La Persuasione e la Rettorica Carlo Michelstaedte pdf – la notte, video conferenza

autoritratto

La persuasione e la rettorica – Letteratura Italiana

2012

di Fabrizio Meroi

Carlo Michelstaedter

Il pensiero di Carlo Michelstaedter, figura di primo piano nel panorama filosofico europeo dell’inizio del Novecento, è stato spesso interpretato – sulla scorta, peraltro, di elementi concettuali effettivamente presenti nella sua riflessione – come un pensiero dagli esiti ascetici e individualistici. In realtà – e la critica più recente lo ha ormai ampiamente riconosciuto – si tratta di un pensiero non privo di contenuti di carattere specificamente politico e che, soprattutto, culmina in un potente richiamo alla dimensione comunitaria dell’agire umano: tratti, questi, che permettono di collocare Michelstaedter, a pieno diritto, nel solco della grande tradizione della filosofia civile italiana.

La vita

Carlo Raimondo Michelstaedter nasce il 3 giugno 1887 a Gorizia, all’epoca città dell’Impero austro-ungarico, da una famiglia di ebrei italiani assimilati che poteva vantare, nel suo albero genealogico, almeno un paio di nomi importanti (i rabbini Abramo Vita Reggio e Isacco Samuele Reggio). Il padre, Alberto, prima agente di cambio e poi direttore della filiale goriziana delle Assicurazioni generali di Trieste, coniuga la propria attività lavorativa con spiccati interessi letterari: ben noto negli ambienti culturali della città, è tra l’altro presidente del locale Gabinetto di lettura. La madre, Emma Coen Luzzato, è una donna di grande sensibilità, alla quale Michelstaedter resterà sempre legatissimo. Carlo ha un fratello e due sorelle maggiori: Gino, che nel 1893 emigra negli Stati Uniti e si toglie la vita, a New York, nel 1909; Elda, che come la madre sarà deportata dai nazisti e troverà la morte ad Auschwitz; infine Paula, l’unica sopravvissuta della famiglia nel secondo dopoguerra (Alberto muore nel 1929), che conserverà per molti anni i materiali che ora costituiscono il Fondo Michelstaedter della Biblioteca statale isontina di Gorizia.

Dopo aver ottenuto il diploma allo Staatsgymnasium goriziano nel luglio del 1905, Michelstaedter si reca a Firenze, nell’ottobre seguente, per trascorrervi un periodo da dedicare prima di tutto alla sua passione per l’arte. A Firenze, però, finirà per trattenersi ben più a lungo del previsto. Frequenta l’Accademia di belle arti e, soprattutto, si iscrive ai corsi di lettere dell’Istituto di studi superiori (dove seguirà le lezioni, tra gli altri, di Francesco De Sarlo, Guido Mazzoni, Pasquale Villari e Girolamo Vitelli).

Inizia così, per il giovane Carlo, un quadriennio di intense esperienze intellettuali ed esistenziali, vissute principalmente a Firenze, ma anche a Gorizia e a Pirano, località dell’Istria nella quale trascorre parte delle vacanze estive dal 1908 al 1910.

Da un lato, vi sono le numerose letture e, in particolare, l’incontro con l’opera di alcuni autori che risulteranno decisivi nella sua formazione così come nel determinare taluni orientamenti del suo stesso pensiero. All’iniziale infatuazione per Giosue Carducci e Gabriele D’Annunzio (che contribuiscono ad alimentare in lui un ideale ‘eroico’ di vita e di creazione artistica) fa seguito il più meditato interesse per Giacomo Leopardi, Lev N. Tolstoj ed Henrik Ibsen (oltre che per i tragediografi greci, i Vangeli e la musica di Ludwig van Beethoven). Sul piano più squisitamente filosofico, profonda è l’influenza dei presocratici (Parmenide, Eraclito, Empedocle) e del Platone ‘socratico’, mentre controverso è il rapporto con Arthur Schopenhauer: pur essendo, in larga misura, debitore nei confronti della sua filosofia, Michelstaedter prende tuttavia le distanze dal suo ‘imperfetto’ pessimismo.

Dall’altro lato, vanno ricordati diversi momenti che segnano in maniera indelebile l’esistenza di Carlo. Anzitutto, l’ardente amicizia con Nadia Baraden, un’esule russa alla quale dà lezioni di italiano all’inizio del 1907, che prima di suicidarsi gli scrive delle lettere il cui sorprendente contenuto è stato recentemente rivelato (cfr. S. Campailla, Il segreto di Nadia B. La musa di Michelstaedter tra scandalo e tragedia, 2010, pp. 27-33). Poi, nella primavera dello stesso anno, l’amore per la compagna di studi Jolanda De Blasi; un amore che, osteggiato dai genitori, avrà breve durata, ma rappresenta comunque, per lui, un passaggio cruciale, dai risvolti non esclusivamente sentimentali. Ancora, la stessa morte del fratello Gino nel febbraio del 1909, che mette a durissima prova il suo equilibrio emotivo. Infine, nell’estate del 1910, la relazione con la goriziana Argia Cassini, che ispira sia “I figli del mare” che “A Senia”, i due capolavori della produzione poetica michelstaedteriana. Né si devono dimenticare gli amici più cari: a Firenze, i compagni di studi Gaetano Chiavacci e Vladimiro Arangio-Ruiz, futuri editori delle sue opere ed esponenti di rilievo della cultura filosofica italiana del Novecento; a Gorizia, Enrico Mreule e Nino Paternolli. Il legame più significativo è senz’altro quello con Mreule, figura dalla personalità assai complessa (cfr. su di lui C. Magris, Un altro mare, 1991), che Michelstaedter vede a un certo punto come colui che ha saputo realizzare l’ideale di vita e di pensiero al quale egli stesso avrebbe desiderato conformarsi.

Nel giugno del 1909, dopo avere sostenuto tutti gli esami previsti dal suo cursus studiorum presso l’Istituto fiorentino, Michelstaedter ritorna a Gorizia per lavorare alla stesura della tesi di laurea. La completa nell’autunno dell’anno seguente e, poco dopo averla inviata a Firenze, il 17 ottobre 1910 si toglie la vita sparandosi con una rivoltella.

L’opera

L’opera di Michelstaedter è, di fatto, interamente postuma. Tranne quattro articoli usciti su quotidiani locali tra il 1907 e il 1910 (cfr. Carlo Michelstaedter. Far di se stesso fiamma, 2010, pp. 191-93), tutti gli altri scritti sono stati infatti pubblicati dopo la sua morte (a partire dalla pionieristica edizione curata negli anni 1912-13 da Arangio-Ruiz per i tipi di Formiggini). Ed è, questo, un dato che deve essere sempre tenuto presente. Siamo cioè di fronte a un corpus letterario e filosofico che non ha mai assunto una forma definitiva, espressione di una volontà ultima in vista della stampa, ma che è rimasto invece allo stato di annotazione, di scrittura privata, di documento epistolare o, nel caso della tesi di laurea e delle tesine di passaggio d’anno compilate da Michelstaedter nel 1906, nel 1907 e nel 1908 (per queste ultime cfr. C. Michelstaedter, Scritti scolastici, a cura di S. Campailla, 1976), di elaborato da presentare in un contesto accademico. E tuttavia – va subito precisato – si tratta comunque di testi di una forza e di una densità straordinarie, che anticipano per molti versi alcuni dei momenti più alti della filosofia europea del Novecento e che permettono di considerare Michelstaedter come uno dei maggiori pensatori del principio del secolo da poco concluso. Né, peraltro, il suo contributo si esaurisce nella produzione di carattere specificamente letterario e filosofico. Egli fu anche autore, infatti, di una cospicua serie di dipinti e – soprattutto – di disegni che costituiscono, a tutti gli effetti, parte integrante della sua opera e che sono stati ormai unanimemente riconosciuti in tutto il loro valore e in tutta la loro peculiarità (cfr. L’immagine irraggiungibile. Dipinti e disegni di Carlo Michelstaedter, saggio introduttivo di D. Bini, catalogo generale delle opere a cura di A. Gallarotti, 1992).

Ma, certamente, Michelstaedter è anzitutto poeta e filosofo. Sul versante lirico, ha lasciato dei componimenti di varia ispirazione e di diverso spessore. Se le poesie dei primi anni risentono in modo evidente di suggestioni petrarchesche, carducciane, dannunziane e – in particolare – leopardiane, quelle dell’ultimo periodo, dal “Canto delle crisalidi” e “Onda per onda batte sullo scoglio” a “I figli del mare” e “A Senia”, raggiungono viceversa un notevole grado di originalità e – ciò che più conta – riescono a tradurre in versi, con esiti di indiscutibile pregio, i contenuti più profondi della riflessione teorica (cfr. C. Michelstaedter, Poesie, a cura di S. Campailla, 1987). Sul versante filosofico, vanno sicuramente menzionati sia i taccuini, gli appunti di lavoro, gli scritti narrativi e quelli d’occasione, nei quali compaiono spesso argomenti e motivi che non si ritrovano nei testi maggiori (cfr. Parmenide ed Eraclito.Empedocle. Appunti di filosofia, a cura di A. Cariolato, E. Fongaro, 2003; Sfugge la vita, a cura di A. Michelis, 2004; L’anima ignuda nell’isola dei beati. Scritti su Platone, a cura di D. Micheletti, 2005; La melodia del giovane divino, a cura di S. Campailla, 2010), sia un gruppo di brevi composizioni a struttura dialogica, tra le quali spiccano il Dialogo tra Carlo e Nadia, in cui gli spunti di carattere autobiografico si intrecciano con la meditazione sui temi della ‘libertà’ e del ‘bisogno’, e il Dialogo tra Diogene e Napoleone, che si risolve in una discussione problematica della prospettiva filosofica dello stoicismo antico (cfr. Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, 1988, pp. 95-131). Né si deve dimenticare il ricco epistolario, assai prezioso sia ai fini della ricostruzione della biografia michelstaedteriana, sia perché in molte lettere trovano spazio delle vere e proprie digressioni di natura concettuale (cfr. Epistolario, a cura di S. Campailla, 1983, 20102).

