Il dialogo della salute : Carlo Michelstaedter

Il dialogo della salute e altri dialoghi

A cura di Sergio Campailla

Autore

Carlo Michelstaedter  

Risvolto

Il dialogo della salute, scritto nella tradizione di Platone e di Leopardi, è il testo dove Michelstaedter ci ha trasmesso nella forma più limpida la sua visione della vita e della morte. In parallelo e in contrappunto alla Persuasione e la rettorica, ricompaiono qui molti dei suoi grandi temi, e in una forma che sa mantenere, da un capo all’altro, la leggerezza della conversazione e l’icasticità delle formule: «La vita ci toglie: questo che tu dici crudele gioco, questo è la cara la dolce vita. Mancar di tutto sì e tutto desiderare – questa è la vita. Che se non ci volgessimo al futuro ma avessimo tutto nel presente – appunto non vivremmo più. La vita sotto qualunque forma come anche sia, a prezzo di qualunque dolore si vive volentieri». A questo testo, che è del 1910, anno della morte di Michelstaedter, ed essenziale nella geografia della sua opera, si affiancano alcuni altri dialoghi meno conosciuti, come il Dialogo tra Diogene e Napoleone o il Dialogo tra il borghese e il saggio, che sono altrettante schegge preziose del suo pensiero.

http://www.adelphi.it/libro/9788845903090

 

    1. DIALOGO « DELLA SALUTE »

      _____

      I. «Dio vi dia la salute», augurò il custode del cimitero ai due amici che uscivano. Nino protestò: — Perchè irridi vecchio al nostro stato mortale? ben sai tu che a nulla ci giova la salute.

      II vecchio taceva e guardava le sue tombe.

      — Pure, disse poi crollando il capo, pure…. Dio vi dia la salute.

      I due amici uscirono e s’incamminarono in silenzio per la via deserta.

      N. ruppe il silenzio quasi continuando.

      — Parlava in buona fede — eppure il suo augurio suona irrisorio.

      Rico.

      — Tale in fatti suona a noi che non l’abbiamo la salute.

      N.

      — Ma l’avessimo anche, non essa ci salverebbe dall’estremo passo che il vecchio ha in sua balìa.

      R.

      — No certo. Ma è diverso per chi è sano e per chi è ammalato.

      N.
      — E che importa a me più esser sano o ammalato se devo morire? O se pur c’è una differenza più mi sarà doloroso abbandonare questo mondo che a me sano sarà lieto, che abbandonare un luogo di tormento per cessare nell’incoscienza il dolore del male. Chè se la morte è il supremo dei mali è per la via degli altri mali ch’io potrò prepararmi a sopportarlo.
      R.
      — Dici bene, ma dimmi: come si fa a sopportare il male? Forse che perchè io lo sopporti esso diventa meno male di quanto fosse prima o come avviene?
      N.
      — Certamente esso resta quale è, ma io non lo sento più così come prima lo sentivo.
      R.
      — Cosi dunque come il freddo è male quando il tuo corpo s’irrigidisce e il sangue non circola più e tu senti dolore a ogni estremità, ma se tu con la ginnastica e l’abitudine indurisci il corpo prima e quando ogni volta nel freddo tu non cerchi riparo, ma cerchi col movimento di far circolare il sangue, tu potrai sopportar quello senza dolore e non ti sarà più un male.
      N.
      — Così appunto.
      R.
      — E lo stesso si può dire del caldo, e delle privazioni, e della fatica, e dell’insonnia, e di tutte le altre cose simili.
      N.
      — Certo.
      R.
      — Ma dimmi se ciò che può esser male e può non esser male, può esser male per me e non esser male per te, e per me può esser male talvolta e talvolta no, lo possiamo chiamare male (per sè stesso) — così da esser male sempre e per ognuno, e da ammalare chi ne sia affetto?
      N.
      — No certo.
      R.
      — Ma chiameremo invece tristo e (in sè) ammalato colui cui è male ciò che per gli altri non è male, poichè con la sua presenza fa diventar male ciò che non è male.
      N.
      — Così sembra anche a me.
      R.
      — Vedi ora se come per il corpo sano le cose delle quail parlavamo non sono mali, ma per l’ammalato, non siano cosi anche tutte le altre cose per le quali gli uomini si dolgono come la solitudine, l’oscurita, la povertà, la cattiva opinione del prossimo e tutti i mali del corpo e il supremo male infine la morte — per l’uomo tristo bensì mali, per l’uomo sano cose indifferenti?
      N.
      — Io sono con te finchè tu fai il parallelo fra le cose che il corpo sano sopporta e il corpo invalido fugge come a lui perniciose, e quelle cose del mondo esterno che se affliggono l’animo debole non toccano l’animo forte; e fin qui ben credo che la salvezza dell’uomo sia in quella salute che il vecchio ci augurava. 2. Ma ci son cose che distruggono la salute stessa e del corpo e dell’anima, contro le quali nè forza fisica vale nè animo libero, cose che ti tolgono appunto questa libertà e questa forza e ti tengono debole e miserabile in lor balìa. Che ti valgono le membra pronte e sicure con lungo studio a ogni lavoro esercitate e indurite a sopportar gli insulti delle intemperie, se un accidente qualsiasi, se una malattia può rendertele per sempre e deboli e dolorose, e in brev’ora del tutto la vista e il godimento di questo caro mondo? Quale forza fisica o quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte? No: val meglio coglier l’attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso.
      R.
      — Bene! io ammiro come ciò che dici tu assomigli cosi a ciò ch’io vedo, che mentre parli parmi quasi parlar io per tua bocca. E come uno per ciò che con le mani o con l’orecchio avverte si fa più sicuro di ciò che appare all’occhio, cosi io trovo nelle tue parole la riprova di ciò ch’io ho sempre creduto capire pur non essendo sicuro del mio possesso. — Ma, per Dio, ora che ho assaporato questa gioia io non ti lascerò finchè non avrò vuota la coppa. Poichè che mi giova ch’esso sia in parte sicuro il mio possesso se non è in tutto? Per piccola che sia l’apertura ci sfugge il nostro comune possesso, ed io mi sento nuovamente vuoto ora, e mi pare che quanto io t’ho detto e quanto tu m’hai detto sia tutto inutile perchè non è tutto. Non pensi anche tu questo?
      N.
      — Si anch’io lo sento.
      R.
      — In ciò che tu hai detto c’è pur sempre qualche cosa di diverso da quant’io dicevo; e io non posso a meno di sentir tutto quanto hai detto come contrario a me per quanto tu abbia detto cose simili a quanto io penso. Via! poniamo qui insieme tutto ciò che ci par giusto e cerchiamo di renderlo tutto identico, chè nè io avrei più pace senza questo, ma mi sembrerebbe d’esser diverso da me stesso, anzi a me stesso contrario — nè tu, com’io credo.
      N.
      — No di certo. Ma io ho detto or ora ciò che mi sembra giusto cosi che non ho che dire. Va tu innanzi.
      3. R.
      — Bene: tu hai parlato di accidenti, di malattie, come di mali reali, che per la loro presenza ammalano chi li ha per sano che fosse prima, e della morte come del male supremo che ci toglie non pur la salute ma insieme toglie ogni valore alla distinzione fra salute e malattia. — È così?
      N.
      — Appunto.
      R.
      — Ora dimmi: sai tu indicarmi la malattia cosa sia? Poichè se son mali bisogna bene che siano qualche cosa.
      N.
      — Certamente: quali la tisi o la pulmonite o il tifo….
      R.
      — Bene — ma ognuna di queste che cos’e?
      N.
      — Dicono che siano bacilli.
      R.
      — Ma questi bacilli come sono essi dei mali, che cos’è il loro esser mali?
      N.
      — Perchè sono perniciosi all’uomo.
      R.
      — Allora sono mali quando l’uomo li ha addosso?
      N.
      — Certo.
      R.
      — Ma quando non sono addosso all’uomo non sono nè mali nè beni.
      N.
      — Di necessità.
      R.
      — Allora nuovamente abbiamo bensì uomini ammalati, ma non abbiamo il male. Ma dimmi, gli accidenti cosa sono?
      N.
      — Sono dei mali.
      R.
      — Ma è forse l’accidente una cosa che sta per sè, o è una qualità di qualche cosa?
      N.
      — No, ma è quando due cose si toccano così che una riesca perniciosa all’altra o il contatto pernicioso ad ambedue.
      R.
      — Anche qui dunque abbiamo una o due vite guastate in modo da non poter viver così come prima vivevano, ma il male non l’abbiamo.

      E la morte infine, t’è mai accaduto d’imbatterti nella morte?

