto da Nancy come l’ingiunzione che indirizza e destina all’eccedenza della libertà (“Il kategorèin dell’eccesso”, pp. 15-42), come il rimando implicito di un Nietzsche moralista di una morale ancora a venire e dominata dalla Redlichkeit, ossia da quella probità alla parola che instaura la verità e il sapere della necessità (“La nostra rettitudine! Sulla verità in senso morale in Nietzsche”, pp. 71-96), come il riferimento obbligato per l’indigenza del nostro tempo, che sembra provenire dal vacillare della prospettiva etica e che trova invece nella scrittura, nella sua legge e nell’obbedienza alla custodia del domandare quell’etica un po’ unheimlich che esige e reclama la differenza del finito (“La voce libera dell’uomo”, pp. 123-148).

Due saggi in particolare affrontano la questione del giudizio e dell’ingiunzione, entrambi nel rimando all’imperativo kantiano, ma declinato una volta nella sequela della giurisprudenza latina (“Lapsus judicii”, pp. 43-70), un’altra volta confrontato invece alla sfida heideggeriana di dover pensare il ritrarsi della verità (“La verità imperativa”, pp. 97-122).

Secondo Nancy la giurisprudenza che scavalca la filosofia è simbolizzata storicamente da Roma conquistatrice di Atene, dal diritto romano che assume rilevanza teorica e metafisica – quasi un superamento del logos greco da parte della formulazione latina –, ma anche da quel Kant che si interroga sulle giurisdizioni del pensiero e sulla legittimazione del caso empirico e dell’accidente fattuale, ossia che pone il problema del «diritto di ciò che è di diritto senza diritto» (p. 55, nota), resistendo così anticipatamente alle sistematizzazioni successive dell’idealismo hegeliano, che invece restaura la preminenza del rimando greco. La persona giuridica che si determina nell’accidentalità e nella finitezza risulta in effetti il rovescio dell’hypokeimenon, giacché è subjectum nel senso del subordinato, assoggettato, supposto; così allo stesso modo il giudizio si distingue dal concetto, giacché è piuttosto discernimento, scelta, decisione (krisis), secondo una connotazione più pratica che gnoseologica. Si tratta qui, per Nancy, del discorso latino della filosofia, paradigmaticamente presente nel Kant che inaugura il tribunale della ragione: «Invece di possedere un’essenza, che sarebbe di conoscersi, la ragione conosce un accidente, che è di dover giudicarsi. La ragione s’imbatte nel suo proprio caso, il caso del giudice» (p. 58), dice così il suo contorno, la sua figura, «il limes della e nella ragione» (p. 63). Ma se la filosofia, nel farsi ontologia della finitezza, si pensa e si dice secondo il diritto, perfino attraverso le finzioni dei suoi casi fittizi o dei suoi ‘come se’, allora può sempre cadere in fallo, allora il lapsus judicii non è l’occorrenza casuale e accidentale, ma la caratteristica costitutiva e permanente della sua fallibilità. «Quando la filosofia si fa giuridica, quando passa nel diritto, il suo giudizio non si pronuncia che per bocca di una persona che non cessa di commettere lo stesso lapsus attraverso il quale, giustamente, essa si rivela per intero (rivela la causa, la sua causa, la sua cosa, res – rien) […] – dicendo, nel suo discorso latino, fictio per dictio, o dictio per fictio, ma sempre significando il suo diritto a dire» (p. 68).