I testi più importanti sono però, senza alcun dubbio, Il dialogo della salute (1910) e La persuasione e la rettorica (1910). Il primo, attraverso una conversazione immaginaria tra i personaggi di Rico e Nino (gli amici Mreule e Paternolli), mette in scena una controversia, di stampo inequivocabilmente socratico-platonico, che ha per oggetto le contraddizioni della condizione umana, costitutivamente sospesa tra la vita e la morte e, al contempo, perennemente in bilico tra il richiamo del piacere, le costrizioni della società e l’anelito a una forma superiore di esistenza (cfr. Il dialogo della salute e altri dialoghi, cit., pp. 25-94). Il secondo è la tesi di laurea, capolavoro di Michelstaedter, nella quale egli illustra, utilizzando tra l’altro una grande varietà di stili e di moduli espressivi, la propria concezione filosofica, che vede l’uomo di fronte a una drammatica alternativa: l’autenticità della via alla «persuasione» o l’inautenticità del mondo della «rettorica».

L’orizzonte della «persuasione»

L’inizio della Persuasione e la rettorica è folgorante. L’essere umano vi è presentato come un «peso» che «pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende». La sua è una situazione, per così dire, di radicale indigenza ontologica, perché desidera naturalmente scendere verso il basso ma, se anche viene lasciato andare, «in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga». In sostanza, «sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere». E qualora, d’altra parte, riuscisse in qualche modo a porre termine alla sua corsa e al suo desiderio, verrebbe meno, con ciò, la sua stessa natura: «Se in un punto gli fosse finita e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso». Michelstaedter può così concludere:

La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse sé stesso, esso avrebbe finito d’esistere. – Il peso è a sé stesso impedimento a posseder la sua vita e non dipende più da altro che da sé stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai esser persuaso (La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, 1995, pp. 7-8).

Dove è evidente che il termine vita svolge la funzione di vox media, indicando, da un lato, l’esistenza comune, che consiste in un continuo tendere a obiettivi sempre diversi ma sempre deludenti ed è costantemente dominata dalla «volontà» (ed è qui determinante l’influenza di Schopenhauer); dall’altro, un’esistenza che potrebbe invece rappresentare, essa sì, un vero punto d’arrivo, l’«esser persuaso», ma che porterebbe contemporaneamente alla cessazione della vita stessa.

Non sembrerebbe esservi, dunque, alcuna via d’uscita. Senonché questo è – per l’appunto – solo l’inizio, solo il punto di partenza della riflessione michelstaedteriana. Se Michelstaedter si fermasse qui, avrebbero ragione coloro che hanno visto – o ancora vedono – nel suo pensiero una teorizzazione della morte come unica possibile via di avvicinamento a una realtà autentica (e nel suo suicidio, conseguentemente, una sorta di estrema attestazione di fedeltà, sul piano esistenziale, alle idee professate sul piano teorico). Ma egli procede nella sua ricerca. La sua opera è il frutto dell’incapacità di rassegnarsi all’evidenza derivante dai primi risultati della sua indagine filosofica; il frutto – detto altrimenti – del disperato tentativo di schiudere uno spiraglio di autenticità, di «persuasione», nella dimensione della finitezza, della vita che può essere effettivamente vissuta. In questa direzione, posto che la «qualunque vita» che noi tutti abitualmente viviamo è illuminata – ma sarebbe più corretto dire: oscurata – dal «dio benevolo» del «piacere» che ci proietta, adulandoci, in un futuro vuoto tale da allontanarci sempre di più dalla pienezza del presente, si rende necessario ascoltare, viceversa, la voce del «dolore» che, mentre quella del «piacere» ci dice «tu sei», alimentando così l’illusione di un’identità individuale fondata sulla semplice soddisfazione dei bisogni, ci dice invece «tu non sei», rivelando in tal modo il fondo reale delle cose e distruggendo al contempo quell’illusione:

Dappertutto lo stesso dolore della vita che non si sazia e crede di saziarsi, reso perspicuo per la qualunque contingenza dell’una coscienza col fluire delle altre coscienze, per cui alla breve illusione si manifesti la sua impotenza ed essa si trovi a volere disperatamente: senza riposare sulle date cose che sicure aspettavano il suo futuro.

E interrotta la voce del piacere che le dice tu sei – sente solo il sordo mormorio del dolore fatto distinto che dice: tu non sei, mentre pur sempre essa chiede la vita (La persuasione e la rettorica, cit., p. 27).

La «via alla persuasione» sarà allora quella in grado di fondare una nuova, inusitata forma di identità della persona, che non poggi sulle fragili basi dell’identificazione dell’individuo con le risposte che egli dà – anzi: che crede di dare – alle proprie richieste e alle proprie esigenze, ma che sia il prodotto di un supremo esercizio di presa di possesso di se stesso, così come di ogni cosa in se stesso, e di concentrazione nel presente. Questo percorso è accennato già nel primo capitolo della prima parte della Persuasione, nel quale troviamo scritto, ad es.: «Colui che è per sé stesso […] non ha bisogno d’altra cosa che sia per lui […] nel futuro, ma possiede tutto in sé». Oppure: «La persuasione non vive in chi non vive solo di sé stesso». O, ancora, con riferimento all’espressione platonica del Gorgia: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita: l’anima ignuda nelle isole dei beati» (pp. 9-10). Ma è nel terzo e ultimo capitolo, sempre della prima parte dell’opera, che la strada che Michelstaedter intende tracciare viene indicata con una maggiore precisione. Intanto, colui che si incammina sulla via della «persuasione» deve saper vivere nell’attimo presente, forte di una consapevolezza della possibilità di morire che nulla ha a che fare con la volgare «paura della morte» (e che è stata vista, da molti, come un’anticipazione dell’«essere-per-la-morte» heideggeriano):

Chi vuol aver un attimo solo sua la vita, esser un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve inpossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte: e nell’oscurità crearsi da sé la vita. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie; poiché niente in lui chiede più di continuare; niente è in lui per la paura della morte – niente è così perché così è dato a lui dalla nascita come necessario alla vita (p. 33).

Poi, egli deve sottrarsi definitivamente alle lusinghe del «piacere» e farsi coraggiosamente carico del «dolore», differenziando così totalmente il proprio cammino da quello dei più:

Chi vuole fortemente la sua vita, non s’accontenta, temendo di soffrire, a quel vano piacere che gli faccia schermo al dolore, perché questo continui sotto cieco, muto, inafferrabile; ma anzi la persona di questo dolore prende e […] s’afferma là dove gli altri sono annientati dal mistero; poiché egli ha il coraggio di strappar da sé la trama delle dolci e care cose che conforta a esser ancora giuocati nel futuro, e chiede il possesso attuale; quello che per gli altri è mistero poiché trascende la loro potenza, per lui non è mistero, che l’ha voluto ed in ciò s’è affermato (pp. 34-35).

Ma il tratto davvero caratterizzante di colui che aspira alla «persuasione» risiede nella capacità di essere e di agire secondo non la modalità del «chiedere», bensì quella del «dare». «Tutto dare e niente chiedere: questo è il dovere», scrive Michelstaedter, rivelando – tra l’altro – la matrice squisitamente etica del suo pensiero. Questa «attività che non chiede» può essere definita un «beneficio», «che fa non per avere, ma facendo dà»; e non si traduce, concretamente, in una banale forma di ‘filantropia’ («Far beneficio non è dare o fare agli altri quello che essi credono di volere: far l’elemosina al povero, sanare gli ammalati, sfamare, dissetare, vestire»), ma in una ferma esortazione a condividere la scelta di rinunciare alla «vita illusoria» e di optare per la vera vita:

Non dare agli uomini appoggio alla loro paura della morte, ma toglier loro questa paura; non dar loro la vita illusoria e i mezzi a che sempre ancora la chiedano, ma dar loro la vita ora, qui, tutta, perché non chiedano (pp. 42-43).

Infine, il punto d’arrivo dell’esperienza di ricerca della «persuasione» viene tratteggiato da Michelstaedter, nella pagina conclusiva di questa prima parte della sua tesi di laurea, in un passo dai toni quasi visionari nel quale l’urgenza di una contrazione del tempo ordinario raggiunge il suo limite estremo:

Solo, nel deserto egli [l’uomo nella via della persuasione] vive una vertiginosa vastità e profondità di vita. Mentre la φιλοψυχία [l’amore alla vita] accelera il tempo ansiosa sempre del futuro e muta un presente vuoto col prossimo, la stabilità dell’individuo preoccupa infinito tempo nell’attualità e arresta il tempo. Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente (p. 49).