      N.
      — Perchè vuoi essere ingeneroso con me, e infierire contro il mio errore mentre io non v’insisto?
      R.
      — Perdonami, non era questo nelle mie intenzioni; ma combattevo forse con troppa acrimonia — contro l’errore appunto perchè lo sentivo ormai staccato da te e vedevo invece come tu procedevi con me e a volte mi precorrevi nella direzione presa.
      N.
      — Lo credo volontieri. Ma prosegui.
      R.
      — La morte dunque a sua volta ci si dissolve in mano, e crediamo parlar della Morte, quando parliamo di questa o quella cosa alla quale è tolto di continuare nel futuro così come era prima. Non mali che colpiscono uomini sani, ma uomini tristi e mortali, che secondo la loro natura s’ammalano e muoiono.
      4. N.
      — E sia pure! lasciamo la morte e il male, fantasmi inconsistenti. Ma, per Dio, chi si sente gelare mani e piedi, non può mettere in dubbio che il freddo non sia un male certo; e per l’uomo che ha mezzi polmoni consunti, la buona tisi è la perfida invitta nemica; e colui che le persone amate e le sue cose care si sente per sempre strappare, e questi monti luminosi, e questo azzurro del cielo, e questi verdi piani, e questo mare scintillante vede impallidire e spegnersi nel tramonto che non ha aurora — quegli non si chiede la morte che sia, e se sia un male anche per gli altri o un bene; ma questo solo sa che niente gli vale più della vita, perchè niente può dargli ciò che il cessar della vita gli toglie.
      R.
      — Tutto ciò è ben così come dici; ma da ciò quale massima trai per la vita?
      N.
      — Quale massima? Nessuna massima! quando ogni argomento è impotente davanti alla sorte che ci oltraggia — ma vivete e godete, che il tempo stringe, e l’ora s’avvicina che ogni cosa vi sarà tolta!
      R.
      — Dunque pur sempre una massima! Ti ricordi come hai combattuto l’augurio del buon vecchio prima giù nella valle fredda del cimitero? Tu parlasti allora d’una vita visitata da tutti i mali che ci insegnasse a sopportar l’estremo male, la morte ineluttabile.
      N.
      — È vero mi sono contradetto, ma….
      R.
      — Più a parole che in realtà. Difatti come prima così ancora ti ribelli all’inconcepibile passaggio dalla vita alla morte; ed e questa la giusta ribellione dell’uomo che vive. Soltanto che nella valle senza sole adattavi secondo la tua fantasia la vita alla morte; ora che questa luminosa natura ha riaffermato in te i suoi diritti vitali, vuoi quasi col godimento esaurire la vita prima di morire.
      N.
      — Può ben esser così.
      5. R.
      — Bene: è più giusta questa posizione per l’uomo. Noi abbiamo parlato del male e della morte, e non siamo giunti a dire cosa sono e perchè siano da maledire, ma soltanto che ci tolgono il godimento delle cose della vita. Per saper dunque il male temuto dagli uomini che sia, bisogna ben che vediamo che cos’è questo bene, che l’esserne privi è un male si grave. Dice il poeta che ogni uomo cerca morendo la fuggente luce. Cosi tu prima girando lo sguardo amoroso intorno, hai parlato del dolore d’abbandonare tutto ciò. Abbandonare? è forse tuo tutto ciò?
      N.
      — Mio no, secondo il diritto, ma mio più veramente.
      R.
      — Come questo? forse che s’io ne tolgo un pezzo to non sei più quello che eri?
      N.
      — No certamente. È mio perchè lo vedo e mi rallegro.
      R.
      — Se l’hai visto e ti sei rallegrato, che ti toglie più lo spegnersi della luce?
      N.
      — Mi toglie di vederlo ancora.
      R.
      — Allora quanto vedesti in passato non t’è mai bastato.
      N.
      — No certamente, ma è sempre come fosse una cosa nuova.
      R.
      — Nè quanto ora vedi ti basta?
      N.
      — No. Ma ho sempre desiderio di vederlo ancora.
      R.
      — E credi che in futuro lo potrai mai contemplare a sazietà?
      N.
      — Credo che la cosa non potra mai esser diversa da qual è ora.
      R.
      — Bene dunque dice l’Ecclesiaste: l’occhio non s’e mai stanco di vedere. Che hai dal più guardare se per quanto guardi non puoi mai dire: ho visto? E similmente le cose che tu dici tue come sono tue?
      N.
      — Sono mie perchè nessuno me le può prendere.
      R.
      — Tue allora come sarebbe tuo un campo se lo avessi?
      N.
      — Così.
      R.
      — Pure il campo è tuo anche quando tu non lo tieni.
      N.
      — Ma lo tengo di diritto, lo tengo perchè posso farne quello che voglio mentre gli altri non lo possono fare.
      R.
      — Allora tuo non è il campo, ma tuo il diritto di fare di lui quello che più ti piace, cioè la sicurezza che altri non può farlo invece tua e impedire te dal farlo. Ma tu solo puoi coltivarlo e trarne i frutti che ti sono utili! — Il campo ti rappresenta la sicurezza di questi frutti nel futuro.
      N.
      — Appunto. E i frutti sono miei.
      R.
      — Tuoi come ogni altra cosa che altri non ti possa prendere: la sicurezza che altri non ti torrà d’usarne.
      N.
      — Certo.
      R.
      — Ma ora ammettiamo che tu viva nel paese dell’abbondanza, dove il peso delle frutta schianta i rami degli alberi, dove, purchè tu allunghi le braccia, ed il pasto delizioso è pronto; e la terra è così ricca e il sole così generoso, che ogni cosa germoglia da sè senza la fatica dell’uomo; dove le bestie s’adagiano ai piedi dell’uomo perchè questi ne faccia quanto più gli aggrada; dove gli uomini vivono in continuo riposo godendo l’uno dell’altro e godendo ognuno della natura, senza leggi che limitino a ognuno il suo diritto, poiche la terra largisce a ognuno più di quanto gli occorra senza chieder niente — dimmi non prenderesti ogni tua cosa con lo stesso piacere dalle mani prodighe della natura che dalle avare mani della legge umana?
      N.
      — Certo con più piacere.
      R.
      — Poichè la ricchezza della natura ti darebbe ben più valida sicurezza pel futuro che la legge degli uomini.
      N.
      — Certamente.
      R.
      — Epperò in quel beato paese ti diresti più ricco che qui, e più cose sarebbero tue.
      N.
      — Senza dubbio.
      R.
      — Dunque la questione del diritto non ci determina la proprietà che in riguardo alla sicurezza verso gli altri uomini. Quando di questa non abbiamo più bisogno anche il diritto perde ogni significato. Come è dunque tua una cosa tua, se prescindiamo da ciò? Che ti serve che essa sia tua? che te ne fai?
      N.
      — È mia perchè essa stessa mi rappresenta in sè la sicurezza di poter o mangiandone soddisfar la mia fame, o usandone in altro modo provvedere in futuro ai miei bisogni.
      R.
      — E se usatone una volta la cosa non ti serve più, ci tieni ancora a dir che è tua?
      N.
      — No certamente.
      R.
      — Dunque è tuo ciò che t’è caro e t’è caro ciò che potrà in futuro soddisfare un tuo bisogno.
      N.
      — Precisamente.
      R.
      — Tuo è ciò di cui non puoi fare a meno. Ma se tu non ne puoi fare a meno, non tu le hai in tua potestà, ma esse hanno te, e tu dipendi da loro che non puoi sussister senza di loro. E le persone care non forse allo stesso modo ti sono necessarie e tu sei necessario a loro, ma il vostro amore non c’è chi lo possa saziare — nè baci, nè amplessi, nè quante altre dimostrazioni l’amore inventi vi possono compenetrare più l’uno dell’altro? Ma sempre vi tiene un eguale bisogno vicendevole. Così ogni cosa è nostra solo perchè ne abbiamo bisogno, solo perchè ne usiamo; e mai abbiamo usato così delle cose della vita, da non desiderare alcuna cosa, ma d’aver la nostra vita in noi. Perchè non possediamo mai la nostra vita, l’aspettiamo dal futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono care perchè «contengono per noi il futuro», per essere anche in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora avidamente alle cose care per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di tutto. Finchè la morte togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga, se nulla abbiamo. Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo.
      6. N.
      — La vita ci toglie questo che tu dici crudele gioco. Questo è la cara, la dolce vita: mancar di tutto sì, e tutto desiderare — questa è la vita. Che se non ci volgessimo al futuro, ma avessimo tutto nel presente, appunto non vivremmo più. La vita sotto qualunque forma, come anche sia, a prezzo di qualunque dolore, si vive volenlieri.
      R.
      — Si vive volentieri, cioè si vuol viverla; come l’acqua vuole il basso e senza alcuna forma casca, scorre, filtra, purchè scenda. E dove s’arresta, e quando, così che senza impedimento abbia abbastanza della discesa?
      N.
      — Ma purchè scenda gode.
      R.
      — Ma in ogni punto della sua discesa tu la puoi immaginare ferma con un infinito desiderio del più basso. — Dove allora la soddisfazione?
      N.
      — Ma lo scendere stesso è dolce in ogni istante, come m’è dolce veder la natura, anche se non mi so mai saziar di vederla, e m’è dolce il cibo, anche se in breve riavrò fame. E questo è la soddisfazione.
      R.
      — Hai mai visto un bue beccar grano o un gallo ruminar fieno?
      N.
      — No davvero.
      R.
      — E come mai?
      N.
      — Ma nemmeno lo potrebbero.
      R.
      — E se lo potessero?
      N.
      — Non lo farebbero in ogni modo, perchè al gallo piace il grano, al bue il fieno.
      R.
      — Hai mai visto un bue fare un’indigestione di fieno?
      N.
      — No.
      R.
      — E come lo sa?
      N.
      — Ma prende tanto quanto non gli possa far male.
      R.
      — Resta sempre quello che hai detto: vuol dire che lo prende perchè gli piace.
      N.
      — Sì.
      R.
      — Allora e forza dire che gli piace fin tanto che non gli fa male.
      N.
      — Sì.
      R.
      — E se ne va via con la fame?
      N.
      — No.
      R.
      — Dunque gli piace quello appunto che è fatto pel suo corpo e tanto quanto. E quando corre, salta, va a bere al ruscello, insegue un altro animale o dorme, si prende la femmina e ne usa, credi che tutto ciò gli sia dolce, piacevole, o che gli sia di peso?
      N.
      — Credo che se non gli fosse piacevole non lo farebbe.
      R.
      — Ma anche ognuna di queste cose gli è un piacere?
      N.
      — Appunto.
      R.
      — Ed e perciò che una bestia libera non corre mai fino a perder le forze, nè s’indebolisce nella pigrizia, nè scoppia per troppo nè muore di sete, nè si riduce all’impotenza per l’astensione dal giacere, nè s’esaurisce nell’abuso, nè insegue e ammazza tutti gli animali che incontra, nè si lascia venire a mancar il cibo; ma il piacere le insegna ogni cosa con mirabile esattezza come e quando e fin dove sia da fare.
      N.
      — È ben per questo ch’io dicevo le lodi del piacere.
      7. R.
      — E lodi gli si convengono, poichè è onnisciente e onnipotente come un dio. Non ti par cosa degna della nostra maraviglia questa sua sapienza e questa onnipotenza, e degna che vediamo, a rischio di parere anche irriverenti, con quali mezzi egli viene a conoscere le vie segrete nel futuro d’ogni vivente, con le quali egli avvia ogni fedele irresistibilmente?
      N.
      — Certo tale mi pare.
      R.
      — Io credo che egli abbia a mano ogni disposizione del corpo e tutta la varietà delle cose. E benevolo al corpo, egli metta nelle cose che gli sono utili una luce, e la faccia brillare fin quando la cosa è utile, e poi la spenga così che la cosa resti oscura all’animale che se n’è sazio. In quella luce brilla tutto il futuro dell’animale: nel mangiare la possibilità del bere e d’inseguire un altro animale e del giacere; e nell’inseguire un animale in corsa la possibilità del mangiare e del bere ecc. Vi brilla così ch’egli crede potente soddisfare tutto a un tratto. Ma il dio sapiente spegne la luce quando l’abuso toglierebbe l’uso, e fugge. L’animale così sazio solo in parte si volge dove gli appaia un’altra luce che il dio benevolo gli accenda. E quando vede questa, vi contende con tutta la sua violenza, finchè ancora la luce si spegne per rinascere in un altro posto. Per tal modo, prendendo la forza di tutti gli altri bisogni dell’individuo, suadendolo ogni volta con argomenti della sua stessa vita, il saggio dio lo conduce attraverso all’oscurità delle cose con la sua scia luminosa, perchè egli possa continuare. Cosi l’animale ogni volta vede la cosa come sua, e vi si slancia per saziar tutta la sua fame, riprendendo l’esempio dell’acqua — per cader tutto. Invece non sazia che la fame in rapporto a quella cosa; ma gode nella proprietà dell’atto tutto sè stesso. Ἄνθρωπος ἐν εὐφρόνῃ φάος ἅπτεται ἑαυτῷ. Egli s’aggira bene nell’oscurità, ma gode via via della propria luce per opera del saggio e benevolo Iddio.1
      N.
      — Μὰ τὸν Δία! Tu hai fatto l’apologia che io non sapevo e avrei voluto fare. Invochiamo dunque il nome del dio e sacrifichiamo ai suoi altari! Che c’importa dell’oscurità, purchè il dio ci largisca i suoi favori!
      R.
      — Εὐφήμει! Male inauguri il rito. Il primo articolo della sua fede è questo: Non m’invocare!
      N.
      — Non ti capisco più.
      R.