L’imperativo, nella sua forza categorica, è in Kant ciò che tira fuori la verità da se stessa, strappandola al suo regime e facendola diventare verità imperativa, legge anteriore all’impero del vero, ingiunzione che è l’altro della verità nella verità stessa. Quella verità che nella tradizione filosofica era stata pensata come adeguazione, conformità e rappresentazione, che in Hegel è poi diventata autorivelazione e autopresentazione della cosa stessa all’interno di una fenomenologia dello spirito, mostra però per Nancy una circolarità di reciproca presupposizione del teorico e del politico, del vero e del potere. Ma ciò che la verità presuppone come verità della verità stessa deve rimanere anche fuori dalla presa, per esempio restando quella patenza sottratta cui si riferisce Spinoza o la ritrazione che è al cuore della a-letheia di Heidegger e che in Kant compare nell’instaurazione del regime di una finitezza che nella libertà non rimanda più essenzialmente all’infinito, giacché l’imperativo è vuoto. La particolarità dell’imperativo «è di essere senza impero, non pregiudica niente circa l’esecuzione del suo ordine, non mette in opera alcuna forza esecutoria; ed è così che non è potere» (p. 119), esso è piuttosto «il pudore della verità nel suo ritrarsi» (p. 120). «L’imperativo non prescrive nulla – se non la verità (la forma della legge) –, ma a prescrivere non è la verità: qui nessun Padrone [Maître] è presupposto e preposto. L’imperativo è senza potere. La verità è prescritta a partire dalla sua ritrazione» (ibid.). L’imperativo eccede allora ogni enunciazione così come ogni volontà, prescrive il volere e la legge, ma senza volerla dire: «se l’imperativo è proprio ciò che emerge dal ritrarsi della verità – e che sorge ingiungendo all’uomo di essere vero – questa verità imperativa sorge nella ritrazione del Vero-Soggetto e come sua ritrazione» (p. 121). Non è insomma più possibile né proponibile alcuna verità sul vero, la verità imperativa è l’indiscutibile e inverificabile essere-ingiunto dell’uomo, l’essere assegnato nella sua verità da un’ingiunzione che non gli impone nient’altro che la propria umanità.

Un’appendice su “L’essere abbandonato” (pp. 149-162) conclude la riflessione di Nancy attraverso il rimando alla localizzazione dell’essere nello scarto del luogo, paradigmaticamente esibita dalle tre figure mitiche dell’abbandono, Mosè, Edipo e Cristo, oltre che da tutti gli abbandonati e le abbandonate dell’amore romantico, della derelizione, della gettatezza, della messa al bando di ogni ecce homo nel teatro di un mondo che deve essere – imperativamente e categoricamente – opera di libertà e segno di finitezza.


(Gabriella Baptist)

Indice :

Prefazione all’edizione italiana di Jean-Luc Nancy

L’imperativo categorico

Il kategorèin dell’eccesso

Lapsus judicii

La nostra rettitudine! Sulla verità in senso morale in Nietzsche

La verità imperativa

La voce libera dell’uomo

Appendice

L’essere abbandonato

http://www.kainos.it/numero9/recensioni/Nancyimperativo.html

L’essere abbandonato

Traduzione di Elettra Stimilli

“L’essere abbandonato ha già cominciato a costituire, senza che noi lo sappiamo, senza che possiamo veramente saperlo, una condizione ineludibile per il nostro pensiero, e forse persino la sua condizione unica. Ormai l’ontologia che ci rivendica a sé è un’ontologia in cui l’abbandono resta l’unico predicato dell’essere, o ancora – e nel senso scolastico del termine – il trascendentale.” L’abbandono è il tema conduttore che percorre i tre saggi di Nancy, raccolti insieme qui per la prima volta col consenso dell’autore: “L’essere abbandonato”, “Identità e tremore”, “La decisione di esistenza”. L’epoca in cui stiamo vivendo è il tempo dell’abbandono assoluto, in cui, al di là del postmoderno e di qualsiasi nichilismo, emerge un essere senza identità, un essere spogliato da tutte le sue proprietà e ridotto al nucleo incandescente della sua pura esistenza. L’identità non è, qui, che un tremore, appena un fremito; è quel momento che, nella formazione del soggetto, è dato dal “risveglio dell’anima”: né sonno, né veglia, ma lo stato di peculiare “affezione” e “passività” di cui si ha l’esperienza più diretta nell’ipnosi o nel “rapporto magico” tra la madre e il bambino ancora nel ventre materno. In tal modo viene alla luce l’idea di un’esistenza assolutamente finita, una singolarità monadica appunto, la cui natura è originariamente femminile.

Indice: L’essere abbandonato – Identità e tremore – La decisione di esistenza

http://www.quodlibet.it/schedap.php?id=1590#.VWtC7lKD2iE

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