La società della «rettorica»

Ma, come viene detto subito, all’inizio della seconda parte della Persuasione, «gli uomini si stancano su questa via, si sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte». Né, d’altro canto, essi si accontentano della vita che quotidianamente vivono, irrimediabilmente avvinta dai lacci delle singole relazioni determinate dalla necessità di soddisfare i bisogni, più o meno elementari, che scandiscono il ritmo della loro esistenza. Sorge così l’esigenza di trovare un punto di riferimento, «un valore stabile che non s’esaurisce nel giro delle relazioni particolari», qualcosa che possa sostituire – è proprio questo che Michelstaedter intende – l’insostenibile «persuasione» nella sua azione di ‘superamento’ della «qualunque vita»: «Di fronte alla qualunque relazione limitata finita essi non la vivono come semplice correlativo, ma da uomini che hanno la persuasione». Più esattamente: «Al di sotto della relazione elementare che li vince per la loro paura della morte, essi fingono un correlativo alla persuasione che si fingono d’avere». Ecco come Michelstaedter descrive la condizione degli uomini che, per sfuggire all’illusione del «piacere», si abbandonano a quella di un «valore assoluto»:

Sono ancora cosa fra le cose, schiavi del più del meno, del prima del dopo, del se del forse, in balìa dei loro bisogni – paurosi del futuro, nemici a ogni altra volontà, ingiusti a ogni altrui domanda; affermano ancora in ogni punto la loro inadeguata persona. Ma questo è tutto apparenza, questa non è la loro persona; sotto, sotto permane la loro persona assoluta, che s’afferma assolutamente nel valore assoluto, che ha il valore assoluto (La persuasione e la rettorica, cit., pp. 53-54).

Questo ingannevole «valore assoluto» è la «conoscenza finita», il «sapere». Come scrive in modo estremamente efficace Michelstaedter, «l’uomo si ferma e dice: io so» (p. 54); e, dicendo ciò, «si vuol “costituire una persona” con l’affermazione della persona assoluta che egli non ha». Si affaccia così lo scenario della «rettorica», che altro non è, allora, se non «l’inadeguata affermazione d’individualità» (p. 57).

Il «sapere» rappresenta dunque un primo ambito nel quale la «rettorica» esercita la sua funzione di contraltare, per così dire, della «persuasione». E alla critica del «sapere» Michelstaedter dedica, nel primo e nel secondo capitolo della seconda parte della Persuasione, pagine che colpiscono per la loro violenza e che ribadiscono costantemente l’indissolubile nesso che lega tra loro i due obiettivi della polemica: il «sapere» e, appunto, la «rettorica». Il «sapere» finisce per diventare lo «scopo della vita»:

Ci sono le parti del sapere, e la via al sapere, uomini che lo cercano, uomini che lo danno, si compra, si vende, con tanto, in tanto tempo, con tanta fatica.

Ed è proprio perciò che «fiorisce la rettorica accanto alla vita». Molto semplicemente, «gli uomini si mettono in posizione conoscitiva e fanno il sapere» (pp. 58-59). Un «sapere», quello al quale pensa Michelstaedter, che è anzitutto quello della filosofia, come è testimoniato dalla pagina in cui viene criticato il cogito cartesiano («Cogito non vuol dire “so”; cogito vuol dire cerco di sapere: cioè manco del sapere: non so», p. 60) e, soprattutto, dal notissimo excursus – intitolato Un esempio storico – in cui, attraverso la narrazione di un immaginifico apologo, viene delineato lo sviluppo del pensiero antico da Socrate e Platone ad Aristotele: uno sviluppo che, per Michelstaedter, è in realtà un processo di decadenza, che culmina appunto nel «sistema» aristotelico, il quale «ancora vive fra noi, se pur sotto nuove vesti», e si risolve in ultima analisi in un vuoto «teorizzar sulle cose» (p. 73). Ma il «sapere» è anche quello della scienza, che «via via soppianta» la filosofia e pretende di superarne le «esaltazioni metafisiche» e di arrivare alla «conquista della verità» mantenendo un proficuo «contatto con la realtà» (p. 74). Ma – obietta Michelstaedter – questa pretesa è anch’essa illusoria. La scienza, infatti, fallisce nel suo tentativo di fondazione di una conoscenza che si vorrebbe oggettiva – molte pagine di questa sezione della Persuasione, come, ad es., quelle sulle nozioni di ‘esperienza’ e ‘causalità’, possono essere senz’altro inserite nel filone dell’antiscientismo primonovecentesco – e, al contrario, non ottiene altro scopo se non quello di ‘istituzionalizzare’ la «rettorica del sapere»:

Nella degenerazione della persona sapiente per la ricerca del sapere, la scienza colla sua materia inesauribile e il suo metodo fatto di vicinanza di piccoli scopi finiti – colla sua posizione conoscitiva che esperimenta oggettivamente e ripete sempre la stessa minima reazione dell’organismo, che non solo non esige, ma non tollera la persona intera – colla sua necessità della specializzazione – ha calato le radici nel più profondo della debolezza dell’uomo ed ha dato ferma costituzione per tutti i secoli avvenire alla rettorica del sapere (p. 83).

Il principale ambito di affermazione della «rettorica» è rappresentato però dalla società, della quale Michelstaedter tratta, a partire da una riflessione su testi di Georg Wilhelm Friedrich Hegel e di John Stuart Mill, nel terzo capitolo di questa seconda parte dell’opera (che si apre – vale la pena di notare – con l’impietoso ritratto di un «grosso signore», prototipo dell’uomo della «rettorica», dietro il quale si cela la figura del padre dell’autore, Alberto). La società può essere davvero definita il «regno della rettorica», dal momento che in essa gli uomini «si son fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca convenzione» (p. 95). Pur di non rinunciare alla certezza che i suoi bisogni minimi trovino adeguata soddisfazione («la società gli largisce sine cura tutto quanto gli è necessario»), il singolo individuo accetta di essere ridotto a una sorta di meccanismo e, al prezzo della perdita della propria libertà, acquista la «sicurezza» (p. 96). Una sicurezza che, però, si fonda sulla violenza: se il lavoro è «violenza sulla natura», infatti, la proprietà – scrive Michelstaedter senza mezzi termini, chiamando direttamente in causa due solidi cardini della vita sociale – è «violenza verso l’uomo» (p. 97). Ed è proprio alla luce di questo assunto di fondo, nel quale risuona, certamente, anche l’eco della lettura di pagine di Karl Marx e di Georges Sorel, che si sviluppa, nel prosieguo del capitolo, una spietata analisi del corpo sociale e delle dinamiche che lo contraddistinguono (un’analisi che da diversi critici è stata accostata a quelle svolte, in seguito, nell’ambito della Scuola di Francoforte). Michelstaedter insiste, in particolare, sulla «riduzione della persona» che si produce quando si cade nella rete di relazioni dalla quale dipende il buon funzionamento della macchina della società:

L’uomo che ha assunto la persona sociale […] ha fondato la sua vita sulla contingenza delle cose e delle persone, e della carità di queste vivendo da queste dipende pel suo futuro, né ha in sé vigore a conservarsi ciò che non per suo valore gli appartiene (pp. 103-04).

Addirittura, Michelstaedter arriva a sostenere che «tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» e che, nello specifico, «ogni sostituzione delle macchine al lavoro manuale istupidisce per quel tanto le mani dell’uomo», provocando così, a poco a poco, una progressiva degenerazione, anche e proprio sul piano fisico, delle precipue funzionalità dell’essere umano: «Gli occhi finiranno per non vedere ciò che invano vedrebbero, le orecchie di sentire ciò che invano sentirebbero – il corpo dell’uomo si disgregherà … si verserà» (pp. 104 e 106-07). Verrà infine il momento – e le parole di Michelstaedter, scritte nel 1910, non possono non apparire profetiche – in cui «gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera», ma – egli chiarisce subito – per vedere molti degli effetti nefasti dell’azione della società sull’individuo non è affatto necessario attendere:

Parlo del futuro per aver il caso di limite, ma gran parte del futuro è nel presente. Già ora nessun uomo nasce più nudo ma tutti con la camicia, tutti già ricchi di ciò che i secoli hanno fatto per render loro facile la vita. E i più sono quelli che se la tengono con ogni cura. Già ora l’uomo trova quanto gli è necessario in una forma prestabilita, e crede di sapere la vita quando ha imparato le norme di questa forma ed ottiene senza pericolo ciò che gli è necessario (p. 119).

E la «camicia» di cui si parla in questo brano, la «camicia rettorica», viene descritta – mediante l’uso di un’espressione piuttosto sinistra che, però, rende assai bene l’idea di quello che è il punto di vista michelstaedteriano – come una vera e propria «camicia di forza», intessuta di «tutte le cose nate dalla vita sociale», che vengono puntualmente e meticolosamente così elencate: «1°. i mestieri, 2°. il commercio, 3°. il diritto, 4°. la morale, 5°. la convenienza, 6°. la scienza, 7°. la storia» (pp. 119-20).