                   È il piacere un dio pudico,
      fugge da chi l’invocò;
      ai piaceri egli è nemico,
      fugge da chi lo cercò.

      Egli ama quei che non lo invoca,
      egli ama quei che non lo sa,
      e dona la sua luce fioca
      a chi per altra luce va.

      Chi lo cerca non lo trova,
      chi lo trova non lo sa;
      il suo nome mette a prova
      questa fiacca umanità.

      È il piacere l’iddio pudico
      ch’ama quello che non lo sa:
      se lo cerchi se’ già mendico,
      t’ha già vinto l’oscurità.

      N.
      — Tu canti enigmi. Io non ti intendo più.
      R.
      Perdona! Io stavo recitando il vangelo del dio.
      N.
      — Ben vedo che son profano.
      R.
      — Non sei profano, poiche meglio l’onora chi vive secondo il suo vangelo senza saperlo.
      N.
      — Ad ogni modo ora mi devi una spiegazione. Non mi respingere.
      8. R.
      — Bene, procurerò di dirlo quanto più posso in breve. La volontà apparisce nel mondo sempre come volontà di cose determinate. Il complesso di volontà di cose determinate è una vita organica. L’organismo si determina via via in rapporto alle diverse cose; ma ad ogni determinazione inerisce il senso che essa avviene non per sè, ma in quanto è necessaria alla continuazione dell’organismo. Questo è il sapore dolce che ha ogni cosa della vita, ed è la voce di tutte le altre cose verso le quali l’organismo si determinerà in futuro. In quanto una cosa è piacevole, tutta la persona vi è in atto. E come contende alla cosa come sua, così ne ritrae l’illusione dell’individualità. Ciò che a me piace, ciò che m’è utile — questa è la mia coscienza, questa è la mia realtà. Cosi la realtà ὀνομάζεται κάθ’ ἡδονὴν ἑκάστου (è detta secondo il piacere di ogni singolo). Mentre a chi la riguarda dal di fuori, la volontà determinata nei suoi centri diversi appare nella sua correlatività variare come quando l’incenso si mescola con l’incenso, ἀλλοιοῦται ὅκωσπερ ὁπόταν θυώματα θυώμασι (ERACLITO). Ogni individuo ἐν εὐφρόνῃ φάος ἅπτεται ἑαυτῶ, nella notte accende a sè un lume (ERACLITO). Ogni individualità che vuole essere, e diviene invece nel tempo, è attuale in ogni istante con tutta la sua volontà. Il piacere e il dolore esauriscono la vita, ἡδονῇ ὁ κόσμος κοσμεῖται καὶ τῇ λύπῃ.
      Ogni atto le dice: tu sei.Ma se gli atti non hanno più per l’individualità questo significato, se ognuno ha perduto il sapore, essa sente la morte in ogni istante della vita, poichè le manca il continuo mormorio delle cose che le dicono: tu sei.Infatti essa è meno, se l’esistenza nel mondo non si misura altrimenti che per l’estensione nel tempo e nello spazio. Poichè non più ora per lei cose varie e lontane in vario modo contengono promesse per un futuro lontano, così che ognuna per l’altra si determini o dall’altra sia determinata — ma l’organismo è sciolto e spostato: la vita è disorganizzata. Ha perduta la salute. È ben perciò che nella salute sta tutto il piacere, ἐν ὑγιείᾳ πᾶσα ἡδονή.
      Ed è perciò che dice Simonide:

       Nè bene alcuno ci vien dal sapere
      se la salute veneranda manchi.

      Ed ora intendi meglio il seguito:

       Poichè senza il piacer qual più ci alletta
      vita mortal o qual poter sovrano,
      senza cui più non è degna d’invidia
      pur la vita d’un dio?

      Chi ha perduto il sapore delle cose è malato. Il malato ha perduto il sapore d’ogni cosa, poichè sapore altro non è che il senso dell’utilità della cosa alla salute. E come s’egli già fosse, non più vuole le cose, ma vuole il sapore che non ha più, mettendosi e rimettendosi nelle posizioni saporite conosciute da lui prima, o che agli altri prodighe di piacere egli venga a conoscere. Egli è come colui che vuol veder l’ombra del proprio profilo — che volgendosi la distrugge. Già dunque quando si parla comunemente dei piaceri come di posizioni determinate che dànno piacere, siamo oramai nella posizione ammalata. Andiamo a cercare il piacere per sè, a sfruttare la nostra posizione verso una cosa, per avere un sapore che in quanto lo andiamo a cercare non lo abbiamo più. Vogliamo goder due volte di noi. Non più godo — perchè sono, ma son io che godo, e in realtà non godiamo più.
      9. N.
      — Ma allora ha vantaggio chi è illuso su chi non è più illuso — le persone che attribuiscono valore a quelle stesse cose che tu prima dicevi non aver valore.
      R.
      — Ben lo credo con te che il non illuso ha più valore dell’illuso. Ma dimmi chi è che non è illuso affatto?
      N.
      — Quello che non dà più valore alla vita.
      R.
      — Alla vita degli altri o alla propria?
      N.
      — Nè a quella nè a questa.
      R.
      — In ogni modo dunque non dà valore nemmeno alla propria?
      N.
      — No.
      R.
      — Mi sai indicare un vivente che non dia valore alla propria vita?
      N.
      — Non saprei.
      R.
      — E bene non sai, poichè non dar valore è identico a «non volere». Ogni vivente qualche cosa domanda, o è in lui qualche cosa che domanda, anche soltanto le parti del corpo disorganizzato: e chiunque domanda qualche cosa alla vita per quel tanto è illuso. E non c’è vivente che non domandi. Poichè dimmi, il tuo uomo superiore alle illusioni come passa il tempo?
      N.
      — Gode quanto sa e può.
      R.
      — Se il piacere l’abbiamo definito come il contender ciò che contiene per l’organismo la promessa del futuro, e questo tu consideri come illusione indegna, non so come possa godere lui che mangiando non gioisce della futura forza delle membra, e le membra non lavorano per la bocca, ed ha cosi anche tutte le altre parti in egual modo dimentiche l’una dell’altra.
      N.
      — Ma ognuna gode per sè, il sapore buono delle cose pel sapore stesso.
      R.
      — Dunque non vive lui, ma vive in lui la voce d’ogni singola parte. La sua coscienza, se riguardiamo anche solo al corpo, non è più la coscienza d’un corpo, ma è disgregata e ridotta alle singole parti — se pur ci teniamo fermi a quanto abbiamo più volte stabilito, che al di fuori del piacere nessuna cosa ha valore per noi, che dunque tutta la coscienza dei valori non è altro che il piacere stesso.
      N.
      — Sia pure, poichè certamente se non è piacevole non c’e cosa che valga. E che ci giova  privarci di ciò che comunque ci possa far piacere? È la conoscenza del perpetuo fluir delle cose che c’insegna a fruire delle cose nell’attimo che non ritorna.

      Quanto è bella giovinezza
      che si fugge tuttavia,
      chi vuol esser lieto, sia!
      del doman non v’è certezza.

      A me pare che se pur la vuoi chiamare illusione, val meglio questa lieta e obliosa d’ogni altra che fingendo una saggia cospirazione a un valore più alto, delude via via la tua aspettativa, traendoti pur sempre attraverso un duro cammino illuminato da poche gioie all’annientamento finale. L’uomo liberato per la sua conoscenza da ogni illusione di valori immaginari, saprà trar lieta la vita godendo per quanto dalla natura delle cose gli a consentito.

      R.
      — È giusto quanto dici, ma pur vediamo questa natura delle cose se più conceda di piacere a chi, con questo furbo calcolo, voglia prenderle di più di quanto essa è solita a dare. E considera allora un corpo che volgarmente lavora, e nel lavoro sente il lieto gioco d’ogni sua parte; e se gli nasce l’appetito, dell’appetito stesso gode in previsione della prossima soddisfazione; e che mangiando sente che il cibo gli è buono, e ne gode il dolce sapore che promette la continuazione. E così di tutti gli atti che compie sente che ognuno è buono per lui, poichè in ognuno è il piacere che prevede e preoccupa il futuro in giusto ritmo, cosi ch’egli non abbia a preoccuparsene con cura penosa. Un tema musicale nelle sue giuste variazioni.
      N.
      — Lo considero, e mi sembra pur sempre cosa sconsolata, poichè non giunge a ciò che vorrebbe — e la consolazione appartiene al suo essere illuso. Ma prosegui.
      R.
      — Mettiamolo ora in contrattempo o in fuga, precipitando il ritmo in caccia cosciente dei piaceri secondo che tu dici.
      N.
      — Mettiamolo.
      R.
      — Ora la bocca non lavora più per il corpo ma lavora per sè, l’occhio non considera più le cose vicine e distanti a difesa del corpo, ma si dà alla pazza gioia per il proprio gusto, così l’orecchio, cosi il tatto. Le membra a loro volta rifiutano la fatica, e ognuna per quarto sa e può ricerca e moltiplica quelle cose, che le facevano piacere prima nel servizio del corpo ora che hanno fatto sciopero — e ognuna le ricerca per sè. Ma avviene uno strano fatto: quella dolcezza che c’era prima non c’è più, poichè apparteneva al corpo e alla sua continuazione. Ognuna delle parti prova delle amare delusioni che minacciano di guastarle la festa. La bocca trova che il pane e la carne sono ben insipide e volgari, e si mette a studiare sfruttando le proprie esperienze fatte nel duro tempo del servaggio; va a cercare il dolce per sè e il salato, e l’allegante per sè, e non si sazia di zucchero e di cose piccanti e di vini, quando anche questo le diventa in breve stupido, e lo zucchero la intorpidisce, le cose piccanti la bruciano, i vini e le sorbe la allegano. Crea delle geniali fantasie delle più ardite unioni, ma non trova mai quella che la soddisfi. Le dà gioia solo la prospettiva d’averla; quando la consuma lavora invano di lingua e di denti a sciogliere e impossessarsi del sapore — tutto inutile, il sapore se ne scende giù nello stomaco nemico con la cosa saporosa e bisogna prenderne dell’altra…. Così l’occhio medita tutte le varietà di colori vivaci, di luce d’ombre, ma nessuna è quella che lo sazi: chè il saziarsi dell’occhio sarebbe non più vedere. E così ogni altra parte secondo il suo potere mette in moto tutte le più abili macchine di godimento — invano. Ognuna rinnova a sua volta ciò che il corpo ha fatto per sè e il piacere sfugge sempre: la sua legge non muta. Ma la fame insaziata perdura pur sempre; e la sua legge è il godimento. E ancora le singole parti si disgregano nei loro elementi chimici più piccoli più piccoli: chè ognuno vuol vivere per sè. L’individualità si dissolve infinitamente; e infinitamente fugge il piacere. Se la coscienza del corpo rifletteva un dato tempo e una determinata varietà di cose, ora siamo giunti come tu dici all’attimo e al punto nello spazio. Non è più innanzi a noi una determinata forma, ma un fluire d’atomi.
      N.
      — Ma tu parli per metafora. In realtà noi vedremmo sempre un corpo.
      R.
      — Ah no! Ciò che appariva all’occhio e occupava un dato spazio, non era altro che un nucleo di disposizioni organizzate. La mala cupidine della vita gli ha fatto perdere ogni consistenza: φιλοψυχία παντοῖα γέγονε πρὸς τὸν βίον. Il corpo se consiste per la coesione delle molecole, perduta la solidità, si versa liquido sulla superficie del suolo e filtra in ogni fessura, più e più basso, purchè scenda ogni goccia per sè. Noi diciamo del gaudente che è un uomo senza solidità; i nostri padri dicevano che liquescit voluptate. Non più nè un tema con variazioni nè una fuga, ma quasi musica di Strauss. — Ma perchè scenda non però s’è mai soddisfatto; chè mai non sarà tanto disceso che non gli resti infinita la volontà di scendere. Il destino si prende pur sempre gioco di lui.
      10. N.
      — Pure io mi meraviglio come in questa dissoluzione gli uomini comuni pur persistano tali quali noi li vediamo e qui e altrove.
      R.
      — Ma certo non ti fa meraviglia il legno d’un albero tagliato.
      N.
      — No, ma questo che toglie? l’albero tagliato è morto come albero, e il suo legno mi serve.
      R.
      — E cosi ti servono anche gli uomini che mi getti in faccia.
      N.
      — Ma quelli sono sempre uomini e vivi; l’albero è morto, non è più albero.
      R.
      — E il legno è vivo o è morto?
      N.
      — Sarà vivo perchè pesa, perchè occupa uno spazio per quel tanto che esiste, ma non trae più la linfa dalle radici per portarla alle fronde, nè del respiro di queste avviva le radici — insomma non è più un albero.
      R.
      — Ebbene, questi son uomini come quel tronco reciso è un albero vivo. Corpi sono che noi vediamo e si muovono e gestiscono — non uomini.
      N.
      — Ma tu ne avevi disgregrato il corpo perchè dedito al piacere, ed ora glielo ridoni. — E pur sono dediti al piacere.
      R.
      — Non tutti affogano nella stessa acqua. Dove un nano affoga un uomo normale non affogherebbe; ma quando l’acqua gli giunge alla bocca, non affoga meno di quanto affoghi il nano. A ognuno la preoccupazione del piacere e l’acqua alla gola. Cercano il piacere per altra via e il loro corpo nè gode, nè vive, ma vegeta. Cercano il piacere per altra via, e per altra via soffrono e si vedono giocati pure in ciò che contendono.
      N.
      — Ma non sono tristi o preoccupati tutti che non attingano alle altezze eccezionali, ma contenti di sè e disposti alla gioia e lieti di compagni e amici e amanti….
      R.
      — Poichè la ricerca del piacere del corpo è la vanità solitaria, la ricerca del piacere intellettuale è la vanità sociale, che arde di fiamma vicendevole.
      N.
      — Come c’entra qui la vanità e l’intelletto?
      R.
      — Tanto quanto la compagnia e la ricerca del piacere attraverso a questa κοινωνία κακῶν.
      N.
      — Ma è in questa che l’uomo appare quale è, uomo.
      R.
      — Certamente, purchè si sostituisca ad appare «vuole apparire». La musica dolce alla vita che le cose sussurrano all’uomo sano, che ognuna egli vede come sua e ognuna gli dice «tu sei» — manca al malsano che ricerca le posizioni che gli diano questo conforto. Egli chiede ai sensi non le cose per quanto gli valgono, ma quanto essi richiesti non gli posson dare: il senso di questo valore. La sua persona che non risplende in ogni atto vuol dai sensi la luce falsa che adulando le dica quello ch’essa non è più. — Per l’orrore del vano il vanitoso invano chiede ciò che già non è più, e sempre più vano facendosi degenera. Così il corpo che non è più nel giusto punto riguardo alle cose necessarie alla sua continuazione, quando si mette per la via della vanità, non riacquista la salute perduta, ma la distrugge per sempre. Così quando uno chieda un valore più forte e duraturo, una persona che gli altri temano, rispettino, amino, e non ne gode negli atti e per gli atti che compie, ma pur lo chiede agli altri come testimonianza della sua persona che non è, quello è condannato alla triste via d’una degenerazione peggiore di quella del corpo. Non avendo alcun amore per una cosa egli pur deve fingerlo, per esser «quello che ha quell’amore». Egli vive in un desiderio irriducibile e vano.
      N.
      — Ma se la gente tutta lo consideri per quello che egli vuole, tu vedrai ch’egli se ne dirà soddisfatto. Vedrai, e vedi già da quale parte che guardi. Non pochi gli ambiziosi come tu pur concedi, e non certo i meno premiati.
      R.
      — Ma quale è il premio?
      N.
      — D’essere in fatti quello che essi ambivano.
      R.
      — Come in fatti?
      N.
      — Nel nome, nel rispetto nell’amore anche.
      R.
      — Sicchè tutti che hanno un nome, sono anche tali che a loro vada giustamente quel rispetto e quell’amore?
      N.
      — Non dico questo. Ma questo che importa a chi porta il nome, purchè gli venga?
      R.
      — Viene dunque a lui come a quelli che dopo di lui porteranno il nome stesso o che contemporaneamente lo portano.
      N.
      — Perciò egli è lieto del nome che gli assicura per sempre questa devozione.
      R.
      — Che appartiene al nome e non a lui.
      N.
      — Sia pure.
      R.
      — Come è egli allora in fatti ciò che voleva essere, se lo è solo di nome?
      N.
      — Perchè il nome è il suo nome, e la devozione va di fatto a lui.
      R.
      — Se tu rappresenti Romeo, sei lieto dell’amore di Giulietta?
      N.
      — No, perchè so di non esser Romeo.
      R.
      — E se porti un nome, sei lieto dell’onore che a quello si tributa, che porti bensì, ma lo sai diverso da te?
      N.
      — Ma la commedia dura tutta la vita e mi dà per sempre diritto a quell’onore.
      R.
      — E l’onore che ci vien tributato, perchè ci fa piacere? forse perchè quella persona o quell’altra ci onora, o perchè il tributo contiene un giudizio su di noi?
      N.
      — Perchè contiene un giudizio.
      R.
      — Un giudizio che ti dice tu sei, e ti conforta col piacere dell’esistenza. Ma se tu sei zoppo, e lo sai che non puoi camminare, che piacere ti fa il giudizio della gente che ti dice che tu cammini meravigliosamente?
      N.
      — Eppure…. Eppure….
      R.
      — Eppure gli uomini ci tirano, e ne sembran lieti. Volevi dir questo?
      N.
      — Si, proprio.
      R.
      — Certo tanto si mostran lieti quanto ci tirano e quanto in fatti non lo sono. Poichè la necessità della posa obbliga. È così che gli uomini vani fuggono la solitudine come la malaria — poichè da soli si è come si è soltanto per essere, e in breve si sentono sbatter dentro nel vuoto il desiderio informe, come un pipistrello in una caverna. E allora ogni persona è ancora una volta il mondo, in quanto giovi per mostrarsi così come vorrebbero, e tentar di ricavarne la dolce illusione d’esser qualcuno. Essi considerano i loro simili come specchi compiacenti, che raddoppino la vita. Ma il nulla non si raddoppia. E gli uomini s’affannano a parlare, e con la parola s’illudono d’affermare l’individualità che loro sfugge. Ma gli altri vogliono parlare e non ascoltare; così l’un l’altro macella e contraddice. Non importa loro che la cosa sia detta, ma ad ognuno importa d’esser lui ad averla detta. E ben perciò che le particelle introduttive del discorso hanno preso le armi e son divenute avversative. Quanto un uomo è vano, tanto ha bisogno di parlare; quanto gli manca in realtà il giusto sapore dei suoi atti e quella coerenza dell’intima εὐλάβεια, tanto è necessitato a parlare per affermarla pel fatto stesso che enumera le cose. Raccontando gli atti più meschini della sua vita, egli presume d’essersi costituito una persona. Un buon giocatore di scacchi tace, che in ogni mossa gode il proprio piano; parla invece chi vuol illudersi d’averlo. Ma il solo parlar nulla rivela. Meno ancora se non trova orecchio compiacente che gli conceda la momentanea illusione. Per la cura di questa nascono le κοινωνίαι «intellettuali» con la tacita intesa della vicendevole compiacenza. Ognuno dà perchè gli sia dato. E ognuno, se racconta la sua vita sciagurata e i fatti dolorosi di cui porta la colpa e le conseguenze, trova nella compiacenza dei compagni integra almeno l’illusione della sua individualità. La funzione parallela al mutuo incensamento è la maldicenza, dove chi biasima un male, o   parenza d’un male degli altri, si afferma implicitamente libero da quello, e concede a quelli che lo ascoltano d’esserne liberi anch’essi, per aver da loro quando che sia a sua volta la concessione. Nelle comunità amichevoli che fioriscono della comune vanità ognuno vive della morte di chi è fuori della comunità. Ma nella sua solitudine ognuno si ringhiotte nel suo stomaco vuoto il marcio e l’amaro di quelle conversazioni micidiali. Questo sono le compagnie di cui sono lieti i tuoi uomini.
      N.
      — Ma pure converrai che per avere una donna, bisogna che uno voglia ch’essa lo ami; per essere un artista bisogna voler essere un artista; e quelli così e diventano artisti e posseggono le donne. E così, in ogni cosa, non ti serve voler platonicamente la cosa, ma bisogna che tu ti faccia quello per cui la cosa ti venga di diritto.
      R.
      — Hai uno strano modo di dire: «che la cosa ti venga di diritto». E con questo intendi sempre, credo, ciò che ci vien tributato dagli altri.
      N.
      — Certo. O amore o stima o gloria.
      R.
      — Ma vale ancora quanto abbiamo stabilito, che queste cose non fanno piacere per sè stesse, ma pel giudizio che contengono!
      N.
      — Certo.
      R.
      — E allora che resta da dire?
      N.
      — Resta che senza questi la vita e infelicissima.
      R.
      — Certo.
      N.