Michelstaedter ‘politico’

A fronte di una condanna della società tanto circostanziata e così ben motivata – al di là dei rapidi cenni contenuti nel paragrafo precedente, le indagini e le valutazioni della seconda parte della Persuasione sono spesso particolari e sempre argomentate –, può sembrare difficile parlare di una dimensione propriamente ‘civile’ del pensiero di Michelstaedter. Tanto più che il suo discorso non riguarda solamente la società europea dell’inizio del Novecento – anche se, certamente, è dall’osservazione di quest’ultima che esso trae essenzialmente origine – ma, in una prospettiva più generale, l’intera civiltà occidentale nel suo complesso, indipendentemente dalle varie forme che essa ha assunto nel corso del proprio sviluppo (e infatti, come viene spiegato nella seconda Appendice critica alla Persuasione, è nella stessa Grecia antica che affonda le sue radici la connotazione «rettorica» dell’idea di ‘città’ che appartiene alla nostra cultura). Del resto – lo si accennava inizialmente – Michelstaedter è stato oggetto, in passato, di diverse interpretazioni che hanno presentato la sua riflessione teorica come una filosofia dai toni marcatamente ascetici e individualistici. Ed è innegabile, in effetti, che vi sia in lui una vena di questo tipo (basti pensare alla centralità, nella sua opera, del concetto di solitudine e dell’immagine del «deserto»). Ma vi è sicuramente, in Michelstaedter, anche una vena che, senza minimamente alterare il significato della sua esperienza intellettuale ed esistenziale, può essere qualificata come civile. Alludo in primo luogo alla presenza, nei suoi scritti minori, di importanti spunti di carattere specificamente politico e, più esattamente, antiborghese. Ora, è chiaro che una precisa componente antiborghese è presente, in modo più o meno esplicito, nelle stesse pagine della seconda parte della Persuasione alle quali si è già fatto riferimento: pagine che si ispirano largamente, per fissare gli obiettivi critici che le caratterizzano, alla società – appunto – borghese che costituiva l’ambiente nel quale Michelstaedter concretamente viveva, sia nei periodi fiorentini che in quelli goriziani. Ma, in questo caso, la pars destruens non sembra essere accompagnata da una pars construens. Accanto al versante della feroce critica di determinati aspetti della vita borghese, cioè, non sembra esservene uno veramente propositivo, che riveli, in Michelstaedter, la carica progettuale propria di una coscienza autenticamente politica. Né pare di poter attribuire troppo valore ai passi dell’epistolario nei quali egli inveisce contro la ‘borghesia’ in generale o certi suoi ‘rappresentanti’ in particolare. Come quando esclama, in una lettera alla famiglia scritta tra il 6 e il 7 novembre 1906:

Son felice di non aver partecipato al banchetto di quella fetida borghesia, morte alla borghesia, evviva il libero arbitrio, evviva il metodo storico, evviva il suffragio universale, evviva la ‘scuola unica’! (Epistolario, cit., pp. 152-53).

O come quando, in un’altra lettera alla famiglia di pochi giorni dopo, si scaglia contro un conoscente imputandogli, tra le altre cose, «il suo fare borghese» (p. 158). Si tratta infatti, evidentemente, di un astio spontaneo – corroborato dall’uso di facili slogan – e di un’antipatia dovuta a ragioni personali, più che di un sentimento derivante da una meditata riflessione su questioni di ordine sociale e politico. Altrove, però, le cose sembrano stare diversamente. Penso anzitutto al cosiddetto Discorso al popolo (il titolo è di Chiavacci, curatore nel 1958 dell’edizione Sansoni delle Opere di Michelstaedter), un testo composto, con ogni probabilità, tra il 31 agosto e il 13 ottobre del 1909. In esso, egli immagina di parlare a una folla di operai che – come aveva appreso dai giornali – si erano riuniti per protestare contro la condanna dell’anarchico spagnolo Francisco Ferrer e si rivolge loro esortandoli alla ribellione:

Voi sarete schiavi in eterno se non arriverete a smascherare la miserabile ipocrisia della potenza borghese, che copre di fiori le sue difese e nasconde in seno il pugnale (Discorso al popolo, 1909, in Id., La melodia del giovane divino, cit., p. 86).

E, dopo averli rimproverati per aver accolto con un applauso il passaggio casuale di un aeroplano, li invita ancora, con maggior energia, a rovesciare l’ordine borghese e ad affrettare l’avvento del «nuovo mondo»:

Fratelli, voi avete applaudito al simbolo della potenza che vi schiaccia. – Ma vi scuoterete voi dalla vostra inerzia, v’unirete tutti, porterete ognuno il contributo del suo amore fraterno, e della sua forza disperata, nata dalla diuturna sofferenza – e allora sarete invincibili, allora questo vano edificio della potenza borghese che vi domina e che voi rispettate, che vi domina soltanto perché voi lo rispettate, crollerà tutto con le sue leggi, le sue istituzioni, la sua scienza vana, la sua morale ipocrita – gli eserciti dei preparatori, gli eserciti degli esecutori della tirannide spariranno: scienziati, impiegati, soldati saranno razze estinte, nel nuovo mondo (p. 87).

Sarà, insiste con forza, proprio questo «nuovo mondo», il mondo

dove regnerà l’uomo, l’uomo del lavoro, l’uomo sano nel corpo e nella mente, l’uomo che non avrà bisogno di leggi ingiuste, e perché ingiuste complicate, per esser sicuro del suo fratello (p. 87).

Un mondo nel quale l’uomo troverà in sé la forza per costruire un sistema sociale rivoluzionario: «la sua fede, e il lavoro comune, e la compagine stretta dall’amore fraterno – gli saranno governo e legge e difesa nel regno del lavoro e della giustizia» (pp. 87-88). È insomma un testo, questo del 1909, il cui contenuto, da un lato, si ricollega per certi versi a quello di altri testi anteriori (l’«amore fraterno» dei passi citati, ad es., ricorda l’«amore universale» dello scritto su Tolstoj uscito sul «Corriere friulano» del 18 settembre 1908: cfr. C. Michelstaedter, Tolstoi, 1908, in Id., La melodia del giovane divino, cit., p. 208) o posteriori (cfr. C. Michelstaedter, Acerbo è il frutto, 1910, in Id., La melodia del giovane divino, cit., p. 114: «impugnerai la spada contro le istituzioni […], combatterai in tutti i modi il principio della viltà (φιλοψυχία) concreto nella società»); dall’altro, «attesta una tentazione profonda, che potrebbe rappresentargli [a Michelstaedter] quel futuro che invece non avrà» (S. Campailla, Alla ricerca del tesoro che non c’è, introduzione a C. Michelstaedter, La melodia del giovane divino, cit., p. 28). Un testo che, in ogni caso, conferma pienamente l’esistenza, accanto al Michelstaedter ‘apolitico’ delle opere maggiori (della Persuasione così come del Dialogo della salute), anche di un Michelstaedter ‘politico’ – e, dunque, pensatore civile.

La dimensione comunitaria

Ma, a ben guardare, la vena civile di Michelstaedter alimenta anche molte pagine della stessa Persuasione (pagine che, comunque, si pongono rispetto a quelle appena ricordate in una relazione di stretta continuità). Già l’idea del «tutto dare e niente chiedere» – che, come si è visto, costituisce l’elemento veramente decisivo nell’ambito della definizione dei tratti precipui dell’uomo che si avvia alla «persuasione» – implica l’apertura all’universo dei rapporti condivisi e, insieme, la possibilità – anzi, la necessità – di gettare le basi per una comunità di individui in senso proprio. Una comunità che, naturalmente, non abbia le caratteristiche della società della «rettorica», ma che rappresenti una forma di convivenza nella quale si possa realizzare – magari in maniera «iperbolica», per riprendere un’espressione cara a Michelstaedter – l’ideale della «persuasione». Michelstaedter non pensa cioè, evidentemente, alle subdole «comunità amichevoli», nelle quali «chi biasima un male o l’apparenza d’un male degli altri si afferma implicitamente libero da quello, e concede a quelli che lo ascoltano d’esserne liberi anch’essi», e nelle quali «ognuno vive della morte di chi è fuori della comunità» (Il dialogo della salute e altri dialoghi, cit., p. 56); pensa, invece, a un sodalizio autentico in cui al «giro delle relazioni» si sostituisca una comunione vera con il «mondo», come viene spiegato in un passo della Persuasione altamente significativo, nel quale la filosofia michelstaedteriana rivela infine la sua dimensione squisitamente comunitaria (e, anche, l’influenza della suggestione evangelica):

Finché l’uomo vive, egli è qui, – e là è il mondo, finché egli vive vuole possederlo, finché egli vive, in qualche modo s’afferma: e chiede, entra nel giro delle relazioni – ed è sempre lui qui e là il mondo diverso da lui. Ma di fronte a ciò che era per lui una data relazione, nella quale affermandosi egli chiedeva di continuare, ora egli deve affermarsi non per continuare, deve amarlo non perché esso sia necessario al suo bisogno, ma per ciò ch’esso è: deve darsi tutto ad esso tutto per averlo: poiché in esso egli non vede una relazione particolare ma tutto il mondo, e di fronte a questo egli non è la sua fame, il suo torpore, il suo bisogno d’affetto, il suo qualunque bisogno, ma egli è tutto: poiché in quell’ultimo presente deve aver tutto e dar tutto: esser persuaso e persuadere, avere nel possesso del mondo il possesso di sé stesso – esser uno egli e il mondo (La persuasione e la rettorica, cit., pp. 43-44).