      — E allora?
      R.
      — E allora perchè vuoi batter proprio quella via che ti conduce più lontano dalla tua meta? Perchè dimmi. Se tu andassi sotto vesti altrui a un convegno d’amore, e possedessi la donna d’un altro, cosi che ogni sua carezza tu sapessi indirizzata a lui, e il nome ch’essa invocasse languendo fosse quello di lui e non il tuo — dimmi se, prescindendo dalla soddisfazione del corpo, ti parrebbe di possederla. O se ti par di possedere la donna che paghi tu ora perchè a te si conceda, come perchè altri la paghi ad altri si concede quandochessia?
      N.
      — No, per Dio!
      R.
      — Bravo, qui ti riconosco! Ma godi della donna che t’ama perchè in te riconosce il maschio che la domina.
      N.
      — Certo.
      R.
      — Se tu sei questo, e la donna t’amerà; se tu questo non sei, che ti profittano le carezze cui tu con una falsa persona ingannandola la costringi, se non hai nè puoi aver il suo amore?
      N.
      — Ma se di questo ho bisogno devo pur cacciarlo?
      R.
      — Ne hai bisogno tanto quanto hai bisogno d’esser qualcuno. — E non sarà mai che donna ami chi per bisogno ama l’amore e non lei. Bisogna avere in sè la forza dell’amore per essere amati: Dare e non chiedere. Più il vano chiede e più bisognoso si rende…. E la Musa è femmina, e non dà il suo amore a colui che l’assedia, la caccia, se ne preoccupa senza posa; a chi la compera e l’inganna, e si fa bello di ciò che non ha, cercandola per la via e nel modo come dagli altri egli vede fare, e vuol pur star con lei perchè la gente dica che ella è la sua amante. Essa arride al forte che l’ama al sole della sua libera vita, sicuro che essa a lui darà ciò che a nessun altro può dare, nè del volgo si cura cosa sia per dire.
      11. N.
      — Sarà bene quanto dici; e riguardo alle donne che, io come più m’affatico a decifrare e meno riesco, comincio a credere che ogni uomo forse farebbe, e fa, delle esperienze umilianti che gli fanno conoscere con dolore la verità che dici. Ma quanto all’arte, scusa, uscendo di metafora: come pensi di poter convincere un artista che sarà artista quando avrà rinunciato alla sua arte, se la sua gioia sorge soltanto dal pensiero costante rivolto all’arte, che in ogni cosa gli fa fermare quanto gli possa servire per la sua opera, che gli suggerisce le situazioni dove riprovare l’emozione che di questa sarà la base? Se egli non ne fa tesoro, se non compie questo costante minuto lavoro, egli rinuncerà alle sue gioie più pure, nè avrà più da dove prendere materia alla sua opera.
      R.
      — Fin troppo m’hai convinto che invano mi proverei a distorre un artista dalla sua arte. Infatti male si vorrebbe indurre con parole un peso trattenuto da un gancio a sollevarsi, se vuol far la sua via. ]Ma quanto è peso pende, e quanto pende dipende. — E l’artista vuole essere un artista, è vero?
      N.
      — Sicuro.
      R.
      — E vuole le cose che all’artista convengono, «che gli possono servir per la sua opera»? E si mette nelle situazioni opportune?
      N.
      — Altrimenti almeno non sarebbe un artista.
      R.
      — E come le conosce?
      N.
      — Il pensiero rivolto all’arte glielo dice.
      R.
      — E l’arte che cos’è, come la conosce?
      N.
      — L’arte, l’arte…. l’arte non si definisce.
      R.
      — Ma perchè vuoi sostenere ciö che non pensi?
      N.
      — Ma io lo penso….
      R.
      — Macchè! Se pensassi me la definiresti ben presto quest’arte. E diresti che è tutto il corpo dell’arte, fatto delle opere d’altri artisti, e di tutte le chiacchiere che si son fatte attorno, per cui diciamo questa parola arte, e c’è questa professione, ormai bene retribuita, dell’«artista». Da qui egli trae le sue cose, qui egli trova le situazioni; e si compiace d’iscriversi e di vedervisi iscritto dagli altri.
      N.
      — Questo andrà bene, ma le sue emozioni personali sono sue e di quelle deve far tesoro.
      R.
      — Uno studente stanco di cercar frasi risolse un tema sulle impressioni dell’alpinista con la sola proposizione: «Oh, s’io fossi già sulla cima!» — Guarda se i tuoi artisti non somigliano un po’ a quest’alpinista. Essi che vogliono aver fatta l’opera, come possono aver posto per altre sensazioni? Ed ogni emozione essi non la provano, ma vogliono provarla, o meglio vogliono averla provata. Accanto a questo sentimento prepotente definito concreto, che fa capo alla fame, quale altro può vivere?
      N.
      — Ma se pur c’è, vuol dire che può vivere. E infatti questi artisti creano instancabilmente.
      R.
      — Già, perchè creare una cosa, nel vocabolario d’oggi, significa dare un segno di sè a proposito di una cosa, parlare della propria qualsiasi relazione verso una cosa. Ogni attimo della sua vita è prezioso a quest’artista. Egli sa che basta che lo scriva, lo dipinga, lo canti, e l’ha reso immortale. Perciò in ogni cosa egli non vive volgarmente, come un uomo che soffre e gioisce, vuole o rifiuta, che ha affetti, passioni, speranza, melanconia, disperazione — come sarebbe volgare tutto ciò! Ma egli vive da artista, egli è al di fuori di tutto questo.
      N.
      — Ma come non lodi tu questa libertà da tutti i piccoli inganni di questa vita, se tale è la vita di questi artisti? ma è la vita che più s’avvicina a quella degli dei.
      R.
      — Nell’Olimpo! Bene questi sono i nostri olimpici, gli dei che degnano questa terra del contatto delle loro piante…. Peccato una cosa soltanto: che queste divinità, qui in terra, soffrano un tale diuturno martirio, che io credo che nel secreto del suo cuore, ognuno sia per cedere tutta la sua carica onerosa per un po’ di buon umore volgare e mortale.
      N.
      — Che intendi?
      R.
      — Come, hai già dimenticato ch’essi devono creare? che dall’alba del loro giorno mortale fino al tramonto, o dal tramonto all’alba, essi devono fungere da creatori? Essi devono dunque attendere al varco le emozioni, come un cacciatore aspetta i mazzorini, coi piedi nel fango fino alle ginocchia. E la caccia è povera, perchè, come prima abbiam detto, essi non soffron più le emozioni di questa terra, essi gli dei. E non pertanto bisogna bene che vengano. E bisogna allora ingegnarsi o, come essi dicono, «foggiarsi una vita». Poichè un’emozione è viva in loro: la volontà di fare cose d’arte e la noia di non saper come, la volontà d’essere artisti e la noia di non esserlo. Questa è l’«emozione personale», e con questa bisogna creare. L’artista si mette dunque di fronte alle cose che gli sono indifferenti, che non sono per lui, sempre come quello che le ricrea, come l’«artista» — questo è convenuto. E la sua emozione dominante prende via via diversa apparenza dalle diverse situazioni. Ma essa è sempre la stessa: di vivo non c’e che lei. Allora l’artista la stuzzica, rivolge lo sguardo all’arte; e la volontà d’essere artista diventa amore ed eroismo, il dolore di non saper che incominciare, dolore sublime sulle cose del mondo, diventa doglianza. Ma dirai tu: come fa a far questo? È facile, quando uno abbia lo «sguardo rivolto all’arte», che dice quali sono le cose che valgono per artistiche. Poi ci sono gli occhi e gli orecchi e il gusto e i sensi; e si può tentar di registrare le susseguenti sensazioni che essi hanno. Poi ti scopri, e cominci a parlare della vita artistica — la tua vita; e allora registri ogni piccolo fatto di questa tua volontà e di questa tua noia. Se sei un pittore copii tutte le macchie del tuo atelier, e sei un artista. Ma a te artista di tutto questo non importa niente. Le cose ti sono odiose, perchè nessuna ti dà niente; ti senti vuoto digiuno, e dentro ti suona e ti sbatte la disperata necessità d’aver fatto, d’esser perveuuto. Te lo immagini il giorno grigio e nebbioso nelle officine spente di questi artieri affamati, quando, curvi negli angoli oscuri, essi cercano tra i ferri vecchi quale sia abbastanza artistico, e fanno tesoro d’ognuno? E se esce loro dal diaframma un noioso sbadiglio per la vuotezza dello stomaco, si sollevano, sorridono, e dicono: questo m’è sorto dal mezzo del cuore. Lo riguardano alla luce, gettano uno sguardo all’arte, prendono le frasi convenute della stanchezza dell’esistenza — ed ecco una composizione che i giornali compiacenti diranno «pervasa da un’amara intuizione della vita». E dire che quell’amaro era acido di stomaco! Ma essi son grati al loro organismo per questo acido, come pei languori della sensualità, e pel male ai reni della stanchezza; e se lo curano e se lo accarezzano questo mirabile organismo , che coi suoi capricci «mantiene la famiglia»; temono per lui che qualche cosa d’estraneo non venga a turbare il fascino d’una situazione foggiata con l’arte e per l’arte….
      N.
      — Ma permettimi. Io ti sto a sentire. e dalle cose come le poni io non posso toglier niente. Ma perchè premetti ch’essi debbano esser proprio cosi vuoti?
      R.
      — Oggi sei di corta memoria. Non ti ricordi più che me l’hai fatto premettere tu stesso, quando ti sei fatto paladino di coloro che vogliono esser artisti e non vogliono rinunciare all’arte? Infatti è chiaro ancor sempre che chi vuol veder sul muro l’ombra del proprio profilo, in ciò appunto la distrugge. Come quelli che cercano i piaceri del corpo, cioè il significato dell’esistenza del loro corpo, ne perdono tutto il sapore; così questi che cercano altri piaceri che significhino un’esistenza più vasta, perdono il sapore di ogni cosa, e non sanno più niente e sono vuoti tanto quanto vogliono sfruttarsi. Ma che vale? la preoccupazione della vita spingerà pur sempre gli uomini a curare e a cercare le posizioni dove videro vivere altrui, dove forse anche parve a loro stessi per qualche tempo vivere. Nasce per questa preoccupazione, dalla vita sana del corpo, la degenerazione sensuale e la rettorica dei piaceri; dalla diritta attività d’un uomo che ha una missione da compiere, l’ambizione della potenza e la rettorica dell’autorità; dall’opera d’un uomo che aveva qualche cosa da dire, la posa dei creatori e la rettorica artistica; dalle parole degli uomini che mostrarono agli altri la retta via, la presunzione dei pensatori, e la rettorica filosofica con la sua sorella minore, la rettorica scientifica. Così gli uomini dànno nomi alle manifestazioni sicure della vita, ne ambiscono le forme per averne la persona e le gioie; preoccupati di questa vita che sfugge loro di mano, se ne rendono schiavi. Ma il destino si prende pur sempre gioco di loro. Poichè appunto ci siamo posti a contemplare questa trista disgregazione, per vedere, fra gli illusi, quello che volentier torna a ciò che lo trastulla, se pervenga meno illuso a eluder la sorveglianza del Dio, prendendo più che ad altri non sia concesso. Ma ci avvenne a nostra meraviglia di vedere come, per più tornar che facesse a ciò che lo trastullava, non più si sia trastullato; come anzi ciò che prima gli era argomento di trastullo gli divenisse poi insipido, e come vieppiù volgendosi a cose che potessero dilettarlo sempre meno dilettose le trovasse; come infine il piacere gli sfuggisse del tutto nel disperdersi della sua individualità — poichè essendone il segno e il nesso, con lei scemava quanto più essa per cacciare i piaceri si diluiva. È ben questo l’eterno sarcasmo del destino, che fa suoi giochi con la nostra fame, che ci alletta nei suoi cerchi e di noi ingannati si fa ludibrio; ma pur sempre ci tiene per la nostra fame in sua balìa. Ed in ciò siamo giocati o, come tu dicevi, illusi. Ma tanto più illusi quanto più ci affidiamo alle sue promesse. E il gaudente preoccupato, che stende la mano pur a quello che ora, qui gli si offre, che lo possa comunque trastullare, per la cura che gli possa sfuggire, se anche poi non gli abbia a dare quello che egli crede, e gli debba venir meno, quando più egli ne sarà bisognoso — il gaudente è quello che più s’affida e più è giocato e che più è in balìa del comune nemico. Egli è come quel generale che per non sottomettersi a ciò che non gli faceva comodo, viveva in vicinanza del nemico come in tempo di pace. Egli crede reale quell’aspetto che le cose hanno nel momento attuale, e vi s’affida, mentre esso non appartiene che all’arbitrio de nemico che lo insidia. L’aspetto gli è sufficiente, perch’egli presuma di sè d’esser padrone delle cose. Vuole da questo aspetto il piacere, e teme che se questo gli sia tolto, gli sia tolta ogni possibilità di godere; ma il piacere non potrebbe venirgli che dalla sicurezza interna della pace. Egli nè ha in sè la sicurezza delle cose necessarie al corpo o dell’integrità del corpo, ma s’affida al lavoro altrui; nè ha in sè la sicurezza dell’amore degli uomini per lui, ma s’affida al ritegno convenuto, e li teme, o se può li opprime. Gli uomini s’affidano l’un l’altro il lavoro che ognuno dovrebbe compiere per avere in sè la sicurezza di sè stesso. Essi invece speculano sulla comune debolezza per creare una sicurezza fatta di reciproca convenzione. Così non solo non hanno più da avere in sè la sicurezza verso il loro simile, ma anche verso il resto della natura, poichè ognuno fa una piccola subordinata cosa, del resto in tutto essendo incapace. Come non ha in sè la sicurezza del perdurare di quelle condizioni, ma queste sono nella volontà degli altri, così egli di questa si preoccupa ed è schiavo dell’altrui volontà. Così della vicendevole paura e prepotenza consiste la convenzione della morale sociale; dalla deficienza d’ognuno a far tutto da sè e dal bisogno, lo scambio del lavoro, per cui ognuno è schiavo e padrone ad un tempo, per ciò che la comune convenienza a tutti comuni diritti conceda ed imponga comuni doveri. E fioriscono uomini schemi d’ogni individuale sicurezza che preoccupati del loro apparente possesso, lo tengono coi denti per la tema di non potere altrimenti vivere; e battono con inesorabile impertinenza sui loro diritti, quando credono aver l’appoggio della comunità, acquistato a prezzo di tutte le umiliazioni dalla loro parte. «L’insouciance a pour camarade le souci, la suffisance le besoin de tout» (Pascal). — Sono creditori miserabili che non hanno un soldo, ma hanno una cambiale: il presente è vuoto, ma contiene la promessa della gioia. La vita è il debitore insolvente. Le scadenze sono corte; il creditore si presenta a ogni scadenza ripetute volte, e ottiene dopo esser stato cacciato e maltrattato dai servi, infine a prezzo della sua dignità, soltanto il rinnovo della cambiale e tanto da vivere fino alla prossima scadenza. Pure egli non rifiuta la fiducia a quel pezzo di carta, non pensa a tentare in altro modo ciò che la cambiale gli promette e non gli dà, ma si tiene aggrappato a questa come a una tavola di salvezza. La prima cambiale per l’uomo è il suo corpo; poi viene la camicia con la quale è nato — e la camicia è contesta di posizione, diritti acquisiti, affetti acquisiti come i diritti. Non solo, ma anche di ciò che il socialmente povero trova già nell’atmosfera: le vie, i modi, tutto il lavoro accumulato dai secoli, e di cui i posteri godono i frutti nella vicendevole sicurezza e nella sicurezza di fronte alla natura. E stretti alla cambiale sono schiavi di tutto ciò che la convenienza impone per poi difenderli: schiavi di ciò che per caso sia loro venuto di diritti più in sorte che agli altri, perchè altri non glieli tolga; schiavi del corpo inetto che non serve ma dev’esser servito. Sono paurosi nel fisico e nel morale, avari di sè e di ciò che credono possedere, umili, sottomessi, avviliti. Ma d’altronde, se appoggiati dalla convenienza o per vie nascoste, senza pietà verso gli altri, prepotenti e truffatori. In una parola, gretti. Invidia ambiziosa e umiltà, prepotenza e timor degli uomini, queste sono le virtù consacrate dalla κοινωνία, ed hanno la loro forza nel rispetto e nella più o meno acuta valutazione delle convenienze, che indica con saggio calcolo agli uomini ogni volta in che senso devono fingere — la prudente ipocrisia. Ma quando la loro natura rompe ogni ritegno, allora abbiamo i due vizii: in chi spera qualcosa, la violenza brutale, che prende le cose solo dal lato comodo a sè, ignorando ogni lor vita autonoma, in chi è disperato, la rabbia. E poichè la sfrenatezza è più comune della prudenza, e per il disinganno, fido seguace del desiderio, ma sempre più forte a trascinare anche il prudente alla violenza (πολύφρονα περ χαλεπῆναι), la rabbia è il Leitmotiv della vita sociale — la rabbia impotente, che si sfoga sui prossimi, sulle cose, sul corpo, sempre impotente, sempre di sè stessa crescente (perchè quanto più è dolorosa e più s’accresce). E da questi parossismi giù fino alle insofferenze, agli sgarbi, essa accompagna l’uomo civile in ogni istante della sua vita. Chi ha tutto da sè, l’uomo in natura, non conosce la rabbia impotente. La conosce chi ha bisogno dell’opera altrui, di singoli o di istituzioni; e che se questi anche d’un poco sgurlano, è in loro balìa, dipende da loro, e non può che con la rabbia sfogare la sua impazienza e l’insopportabile senso della dipendenza. Le grida delle persone arrabbiate sono il cigolìo di tutte le commessure della macchina sociale che non ha trovato ancora, il suo giusto punto. Quanto più l’uomo s’allontana dalla natura tanto più è impotente, iracondo (ammalato), e quanto più forza ha in sè tanto più insofferente. La cosa ormai non è più soltanto individuale, ma per secolare spostamento atavica. E la scienza compiacente ha trovato alla società subito un nome, e un diritto d’esistere a questo male inevitabile; e ogni atto di meschinità ha ricevuto la sua tessera di passaggio sotto il nome di nervosità. Ora quando uno fa atti pazzeschi di rabbia, umiliando la propria dignità all’infinitamente piccolo, il prossimo lo rispetta come nervoso, ed egli si compiace pur negli spasimi della sua rabbia pensando: Eppure faccio impressione, lo sapranno ora che sono nervoso. E al caso dice: Lo sai che io che son nervoso, queste cose non le tollero — come se parlasse d’una rispettabile qualità. Ma in compenso son pazzi gli uomini di genio. Ma oltre a questa divinità dell’ira, la meschinità gaudente ha creato il dio del male, il diavolo, la iettatura, per quando le cose non vanno. Più l’uomo è assorbito nell’attimo, e più crede all’avverarsi di una determinazione di cui abbisogna, e le attribuisce realtà, e la contendit, anche quando tutto gli dice che non può avverarsi. La contende con tutte le sue forze, senza alcuna dignità, attaccandosi a ogni briciolo di speranza, παντοῖος γενόμενος — finchè, quando la cosa non avviene, lo colpisce sempre come una disgrazia nuova inaspettata della quale non sa darsi pace. Egli credeva alla cosa anche quando essa non aveva più nessuna base oltre al proprio desiderio; e continua a credere al suo valore anche ora, dopo che ultima speranza è caduta, nutrendosi con dei «parimpossibile», «la cosa era certa», ecc.; e «se non fosse stata quella disdetta proprio eccezionale»… Perciò non toglie valore alla cosa nel fatto stesso che s’è dimostrata tanto dipendente da contingenze, ma la stima pur sempre, e la vernusset o (lei non il valore). E s’arrabbia contro tutte le cause indirette accidentali che sono nell’ordine delle cose, appunto perchè la cosa è soggetta all’accidentalità; contro le persone che facendo ognuna il suo giusto, sono stato causa che la cosa andasse in un modo invece che nell’altro, con frasi come «occorreva che lui facesse questo», «già lui non sa fare che questo», ecc. Perchè il suo desiderio gli è la verità assoluta, tutto ciò che lo fece andare irrito è falso, ingiusto, ed è possibile solo supponendo un’intenzione ingiusta nelle cose, una malvagità speciale nelle persone. Da qui nasce l’idea del diavolo, dello spirito del male, che ogni tanto mette la coda nelle sicure felicità degli uomini. Poiché il mio desiderio è la verità, il Bene è la realtà naturale, il Male una forza trascendente. Così ben presto ognuno si riillude in ciò che lo diletta, e cerca non un diletto più sicuro, ma la ripetizione di quel diletto stesso che gli è venuto a mancare. Ma quando si guasti il filo al mio coltello, io non mi dorrò dell’aver perduto quello che ho esperimentato non valere il mio rimpianto, ma perduta l’illusione del suo valore, ben mi dorrò della mancanza d’un coltello che mi valga. — Ora qual’è fra le cose del mondo che si possa supporre indipendente dalle leggi del mondo, e sperare per sempre incolume dalle contingenze del tempo e della materia? È dunque la nascita il caso mortale per cui gli uomini muoiono ad ogni istante in tutto ciò che vogliono. Ma essi pur sempre hanno fiducia che quella sia la realtà intangibile, che a loro è necessaria, ma della quale non hanno in sè alcuna sicurezza, nè si curano d’averla. E ognuno si gira avidamente nel guscio delle cose che gli son dilettose, e presume d’esser sufficiente alla loro sicurezza, quando pur ne fruisce e risponde con la paura e con l’odio alla richiesta altrui. E il dio gioisce della privazione che la paura impone e della rovina che l’odio produce, e li fa battere nella perpetua inimicizia con vicendevole danno, e li assoggetta all’inimicizia delle altre cose della natura, e infine del tutto li travolge. E poichè essi via pur sempre si riilludono, ogni limitazione del proprio creduto possesso, fino alla necessità delle più piccole rinuncie — tutto trascende la loro realtà, come la stessa morte, e fa loro soffrire nella vita il dolore della morte. 12. — La senti la voce della società? È come un ronzio colossale; ma se porgi l’orecchio a seguire i singoli suoni, udrai voci d’impazienza, d’eccitamento, voci di gaudenti senza gioia, di comando senza forza, di bestemmia senza scopo. E se li guardi negli occhi, vedrai in tutti, nel lieto e nel triste, nel ricco e nel povero, lo spavento e l’ansia della bestia perseguitata. Guarda tutti come s’affrettano, s’incontrano, s’urtano, commerciano. Sembra davvero che ognuno vada a qualche cosa. Ma dove vanno e che vogliono, e perchè si difendono così l’uno dall’altro e si combattono? La senti come cigola la macchina in tutte le commessure? Ma non temere, non si sfascia, è questo il suo modo d’essere, e non c’è mutamento per questa nebbia — poichè la sua vita è il piccolo e continuo mutamento d’ogni atomo.
      N.
      — Ma come rompere questa nebbia maledetta? Perchè dare agli uomini questo desiderio senza speranza, questa fame che non si può soddisfare?
      R.
      — Perchè? Non io lo so nè vale chiederlo. E male è certo ad ognuno l’esser nato. Ma se via c’è che possa in qualche modo liberarci dalla nebbia, è quella che insegna a non chiedere ciò che non può esser dato. Di due invitati a un pasto è quello il meno misero che avendo riconosciuto subito che tutti i piatti imbanditi sono immangiabili, non ne assaggia alcuno; mentre l’altro che tutti li assaggia e tutti è costretto a risputare, vive, pur sempre in pena per quelli che ancora non ha assaggiati, perchè altri non lo privi della sua parte d’inganno, e per la tema di non doversene andare – e si dispera infine quando è cacciato dal banchetto disgustoso.
      N.
      — Meglio vale allora levarsi per tempo e per propria volontà da un tale banchetto.
      R.
      E mi no giogo più! – vero? Se non mi fate fare il re, non gioco più — mentre tutta la tua persona non vuole che giocare. Chi ti dà la forza?
      N.
      — La mia ragione.
      R.
      — Già. Se vedessi qui un rogo, ti ci getteresti dentro?
      N.
      — No. Ma perchè dovrei scegliere il modo più penoso?
      R.
      — E che pena sente più chi è disposto alla massima pena? Ma come faresti?
      N.
      — Cercherei quel modo che mi perrnettesse di preparar tutto prima e di non accorgermi di morire.
      R.
      — Uscire dal mondo senza conoscer la morte così come vivesti senza conoscer la vita. Ed è giusto — poichè la morte è detta solo in riguardo alla vita. La vita è il bisogno, la morte la negazione del bisogno. Chi muore come tu dici vuole ancora ingannar il destino con un calcolo, ma inganna sè stesso. Poichè la morte di fronte alla domanda non risponde con una realtà libera dal bisogno, con una coscienza non più sottomessa al tempo, ma con l’incoscienza. La morte appare desiderabile a chi vive, soltanto perchè gli appare come coscienza senza bisogno. E quando egli ragiona: La vita non mi darà mai la pace, poichè la vita è sempre un bisogno insoddisfatto; mentre la morte mi darà la libertà, la mancanza dei bisogni, la pace: è preferibile dunque la morte alla vita — il suo ragionamento non parte dall’assenza dei bisogni (poichè il bisogno non è che i bisogni, i desideri, l’amore volto a cose care), ma dalla presenza del bisogno insoddisfatto in alcune sue parti determinate. Questo determinato malcontento che gli limita la vita, gli fa pensare alla morte come a una vita illimitata perchè senza bisogni. Questo «senza bisogni» gli prende a sua insaputa il contenuto di «soddisfazione di questi determinati bisogni che ora momentaneamente mi fanno soffrire». Ed e perciò che con tutta la forza della persuasione vitale che gli rappresenta desiderabile la soddisfazione dei suoi bisogni, egli dice d’esser persuaso che la morte è da preferirsi alla vita. Ai bisogni corrispondono le promesse della realtà come valori. (Chi non ha più bisogni — non ha più valori — non ha più realtà — non ha coscienza — non parla nè di vita nè di morte — ma muore senza accorgersi). Fino a che uno vive, vuole la felicità, postula un valore per il quale gli valga vivere. Egli chiede la subordinazione dei valori della vita a un valore più grande: i. e. la convalidazione dei suoi valori. La morte, come è la negazione dei bisogni, è la negazione del valore3). L’individualità assorbita in piccoli bisogni, ma per spostamento accidentale non così che la temporanea soddisfazione d’uno di questi sia dolce per la coscienza della prossima temporanea soddisfazione degli altri (come nella bestia), ma impedita da qualsiasi ragione in questa organica soddisfazione dei suoi bisogni — è portata a sentire fortemente l’insoddisfazione, e quindi a vedere come contenuto della vita soltanto quella parte (comune col concetto d’infelicità), nella morte soltanto la negazione di questa (comune col concetto di felicità). La sua coscienza della vita è limitata all’insoddisfazione di dati