Non solo «esser persuaso», dunque, ma anche «persuadere»: è questo l’approdo ultimo della ricerca teorica di Michelstaedter. Una ricerca che si apre allora all’orizzonte della pluralità e che – vale la pena di insistere su questo punto – si pone come obiettivo, tra l’altro, anche la riformulazione, in termini radicalmente nuovi, di concetti come quelli di «giustizia» ed «educazione», ai quali sono dedicate diverse pagine – rispettivamente – della prima e della seconda parte della Persuasione.

Questa dimensione comunitaria della filosofia di Michelstaedter è ormai un dato assodato in sede critica ma, in passato, è stata più volte messa in discussione. Il suo, del resto, è un pensiero assai complesso, che si presta facilmente alle interpretazioni più svariate. Appare oggettivamente difficile, però, negare l’esistenza, in esso, di tale dimensione: una dimensione che, pur in un quadro teorico generale nel quale non mancano singoli motivi che sembrano condurre nella direzione di una soluzione meramente individualistica della problematica esistenziale, è tuttavia un chiaro indice della precisa volontà, da parte di Michelstaedter, di creare i presupposti per poter immaginare – e attuare concretamente – una società improntata non allo spirito della «rettorica», ma a quello della «persuasione»; per – egli scrive – «crear sé ed il mondo» (La persuasione e la rettorica, cit., p. 45).

Opere

Epistolario, a cura di S. Campailla, Milano 1983, 20102.

Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, Milano 1988.

La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di S. Campailla, Milano 1995.

Sfugge la vita. Taccuini e appunti, a cura e con saggio introduttivo di A. Michelis, trascrizione dei testi dai manoscritti e note di R. Allais, postfazione di M. Cerruti, Torino 2004.

La melodia del giovane divino. Pensieri racconti critiche, a cura di S. Campailla, Milano 2010.

Bibliografia

S. Campailla, Espressionismo e filosofia della contestazione in Michelstaedter, in Id., Scrittori giuliani, Bologna 1980, pp. 103-31.

P. Piovani, Michelstaedter: filosofia e persuasione, a cura di F. Tessitore, «Nuova antologia», 1982, 1, pp. 208-20.

M. Cacciari, Interpretazione di Michelstaedter, «Rivista di estetica», 1986, 22, pp. 21-36.

A. Asor Rosa, “La persuasione e la rettorica” di Carlo Michelstaedter, in Letteratura italiana. Le opere, 4° vol., Il Novecento, t. 1, L’età della crisi, Torino 1995, pp. 265-332.

A. Negri, Il lavoro e la città. Un saggio su Carlo Michelstaedter, Roma 1996.

Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di S. Cumpeta, A. Michelis, Udine 2002.

M. Dalla Valle, Dal niente all’impensato. Saggio su Carlo Michelstaedter, Padova 2008.

E sotto avverso ciel luce più chiara. Carlo Michelstaedter tra nichilismo, ebraismo e cristianesimo, a cura di S. Sorrentino, A. Michelis, Troina 2009.

A. Arbo, Michelstaedter Carlo Raimondo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 74° vol., Roma 2010, ad vocem.

G. Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter, Milano-Udine 2010.

Carlo Michelstaedter. Far di se stesso fiamma, a cura di S. Campailla, catalogo della mostra, Gorizia 2010-2011, Venezia 2010.

L’inquietudine e l’ideale. Studi su Michelstaedter, a cura di F. Meroi, Pisa 2010.

http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-michelstaedter_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Filosofia%29/

La notte

Tace la notte intorno a me solenne
le ore vanno e sfilan le memorie
siccome un nero e funebre convoglio.

Del cielo nelle oscurità remote
nell’ombra amica che con man soave
le grevi forme della chiesa lambe,
nell’ombra amica che gl’uomini culla
col lento canto della pace eterna
vedo di forme strane scatenarsi
una ridda veloce e affascinante
vedo la mente umana abbacinata
chinar la fronte…

Ma il mio pensiero innalzasi sdegnoso
e squarcia il manto della notte bruna
libero, e vola, –
vola alla luce pura trionfante
vola al sole del vero, dove i forti
stan combattendo l’immortale agone
cinti le terapie d’agili corone,
vola esultante.

Carlo Michelstaedte

IL SIMPOSIO DIOTIMA EROS ED ODIO

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In effetti il simposio più che una cena
era una bevuta fra amici in cui si facevano discussioni su un argomento a tema,
 discussioni per lo più colte e filosofiche, almeno quelli a cui partecipava Socrate.

E del suo Simposio voglio parlare.

Il simposio è conosciuto soprattutto per l’approfondita disamina sul tema
“solo l’amore omosessuale è nobile”. Sappiamo che la società greca non aveva
nessuna remora contro l’omosessualità, ma sappiamo anche, di contro, che
era una società aristocratica e maschilista che relegava le donne al gineceo
e al telaio; in ogni caso è bello il mito, ogni mito disvela verità
profonde, che gli uomini all’origine erano maschi e femmine e che furono
divisi a metà dagli dei invidiosi e da allora cercano la loro metà persa.
Io invece mi soffermerò, fra le varie discussioni che gli amici fanno sul
tema dell’eros, al discorso di Socrate.
Perché parla di un personaggio molto significativo, Socrate esordisce:
«Ma sì, via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò, piuttosto, quello che
sull’Amore, mi disse un giorno una donna di Mantinea, Diotima, molto dotta
sull’argomento e su un’infinità di altre questioni.”.
Prima di inoltrarmi sul discorso di Diotima su l’amore qualche cenno su di
lei.
Pare che “Diotima di Mantinea fosse una figura sapienziale di donna, vissuta
nel V secolo a.C.”.
È vera e reale? o anche lei è un mito?
Di certo se è un mito porta ad un tempo remoto in cui le donne avevano una
importanza ben diversa, e i rapporto fra gli individui erano diversi da
quelli che oggi sono correnti.
Se noi leggiamo:
L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di F Engels

http://www.polesine.com/pagine/scienze/mfn/originefamiglia.htm

troviamo che:

“Noi ci troviamo così trasportati in una serie di forme di famiglia che sono
direttamente in contraddizione con quelle comunemente accettate finora come
le sole vigenti. L’idea tradizionale conosce solo la monogamia, ed accanto a
questa la poligamia di un solo uomo, e se mai anche la poliandria di una
sola donna, e passa così sotto silenzio, come si conviene al filisteo
moraleggiante, che la prassi, in maniera tacita, ma disinvolta, non tiene
conto dei limiti imposti dalla società ufficiale.