      Dialogo della salute img049.svg

      bisogni; nella morte essa vede la felicità come assenza di bisogni. Ma felicità senza coscienza non esiste. Egli dunque attribuisce alla morte la coscienza dell’assenza dei bisogni. Il suo ragionamento ha questa forma:

      Egli attribuisce: 1.° alla vita come contenuto completo quello che non è che una parte del suo contenuto; 2.° all’infelicità (al non – essere) per contenuto completo quello che non è che una parte del suo contenuto; 3.° egli concede alla morte ciò che è contrario al suo concetto — la coscienza; 4.° egli parla di una felicità senza contenuto, cioè che ha contenuto solo in rapporto ai bisogni insoddisfatti della sua vita.

      Egli crede di poter acquistarsi la felicità, di poter passar lui con la sua coscienza dalla infelicità alla felicità, passando con un atto violento dalla vita alla morte.

      Il suo non è pessimismo, cioè conoscenza del non-valore, e conseguente indifferenza, ma ottimismo, cioè fede in un valore (la felicità nella morte) sconosciuto, per solo stimolo del suo bisogno presente. Se questa fede è forte, o se egli agisce sotto la forte pressione di determinate insoddisfazioni (suicidii imponderati, atti di disperazione), egli passerà dalla vita alla morte senza saper ciò che voleva nella vita veramente, e senza sapere che cos’è la morte rispetto a questa sua volontà — come uno che per sfuggir alla minaccia delle fiere entrasse nel covo della tigre. Se egli ci penserà prima, e farà conoscenza con la morte andandola a cercare nei suoi posti caratteristici (fame, precipizii, fuoco) che il corpo conosce, egli arriverà presto a capire che il non-valore non gli vale la speranza del valore — ἢν ἐγγὺς ἔλϑῃ ϑάνατος, οὐδεὶς βούλεται ϑνῄσκειν.

      N.
      — E sì! Tu avrai ben ragione. Il tuo ragionamento fila diritto. Metti i termini, imposti le equazioni, e cavi il risultato. Nessuno potrebbe rilevarti un errore, nè errore ci può essere. Ma a che bene, dimmi? a che bene se tutto si dissolve nella nebbia maledetta, se la vita stessa è l’errore di cui non siamo responsabili, ma pur ne portiamo il peso, a che bene continuare se io lo so, se tu sai che mai ci potrà esser mutamento? a che bene? Sia pur violenza quella ch’io faccia a me stesso col suicidio, e che mi importa se pur dopo io sia distrutto nell’incoscienza? Sia pur vero ch’io non giunga a veder nè la vita nè la morte, e che m’importa? A chi ho da render conto, pur ch’io non soffra più questa pena, o come dicono i tristi versi:

      purchè alla mia pupilla questa luce
      che pur guarda la tenebra si spenga,
      e più non sappia questo ch’ora soffro
      vano tormento senza via nè speme,
      tu mi sei cara mille volte, o morte,
      che il sonno verserai senza risveglio
      su quest’occhio che sa di non vedere,
      sì che l’oscurità per me sia spenta.


        Ah, la paura della morte è vile cosa, amico! e tutti la temono che invano a lei vogliono sfuggire: il vecchio custode nella fredda valle li attende, che così irrise al nostro stato. Tutte le cose vince la morte, e nessuna io posso ormai con coscienza cercare e volere se non la morte!