Lo studio della storia delle origini invece ci presenta condizioni in cui
gli uomini vivono in poligamia e contemporaneamente le loro donne vivono in
poliandria, e i figli comuni sono perciò considerati anche come cosa comune
a tutti loro. Condizioni, queste, che hanno a loro volta attraversato esse
stesse tutta una serie di mutamenti, fino alla loro dissoluzione nella
monogamia. Questi mutamenti sono di tal genere che la cerchia abbracciata
dal vincolo matrimoniale comune, all’origine assai larga, si restringe
sempre più sinché alla fine lascia sussistere solo la coppia singola che
oggi predomina”…È diventato recentemente di moda negare questo stadio
iniziale della vita sessuale dell’uomo” e con la sferzante ironia di questi
sovversivi ottocenteschi arriva a dire ai fautori della monogamia che …”E
se una rigorosa monogamia è il culmine d’ogni virtù, la
palma spetta alla tenia che in ciascuna delle sue proglottidi o segmenti del
corpo, che vanno da cinquanta a duecento, possiede un completo apparato
sessuale maschile e femminile e passa tutta la vita ad accoppiarsi con se
stessa in ciascuno di questi segmenti”….Ops, ritorna l’androgino non più
come mito ma come tenia.
Siccome nulla nasce dal nulla, Marx ed Engels si erano basati su fatti
scientifici portati da altri dotti signori: antropologi ed altro che avevano
studiato forme di organizzazioni familiari primitive, in cui era praticata
la poligamia e in cui la donna aveva una rilevanza notevole: matriarcato.
Su questo dato spontaneo, naturale, gioioso, di libertà sessuale totale, le
femministe hanno costruito il mito dell’era delle “superfemmine”, cioè delle
femmine al potere.
Eppure il discorso di Diotima, invece, dà un’idea ben diversa di questa
rimembranza di un convivere diverso, armonioso, in cui non c’è il potere ma la
ricerca del Bello.
Forse Diotima è esistita veramente, a me piace pensarlo, forse è solo il
ricordo, la nostalgia di un mondo barbarico in cui i rapporti erano liberi
non codificati dalla famiglia monogamica necessaria alla divisione della
proprietà e alla nascita dello Stato.
Socrate dice: “Fu lei a erudirmi nelle questioni d’amore..cercherò di
ripetervi, come posso, a parole mie, il discorso che ella mi fece.”
La prima cosa che fa,  Diotima smonta il concetto di kalagatos così caro
ai Geci.
Socrate gli dice che l’amore è un grande dio che è amore  di cose belle, e
lei: Amore non è né bello né buono. Socrate sta al gioco del dialogo e:
allora è brutto e malvagio? Ma la sottilissima Diotima
«Credi forse che ciò che non è bello debba necessariamente essere brutto?» e
Socrate da Greco dice. certo! allora, ribatte, Diotima:
«E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante? Ma non ti accorgi che
c’è sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza?»
Certo potreste ribattere Socrate deve sempre ribadire “so di non sapere”,
evidentemente aveva fatto scuola, a suo dire, da Diotima che gli dice:
Sapere veramente è avere una opinione giusta a cui puoi dare una
spiegazione: se non dai una spiegazione non sai, ma nel contempo se hai
un’opinione giusta già non sei nell’ignoranza: una opinione giusta sta a
mezza via tra la sapienza e l’ignoranza.
Socrate sembra contento di vedere confermata la sua tesi di fondo, ma Diotima
continua nel suo ribaltare il concetto di kalagatos, il principio armonico
per eccellenza della civiltà greca: “allo stesso modo, dice Diotima, non devi
fossilizzarti nel concetto che tutto ciò che non è bello , per quello è
brutto e perché brutto non buono, malvagio addirittura. Stesso discorso per
l’amore: il fatto che non sia né buono né bello non puoi pensarlo per questo
brutto e malvagio; in effetti è un qualcosa che sta tra  questi due
estremi”. Socrate rimase perplesso giacché era sua convinzione ed in effetti
è convinzione generalmente diffusa ai suoi tempi come anche i nostri che
l’amore fosse un dio potente a cui tutti gli esseri viventi soggiacciono in
natura. Se fosse un dio, afferma convinta Diotima, allora sì ,non potrebbe
essere che  bello e beato come tutti gli dei, eppure io or ora ho sentito
che tu dicevi che Amore desidera ciò che è bello e buono, proprio perché ne
è privo! se aspira al bello e al buono perché ne è privo evidentemente  non
è un dio. Ma allora, Socrate domanda, cosa è mai l’amore? Non è certo un
essere mortale dice la saggia; come per il bello e il brutto, come per il
sapere e l’ignorare, è qualcosa che sta nel mezzo tra il divino e l’umano,
Socrate. L’Amore è un Demone, un Demone possente! e’ lui che facendo da
tramite tra il divino e l’umano colma il divario di questi due estremi e
rende l’universo concluso in sé stesso. E da dove trasse le sue
origini Eros, saggia Diotima? chi generò questo Demone possente?
Ed è qui a questo punto che viene fuori tutta la sapienzialità di Diotima la
quale disvela a Socrate la nascita di Amore: dei natali veramente
particolari.
Diotima raccontò a Socrate che quando nacque Afrodite gli dei banchettarono,
come si fa per ogni nascita e la sua era certo una nascita più che ben
voluta…Chi c’era, chi c’era? fra tanti nobili dei al banchetto…c’erano
anche Poro (espediente) e Metide (sagacia); chi giunse alla fine del
banchetto?, e te pareva! chi poteva giungere alla fine dei festini?..Penia
(povertà; come tutti i poveri restò sull’uscio a mendicare i resti. Poro,
fatto del tutto, uscì in giardino per dormire ubriaco come era; Penia si
disse: ora che è  addormentato lo becco, me lo faccio, mi riconsolo un po’
della mia…penuria. E così fu che da povertà ed espediente nacque  Eros:
penuria, mancanza si unì con espediente per far  nascere Amore: il mito
vuole  significare che la mancanza se si unisce all’espediente fa nascere
Eros; non solo questo veramente perché qualcosa di più profondo significa
ancora: Eros nasce da Penia ovvero dalla mancanza, dalla privazione, dalla
povertà, da uno stato limitato e limitante. È quindi scontato che per
soddisfarsi, per realizzarsi tende a raggiungere la completezza, la sazietà
ed è l’espediente che gli fornisce i mezzi per raggiungere questo scopo; il
gioco dell’amore sta tutto in questo pendolo: privazione… sazietà. Ed
essendo che il pendolo dell’amore è anche il pendolo della vita, i due estremi
fra cui la vita si realizza, e siccome l’arte del sociale, ossia la politica
(non la politica politicante) è un dato fondamentale della vita,
ragionandoci bene vediamo che anche il politico si muove tra questi due
estremi: è la privazione, la mancanza che ti spinge tramite l’espediente a
raggiungere lo scopo che ti sazia che ti realizza: per i borghesi imporsi
come classe, per i proletari la rivoluzione.
Ecco  parché Eros si accompagna sempre con Afrodite, disse Diotima, perché
fu concepito quando ella nacque ed è per questo che sempre aspira al bello,
perché Afrodite è il bello! ma per i suoi stessi natali egli è sempre
contradditorio e diviso in se stesso,
nato da Poro e Penia è! Quindi prima di tutto è sempre povero, e poi non è
bello, armonioso delicato nelle fattezze, come una specie di Tazio insomma,
ma, testuale!, “grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo, vagabondo, dorme
sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle strade, sotto il
sereno,
perché ha la natura della madre ed è tutt’uno con la miseria”
questo dalla parte di mammà…Da parte di papà….

“è fatto per insidiare ciò che è bello e buono, essendo di
natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre pronto a tramare
inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita dedito a
filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista. Inoltre né
immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso alla
vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù della
natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così
che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e
ignoranza” . Ma di cosa parlano Diotima e Socrate, solo di Eros? e Socrate
era anche un uomo politico, e come politico accetto la condanna a morte. I
due sapienti stanno parlando di Eros, ma parlano anche del politico; del
resto Socrate aveva detto “esperta in amore e in altre cose…”
E’  facile capire, continua Diotima,  perché non essendo un dio ma un
Demone, non si crede perfetto come gli dei ignoranti nella loro presunta
perfezione di essere sapienti, non troverai mai un dio che si occupa di
filosofia, di conoscere, e loro sono convinti di essere la sapienza la
perfezione cosa debbono ricercare? e in questo sono del tutto simili agli
ignoranti umani che non tendono al sapere, a questa ricerca continua e si
appagano della loro ignoranza credendo di essere, perciò, il buono, il
bello, il saggio, il giusto: chi non sente il pungolo della mancanza di
qualcosa quando mai la ricerca? è pago nella sua ignoranza, non può desiderare
cio’ di cui non sente il bisogno. Eros, caro Socrate, è un filosofo, uno che
appunto perché sta sempre in mezzo al guado, in posizione intermedia aspira
alla sapienza, che è fra tutte le cose la più bella:
se fosse convinto di sapere non starebbe in questa ricerca continua. Tu come
tutti credi che Amore è colui che si ama, Amore invece è colui che AMA.
Per questo te lo figuravi bello come bello pare chi si ama, chi invece, caro
Socrate AMA ha questo aspetto da reietto.
Ma quale, quale utilità può venire da tutto questo a noi esseri umani,
Diotima?
Provo a spiegartelo e ti pongo questa domanda: chi ama le cose belle, ama,
ma ama che cosa?
Che siano sue, prontissimo Socrate. Ah si?, disse Diotima, e io allora ti
chiedo “Che cosa
gliene viene a chi possiede le cose belle?» .
Non so cosa risponderti al momento.
Proviamo  allora a cambiare i termini, se io ti dicessi
“chi ama il bene, ama, ma ama che cosa?”
che diventi suo! prontissimo Socrate. E che utilità ne viene a chi possiede
il bene? A questo si che so risponderti: “la felicità”.
Risposta azzeccata, Socrate , è perché possiedono il bene che le persone sono
felici, ma ora io ti chiedo un’altra cosa: tu pensi che il desiderio di
amare sia comune a tutti gli uomini e che tutti desiderano possedere il
bene? questo pensi davvero?
Sì, ne sono convinto.
E allora perché diciamo che alcuni uomini sanno cosa sia l’amore ed altri
no?
In effetti questa cosa mi è sempre parsa strana…
E invece no non deve sembrarti strana , perché siamo noi che dell’amore
prendiamo solo una aspetto e solo lui chiamiamo Amore, e tutto il resto lo
chiamiamo  con altri nomi… Pensa alla poesia per esempio, noi per poesia
intendiamo solo cio’ che è verso, musica od ogni altra attività creativa, ma
in effetti non è poesia ciò che dal non essere passa all’essere? ogni
attività creativa è poesia e tutti quelli che creano sono poeti.
Eppure solo alcuni sono chiamati poeti; noi chiamiamo poesia solo ciò che si
esprime con la metrica o con la musica. Lo stesso accade con l’amore: ogni
desiderio di bene e di felicità è per ciascuno “possente e ingannevole
amore”, ma chi persegue questa aspirazione per altre vie non diciamo che
amano o sono amanti, noi così definiamo solo chi persegue un particolare
tipo di amore.
La realtà è che cambia solo il loro oggetto d’amore, può essere per alcuni
l’arte, la politica, per alcuni  persino il guadagno.
Il discorso dei più è la convinzione che gli amanti siano coloro che cercano
la propria metà di cui sono privi.
La mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per
l’intero, a meno che, mio caro, non si tratti di un bene.
E ciò che ami per te diventa il bene, sia questa o quella particolare
attività o idea o persona.
Quello che ami diventa il bene, e quando conosci l’amore del bene allora
desideri possederlo PER SEMPRE.
In conclusione, l’amore è possesso perenne del bene.
Ed ora Socrate se ciò a cui si tende è il possesso perenne del bene, quando
è che la passione ed ogni azione di coloro che aspirano a conseguire il bene
perenne possiamo chiamare amore? quando è veramente amore? Socrate ammette
che non sa rispondere e modestamente o falsamente modesto dice: sono venuto
da te per impararlo.
E lei gli dà la risposta fulminante “quando si concepisce nel bello e con il
corpo e con lo spirito”.
Tutti gli esseri umani come nel corpo anche nell’animo hanno un seme fecondo
e desiderano che produca qualcosa, ma nel brutto si produce il nulla, nel
brutto non è possibile produrre, nel bello sì: come succede quando un
maschio e una femmina  si accoppiano che in quell’atto da mortali diventano
immortali, pur producendo una creatura mortale a sua volta. Eppure questa è
la immortalità , questo è il dono degli esseri viventi: è questa l’armonia
perenne, continua , ciò che non è armonico non può essere bello. La bellezza
è la nutrice e la levatrice del miracolo della vita: per questo chi si
accosta al bello in serenità produce e crea, chi, invece, si accompagna  al
brutto, si incupisce in sé stesso e diventa infecondo, e di questo soffre:
per questo si aspira al bello perché la bellezza è ciò che allontana la
sofferenza. E allora io ti dico che Amore non è amore del bello, ma bensì:
produrre, creare nel bello.Così gli esseri viventi sono immortali rinascendo
di generazione in generazione, e naturale è che si desideri l’immortalità
come il bene, visto che abbiamo convenuto che amore è il possesso del  bene
perenne; ne consegue quindi che l’amore è amore di immortalità. Tutte le
creature viventi, disse Diotima a Socrate sono in questa condizione, sia che
camminino sulla terra e volino nel cielo, dalle profondità degli abissi
fino al verme che striscia sotto terra: smaniano per il desiderio di
accoppiarsi, sono disposti a combattere deboli contro i più forti per la
loro prole, a sacrificare la loro vita per essi o a morire di fame per
nutrirli, a tutto disposti.
Gli uomini noi diciamo dotati di ragione e diciamo che  per questo lo fanno,
ma gli animali perché lo fanno?
Non lo sai? e come puoi essere esperto in questioni d’amore se questo non
sai? E galantemente Socrate disse per questo venni da te Diotima.
Abbiamo visto, caro Socrate, che attraverso la procreazione un essere nuovo
lascia posto al vecchio, eppure se tu ci pensi bene questo processo accade
anche in ogni singola creatura individuale: un individuo è sempre la stessa
persona, ma quante volte muta nella sua vita? non è in continuo cambiamento?
un rinnovamento continuo? cambia perdendo sempre qualcosa nel fisico, ma
anche nell’animo: sentimenti, abitudini, modi di pensare, desideri, piaceri,
non resta sempre immutabile, si rinnova e muore;  lo stesso succede per le
nostre idee e le nostre cognizioni, noi siamo in un divenire perenne:
ciascuna nostra idea presa singolarmente segue la stessa sorte, nasce e muore,
è quel che chiamiamo dimenticare; ma dimenticare vuol dire perdita di ogni
cognizione, esercitarsi invece nello studio rinnova una nuova idea che nasce
dalla vecchia, così nulla va perduto; come vedi c’è una immortalità anche del
bello del pensiero: Del resto è così che procede la catena della vita pure
se mortale, “non rimanere sempre e immutabilmente se stesso”, come gli dei,
ma lasciando ciò che è vecchio  per qualcosa di nuovo al suo posto “in tutto
simile ad esso”.Come la procreazione generazionale assicura l’immortalità, lo
stesso la memoria assicura l’immortalità.
Non stupirti quindi se eros nasce dal desiderio dell’immortaltà.
Molti invece che l’immortalità di Eros, dell’Amore cercano l’immortalità nel
brutto. Basta che tu pensi a cosa sono disposti a fare alcuni per avere
onori, fama  notorietà, potere e gloria.

Altri uomini invece “che han feconda l’anima (e ve ne sono fecondi
spiritualmente più di quanto non lo
siano nel corpo)”, si dedicano alla saggezza e alla virtù ovvero all’amore.
Questi sono i poeti, o quegli artigiani che inventano cose belle ed utili. E
la più bella, la più  poetica forma di Saggezza è quella relativa
all’ordinamento di ogni organismo sociale. Sono questi POETI SOCIALI  che
cercando ed attuando la giustizia produrranno il bello in cui generare.
“Quindi, fecondo com’è, sentirà maggiore attrazione per le belle
sembianze che per le brutte, figuriamoci poi se, in più, incontra un’anima
bella e gentile; quando si rallegra di questo felice connubio, accanto a una
simile creatura egli sentirà tutto un fervore di ammaestramenti sulla virtù
e sul come un uomo per bene debba comportarsi, iniziando, così, la sua opera
di educatore. Infatti, penso che a contatto con una bella creatura,
convivendole accanto, egli esprima e dia alla luce ciò che da tempo
custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le stia lontano, sempre la
porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è nato dalla loro
unione; e tra loro nasce un’intimità, un legame molto più profondo di quello
che lega i genitori ai figli”.
Pensa ad Omero ad Esiodo o agli altri grandi poeti e creatori e dimmi quale
progenie meravigliosa hanno lasciato che a loro danno la vera gloria; oppure
pensa a saggi come Licurgo o Solone, o ad altri uomini in Grecia e paesi
stranieri che con le loro opere hanno realizzato la virtù: ebbene per quello
che hanno procreato sono stati onorati più che se avessero creato esseri
carnali.
Ora, Socrate, sappi che l’amore è una conquista , l’amore bisogna VIVERLO e
per questo bisogna conoscerlo a fondo, conoscerlo bene, perché è un percorso
che si realizza attraverso diversi gradi; tu in verità mi sembri alquanto
sprovveduto in materia, ma proverò a fartelo capire.Chi vuole giungere alla
perfezione di eros, bisogna che prima si accosti ad  esso, da giovane,
tramite un corpo bello, il primo grado è apprezzare e conoscere la bellezza
fisica, amare una sola persona e provare felicità in questa reciproca
bellezza, poi dovrà passare allo stadio successivo, capire cioè che la
bellezza non è solo di un corpo, ma che tante belle creature vi sono, se
pure diverse nell’aspetto, tante forme belle vi sono e allora deve sentire
trasporto per tutte le creature, raffreddare il suo slancio per una persona
sola perché questo sarebbe mediocre e meschino; e da questo non restare fisso
su un solo individuo ma allargando il suo interesse alle altre creature,
capirà che vi è una bellezza superiore a quella fisica, quella spirituale,
apprezzerà allora le creature non per il loro dato estetico ma per le loro
qualità profonde, magari si innamorerà di un’anima bella in un corpo non
bello, e da questo passerà a comprendere che la bellezza è nelle AZIONI e
nelle organizzazioni umane che belle e giuste sono, allora capirà che la
bellezza fisica è ben poca cosa di fronte a questa prospettiva che gli si
apre, e dopo questo si rivolgerà alla scienza  e alla conoscenza e allora
vedrà la bellezza nella sua totalità, in questo modo non sarà più schiavo,
succube solo di una persona o solo di UNA ATTIVITA’, ma vedendo lo
sconfinato oceano della bellezza
“potrà dar vita a molti e bei discorsi, a splendidi pensieri
concepiti nell’amore infinito per la sapienza finché egli stesso,
rinvigorito e arricchito, non riuscirà a scorgere che una scienza unica che
ha per oggetto la stessa bellezza.”
E a questo punto che capirà che tutto il suo percorso lo ha portato a
comprendere l’essenza reale della Bellezza , che è una cosa non particolare,
momentanea che non ha origine né fine, che è eterna innanzitutto non
transeunte e che non può essere bella per un verso e brutta per un altro,
conoscerà la BELLEZZA IN SÉ non relegata in dato corporeo o in una
convinzione o in una dottrina, mentre tutte le cose che partecipano alla
bellezza nascono e muoiono in  essa, la BELLEZZA in sé perdura eterna nel
tempo e nello spazio, lei, sì, non ha alcun mutamento. Tu pensa quale
compiutezza raggiungerebbe  il tuo essere se tu arrivassi a vedere la
bellezza in sé: e a questo punto che saresti pronto  a dar vita non a
parvenze di virtù ,  a mezze verità, ma alla virtù vera avendola di continuo
alimentata.

Questo disse Diotima parlando a Socrate non solo di Eros, ma di tutto quello
che Eros racchiude in sé.