      R.
      — Sempre la stessa mente nella gioia, nel dolore, nel piacere, nella morte — tutto invano! Ma questa stessa tua invocazione della morte è la paura della morte! In questa invocazione parla la stessa debolezza che chiede per pietà un velo a schermo del dolore, che chiede al pane, al vino, ai compagni, all’amore, all’arte, alla gloria, a Dio, una proroga della morte. È il sonno e l’oblio che chiedi, non la morte. Se la vita è un peso, quello ha il coraggio della morte che porta la vita così finchè essa lo schiacci, sicchè la sua morte sia un atto vitale. Quello che in qualunque modo la depone, quello non ha il coraggio della morte, ma la paura. Egli la depone perchè cerca nel riposo conforto e dal conforto spera la continuazione. E come nel qualunque riposo che l’uomo s’accatti per pur continuare, seguendo la voce della sua deficienza, è infatti la morte, la nebbia delle cose che sono e non sono — così nella languida e vana invocazione della morte in cui parla lo stesso bisogno di riposo, è in fatti la volontà di continuare, la pietà commossa di sè stessi.  Non pietà ma sdegno devi sentire per te stesso, se pur vedi la vanità della vita: in te, nel tuo cuore che batte e ribatte, che esulta e si lamenta, che spera e dispera, nella tua bocca che parla e si riempie di niente, nel tuo stomaco che chiede il pane, nel tuo corpo che pesa inerte, nelle tue membra, nella tua carne, nel tuo sangue — la devi sentire. Non pietà ma nausea devi sentire di te stesso the sei e non sei, sicchè dolce ti sia il ferro che ti ferisce e un rovaio il giaciglio dove pesa la tua inerzia, sicchè amaro ti sia il pane e intollerabili le parole. Allora non più invano spererai e non più sarai disperato, non più invano esulterai e non più avrai da lamentarti; ma il futuro non sarà più per te e nell’ultimo presente il tuo cuore consisterà. Allora la tua vana invocazione della morte sarà atto di vita, poichè in un punto la tua volontà diffusa si sarà raccolta e avrà fatto di sè stessa fiamma. L’uomo non chiede la morte ma muore; e in ciò egli vive, poichè non chiede di essere ma è.
      N.
      — Ma…. ma come posso io giungere a questo?
      R.
      — La tua ultima parola è stata «morte» e la tua bocca s’è riaperta per dir «ma». Con quella dicevi di non aver più nulla da chiedere, ed ora riparli per chiedere un appoggio, per chiedere una via. Ma non c’è appoggio, ma non c’è via, non c’è niente da aspettare, niente da temere, nè dagli uomini nè dalle cose. Questa è la via.
      N.
      — Ma perchè taci? parla ancora! Non dir ch’io chiedo. O dillo anche, chiamami vile, debole, miserabile, ma parla, ferisci ancora; chè ora la sento la nausea, ora il tuo ferro m’è dolce.
      R.
      — Si, si! Eppoi andrai a casa, e alla serva che ti porterà il latte….
      N.
      — (come colpito da uno schiaffo) No! perchè?!
      R.
      — …. alla serva che ti porterà il latte chiuderai la porta in faccia….
      N.
      — (racconsolato) àah!
      R.
      — chiuderai la porta in faccia.
      N.
      — (esitante)…. certo.
      R.
      — …. e griderai con voce cavernosa «vattene», e ti compiacerai della persona nuova che avrai preso: invece della persona della fame, la persona dell’uomo che ha coraggio di non aver fame. E per questa nuova persona nuovamente ti sentirai in diritto di farti largo, per continuare a vivere respingendo e oltraggiando gli altri, a cominciar dalla serva.
      N.
      — ?
      R.
      — La serva protesta? e tu la insulti. Lei grida più forte, e tu te ne vai….
      N.
      — (sconcertato) Ma…?
      R.
      — …. e tu te ne vai, aggrondato, sinistro. E mediti in cuor tuo vendetta per la tua dignità vilipesa; e maledici la rozzezza dei costumi, e la troppa libertà concessa, maledici gli usi della tua famiglia, la tua famiglia. Tu mi avevi interrotto, volevi dire perchè io parli di «queste miserie»? Aspetta! Tu maledici la tua famiglia — la famiglia — la necessità del nascimento — la vita — il mondo — la vanità delle cose. «Mi ammazzerò», pensi. E aggiungi, inintelligibile quasi a te stesso: «e poi vedranno». — Vedranno, e che cosa? «Vedranno come io non dò valore a tutte le loro cose, come sono superiore, capiranno come quando m’arrabbiavo ero mortalmente divinamente triste….» Queste cose forse le sai meglio ch’io non le possa dire.
      N.
      — È così, sì, a così…. ma tutti non possono essere come tu sei.
      R.
      — Come me? come me dici? ma io queste cose le so per esperienza.
      N.
      — Tu?
      R.
      — Io sì, io, che ambulavo per le vie e per i monti con l’uno o l’altro degli amici e parlavo della virtù e della fermezza, e del coraggio, e della «vanità del tutto», e della vita e della morte, e poi consegnavo uno scapellotto quanto mai profondo e filosofico a mio fratello, se ardiva di turbar la pace del mio santuario dove io fabbricavo la saggezza; a chiudere la porta in faccia alla mamma…. …. Mia mamma taceva, alle volte piangeva; mio fratello una volta invece di protestare rumorosamente si irrigidì, strinse i pugni e s’avviò senza dir parola. Lo raggiunsi, lo guardai e gli [vidi nella faccia contratta una tale ribellione sorda, un tale odio, negli occhi torvi una tale fiamma disperata, che atterrito lo presi, feci per abbracciarlo, ma egli si svincolò con repugnanza. — Ah, le lacrime ch’egli non aveva pianto io le piansi! Libertà! Giustizia! Imperturbabilità! Che giova, che giova quando uno è schiavo d’una porta che s’apre, e con la mano che ha fatto i grandi gesti per arrotondare le grandi frasi, schiaffeggia un bambino per difendere «la pace dei propri pensieri», per poter «pensare» avanti nella impotenza cieca della pace perduta! E nota! su mio fratello applicavo naturalmente teorie educative. — E poi, appena fatto accorto della infame ingiustizia, il primo gesto: accattarmi con una carezza perdono di mio fratello. Nel terrore per aver visto in tale specchio la vanità delle mie parole, la nullità della mia persona, aggrapparmi al primo appoggio, sperar col facile atto dalla condiscendenza debole d’un bambino il conforto che mi mettesse il cuore in pace. Vigliacco! E poi riconosciuta anche questa viltà per la fermezza di lui, la corona del dramma, le lacrime. Lo vedi quel mucchio di carne in sussulto che si scioglie in lacrime? quello è il filosofo! Nausea! Nausea!
      N.
      — …
      R.
      — E poi fra i lamenti, fra i singhiozzi a volta a forza repressi, a volta tratti a forza pel bisogno d’una qualunque affermazione della persona che si sente spersa miserabile nell’oscurità, il pensiero d’ubbriacarsi o di mangiare o di correre, o d’andare al caffè dove c’è vita allegra, o di scappar lontano, o di finirla. E il pensiero qui si ferma, e accarezza l’idea del suicidio, e comincia a pensare all’impressione che avranno gli altri. Dal terrore indefinito, in ogni modo la paura della morte cerca una cosa precisa sulla quale appoggiarsi per farsene uno schermo al niente che ti stringe; cerca qualunque cosa purchè sia, anche un piano di suicidio. Intanto così ci si racconsola, ci si distrae; e poi si ricomincia, sempre avanti. Ma no, bisogna venir a una conclusione. O sì o no. Allora καλόν ἐστι διαπορεῖν, è bello il soffrire e il lottare, allora hai in mano la vita; allora è bella la forza, e l’uomo deve tener raccolta la sua vita. Se allora egli si distrae è nuovamente perduto, chè s’è rimesso nel giro delle cose consuete a cercar di fuori la vita che gli mancava, o s’è cullato nel sogno. Allora convien guardar in faccia la morte e sopportar con gli occhi aperti l’oscurità e scendere nell’abisso della propria insufficienza — venir a ferri corti con la propria vita. O vivere o non vivere. Ma poichè in me qualcosa chiede ancora la vita, se ho da continuare, ma bisogna che io viva, che non abbia niente da aspettarmi dagli altri, ch’io sia libero veramente, ch’io affermi siffattamente la mia vita, che da nessuno possa esser turbata, ma che anzi agli altri sia vita; bisogna che io sia giusto verso ogni cosa, che a nessuno sia ingiusto; non un debito d’uno schiaffo, ma un infinito debito, non verso una persona ma verso la mia vita. E dalla profondità dell’abisso sorge la voce inaudita:

      Niente da aspettare
      niente da temere
      niente chiedere — e tutto dare
      non andare
      ma permanere.
      Non c’e premio — non c’e posa.
      La vita tutta una dura cosa.

      L’intendi? La via non è più via, poichè le vie e i modi sono l’eterno fluire e urtarsi delle cose che sono e non sono. Ma la salute è di quello che in mezzo a queste consiste; che il proprio bisogno la propria fame lascia fluire attraverso a sè, e consiste; che se mille braccia l’afferrino e con sè lo vogliano trascinare, consiste, e per la propria fermezza rende gli altri fermi. Non ha niente da difendere dagli altri e niente da chiedere loro, poichè per lui non c’è futuro, chè nulla aspetta.

      Non ha questa emozione e quella emozione, questo e quel sentimento, gioia, affanno, terrore, entusiasmo; ma il male della comune deficienza una sola voce gli parla e a questa con tutta la sua vita egli resiste in ogni suo punto. Egli guarda in faccia la morte e dà vita ai cadaveri che lo attorniano. E la sua fermezza è una via vertiginosa agli altri che sono nella corrente. E l’oscurità per lui si fende in una scia luminosa. Questo è il lampo che rompe la nebbia. E la morte, come la vita, di fronte a lui è senz’armi, che non chiede la vita e non teme la morte. Ma con le parole della nebbia — vita morte, più e meno, prima e dopo, non puoi parlare di lui che nel punto della salute consistendo ha vissuto la bella morte.

      Note

    2. Poichè senza il piacer qual più ci alletta
      vita mortale o qual poter sovrano,
      senza cui più non è
      pur la vita d’un dio degna d’invidia?

    3. Non accadono mali inaspettati
      se perpetüamente
      ogni cosa in brev’ora il dio travolge.

http://it.wikisource.org/wiki/Dialogo_della_salute

La Persuasione e la Rettorica Carlo Michelstaedte pdf – la notte, video conferenza

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