* * * * * * * * * * * * * * *

Rileggendo questo dialogo di Platone, in tempi bruttissimi e che sono la
negazione dell’eros,
sono arrivata ad alcune conclusioni, sfrondando il discorso da cose
particolari del periodo storico, ma andando
alla ricerca del bello e del giusto, cercando di capire quello che può
essere attuale anche oggi.
Al contrario di quello che si pensa l’amore platonico non è amore idealista
ma è amore materialista dialettico, la successione delle generazione, il
concetto di bello che supera l’estetica, è vero che si  arriva al bello come
idea del bello ma questa idea è concreta, materiale, infatti si sostanzia
nella organizzazione sociale, che è BELLA SOLO SE GIUSTA, nella conoscenza
scientifica, nel progredire continuo che non è azzeramento delle esperienze
pregresse.
E poi domanda strana di una strana come me.
E’ tutto il dialogo un discorso idealista o materialista dialettico?
Il materialismo dialettico è negazione della spiritualità?
e mi sono data la risposta che:
la spiritualità vera si ha solo nel materialismo dialettico,
che si realizza con la società comunista;  può parere una contraddizione ma
di fatto, per me,  è così, levando il valore merce ai prodotti e alla
produzione e allora che gli uomini sono in grado di esprimere la loro
spiritualità interiore; infatti: non sono più alienati e possono esprimere
le loro potenzialità negate ora nella società del capitale; si eliminerà la
Penia? quella materiale sì certo, è impensabile che si arrivi ad una società
comunista in penuria e con i poveri: abolizione delle classi, ma non si
eliminerà la Penia, il desiderio dell’aspirare sempre ad arrivare ad un
stadio di completezza sempre più appagante, e dalla fase di “da ciascuno
secondo le sua possibilità a ciascuno secondo le sue necessità” si arriverà quella di “a
ciascuno secondo i suoi desideri”, e questo sarà lo Stadio della BELLEZZA IN
SÉ!
So che tanti resteranno sballati da questi miei concetti eppure io li ho
trovati in Marx!
“Supponiamo di aver prodotto in quanto uomini. Ognuno di noi avrebbe
doppiamente affermato nella sua produzione sé stesso e l’altro. Io avrò: 1)
materializzata nella mia produzione sia la mia individualità che la sua
particolarità, e avrò gioito sia di una manifestazione individuale della
vita che della contemplazione dell’oggetto prodotto. 2) Nella tua
soddisfazione e godimento per l’uso del mio prodotto io troverò un godimento
immediato, sia per la consapevolezza di aver soddisfatto un bisogno umano
col mio lavoro che per avere materializzato la mia natura umana procurando a
un altro essere umano l’oggetto che corrisponde alla sua. 3) Di essere stato
per te l’intermediario tra te e la specie umana, e per tal fatto di essere
sentito e riconosciuto da te come un complemento del tuo proprio essere e
come una necessaria parte di te stesso, dunque di sapermi affermato tanto
nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) Di aver prodotto nella mia
manifestazione di vita individuale la tua manifestazione di vita e di avere
dunque affermato e realizzato nella mia attività, direttamente, la mia vera
essenza; ossia il mio essere umano e il mio essere sociale” (Marx, Estratti
ecc. da Mills).
E poi pensando al bello e al brutto in questi tempi bruttissimi altro ho pensato
Brutto- bello: il brutto è ciò che è ingiusto e perciò è brutto e meschino, il
bello è ciò che è giusto e virtuoso, si vive quindi in una società brutta
perché ingiusta. Gli uomini però cercando la bellezza possono già
prefigurare una comunanza libera del bello che un domani sarà patrimonio
dell’umanità, anzi hanno il DOVERE di cercarla proprio perché oppressi dalla
bruttezza e di lottare contro la bruttezza di questa società.
Questo possono farlo cercando di arrivare all’amore anche nella società del
brutto, il primo passo che devono fare in questo percorso iniziatico, che
poi quello è che propone Socrate: è quello di prendere coscienza che in
questa società sono negati non solo i beni materiali, ma il bene primario,
quello che garantisce l’immortalità alla specie: l’amore. Non si sa più
amare non si sa cosa è l’amore, si è perso la concezione di amore. Da un lato
si ha il palliativo del sesso fine a sé stesso non come propedeutico alla
conoscenza dell’amore totale; dall’altro per contrappeso per mantenere
l’equilibrio sociale esistente, si hanno una serie di concetti PCI- cattolici (in
Italia), o luterani (in occidente tutto) quali: la pietà, la carità verso i
poveri, l’essere buoni ,comprensivi con tutti per arrivare alla
regolamentazione e quindi alla negazione dell’amore con le leggi. Nel mondo
islamico, di contro, abbiamo la relegazione del corpo e dell’amore in una
società che era, un tempo, eminentemente erotica.
E poi una cosa che Socrate non dice, del resto lui era uno che rispettava
fino in fondo la polis, cioè l’organizzazione sociale del tempo.
L’AMORE NON PUÒ PRESCINDERE DALL’ODIO, se si conosce il vero amore si odia
tutto quello che ti impedisce di amare, e si lotta per realizzare la società
dell’amore.
Come? Potrebbe dire Socrate, tu che finora hai parlato dell’aspirazione, della continua tensione all’Amore, alla Poesia, al Bello, alla Saggezza ora parli di Odio?
e non è l’Odio il Brutto che nega tutto il Bello e il giusto a cui l’essere umano deve tendere?
E’ come se tu finora non mi avessi seguito, si inalbererebbe Diotima, Socrate: se amore nasce da Penia nella privazione, nella mancanza, proprio perché tende alla pienezza odierà tutto quello che la sua soddisfazione nega, e ricorrerà a suo padre espediente per aguzzare l’ingegno che questo compimento totale gli nega.
Se l’essere umano cerca la felicità e di possedere la felicità, come può non odiare tutto quello che gli impedisce di arrivare alla felicità? e se lui non avesse questo sentimento d’odio per quello che gli impedisce il raggiungimento dell’ Amore e allora sarebbe nell’ignoranza totale, non a metà strada, in mezzo al guado, come ho detto e anche tu hai convenuto con me che così era! tu pensa che Odio e Amore non possono essere scissi: se desideri ciò di cui hai bisogno, come puoi non odiare chi questo bisogno che è la ragione fondamentale della vita nega?
Già hai scordato il ritratto che ti ho fatto di Amore? “mezzo selvatico, sempre, scalzo, vagabondo, mendico perenne della felicità a cui tende? e che per uscire da questo stato di mancanza suo padre gli è maestro nell’audacia, nel tramare inganni, nella  ricerca di espedienti, imbroglione ed esperto di veleni? e cosa lo spinge a questo se non l’Odio per tutto quello che non gli fa raggiungere la completezza del Bello e del Giusto?
E tutte le creature che abbiamo enumerate disposte ad ogni sacrificio anche quello della vita per assicurare la continuazione della specie, come non odiano mentre amano la loro prole chi e quello che tale fine non consente?
Così ora hai imparato, Socrate, che Amore è anche Odio. Che Amore odierà sempre quello che non gli consentirà di arrivare alla Bellezza in sé alla Bellezza eterna. Se Amore non è colui che si ama ma colui che AMA, per questo Amore odierà il brutto e l’ingiusto che contamina ciò che AMA. Se ama e ama il bene e aspira alla felicità, come può contemporaneamente non odiare chi lo ostacola in questo scopo?, ragionaci.
Ed ora abbiamo visto in modo più esatto perché alcuni uomini sanno cosa sia l’amore ed altri no. Perché questi ultimo timidi non osano arrivare alla compiutezza di amore attraverso l’odio e allora per la paura di questo sentimento potente come quello di Amore, rinunciando all’odio rinunciano anche all’amore.
L’AMORE È SOLO PER QUELLI CHE SANNO OSARE, Socrate. Costoro timidi nel loro spirito, infingardi sono coloro che si appagano nei simulacri di amore, quelli che abbiamo citato prima che seguono gli intessi, i loro affari e molti non esercitandosi all’odio, nell’arte sociale anche arrivano al compromesso che non porta ad una società compiuta nella sua Bellezza totale, non sono POETI SOCIALI, ma solo i giullari di questo o quel regime contingente.

Quindi il giovane fin dal primo gradino della sua iniziazione all’amore dovrà odiare tutto quello che reca il male e l’ingiustizia alla creatura umana scelta perché bella, pensa quanto sarà totale il suo Odio quando nei passaggi ulteriori odierà tutto quello che reca male e dolore a tutte le creature che comprenderà nel suo amore totale! e pensa come sarà potente il suo Odio quando dovrà realizzare la Bellezza totale, la Bellezza in sé.
Ammetto, direbbe Socrate, che per me che sono un uomo ligio alle leggi della polis il tuo discorso mi  resta ostico, ma in effetti come puoi apprezzare una notte stellata se non conosci lo splendore del sole? e come puoi godere della primavera se non conosci i rigori dell’inverno? tu hai ragione Diotima, gli opposto trovano ragione nel loro andare di pari passo, è dall’esperienza del confronto che nasce la verità.
La verità, direbbe Diotima, nasce da questo conflitto, che dura perenne nella natura e nella storia.
Se un essere umano si avvilisce in un amore senza odio che amore prova?  si accontenterà di un amore che amore non è, che non lo porterà alla ricerca dell’amore totale, si accontenterà di un amore che ha il  valore solo di uso, transeunte e passeggero che non lo arricchirà, né farà la felicità di chi ama, non avrà alcuna premura, alcun riguardo per chi ama, indifferente gli sarà ogni suo dolore ed ogni sua gioia, estranea. Amore invece lo porterà a condividere le gioie; odio lo farà lottare contro tutto quello che non reca gioia e desiderio a lui e all’essere amato.
E lo stesso sarà, quando salirà i vari gradi dell’amore, quando da una creatura amerà tutte le creature: odierà tutto quello che non reca gioia alle creature che ama.
Socrate, più l’Amore diventa grande e totale più totale e grande diventa l’Odio.

Sapiente Diotima, direbbe umilmente Socrate, tu mi ha fatto capire a fondo il significato vero di questo nostro essere nel mondo e nella Storia: noi per raggiungere la Bellezza totale dobbiamo anche odiare chi la nega, e solo quando realizzeremo la Bellezza Totale in sé non ci sarà più odio.

vittoria,incompatibile sempre,
che ringrazia Diotima, Socrate, Platone
con cui ragionando

ha avuto origine questa ennesia stranezza ;
 alcuni la troveranno bella;  alcuni, i più , di certo brutta.

IL SIMPOSIO DIOTIMA EROS ED ODIO | controappunto

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