Erri De Luca : la Palestina e tre cavalli – Trois chevaux

Si sta in una guerra anche per vergogna di rimanerne fuori:. Erri De Luca Tre cavalli

Erri De Luca: Le parole impronunciabili

Tratto da “il manifesto”, 16 maggio 2006

Non cuocerai l’agnello nel latte di sua madre, è scritto nel libro sacro. Non trasformerai la madre della vittima in complice del macellaio di suo figlio. Accusare Israele di affamare la Palestina usando la scritta nazista del campo di sterminio di Auschwitz è cuocere l’agnello nel latte della madre. Non si può prendere la sigla del peggior crimine dell’umanità e rivoltarlo contro i discendenti delle vittime. Ma è stato fatto, per leggerezza o per insulto. Fame è una parola gigantesca, la riduzione al gradino più basso della dignità umana. La chiusura intermittente dei varchi di Eretz Israel non è fame. Dopo l’attentato di Tel Aviv sono rimasti serrati per ventiquattr’ore. Le migliaia di operai palestinesi che non lavorano più in Israele non è fame. Un muro che separa, fa male ma non è fame. Le serre degli insediamenti ebraici smantellati a Gaza sono state distrutte dalla proprietà palestinese reintegrata nei suoi territori. Non è mossa di fame. La legittima elezione di Hamas al governo della Palestina ha delle conseguenze internazionali come il taglio dei fondi di paesi esteri ma non è assedio, non è Sarajevo. La fame annunciata dalla vignetta su ‟Liberazione” di qualche giorno fa niente ha a che vedere con ‟Arbeit macht frei” all’ingresso di Auschwitz. Da lì passarono i condannati allo sterminio. Il copyright su quella scritta appartiene ai nazisti. Nessuno può staccarlo dal luogo capitale dell’infamia e appiccicarlo per polemica sull’uscio di qualcuno, tanto meno l’uscio di Israele. È triste quando l’intelligenza e la compassione di persone vicine si inceppano e procurano un torto anziché un sollievo. Quel luogo è un nervo scoperto della storia da migliaia di anni. Tre monoteismi, tre fedi esclusive hanno i loro santuari gomito a gomito. È un punto della geografia da trattare con la cautela dell’artificiere che manovra per disinnescare la carica, non per accenderla.

http://www.feltrinellieditore.it/news/2006/05/16/erri-de-luca-le-parole-impronunciabili-6674/

Erri De Luca: Trois chevaux – Blog izaiahalphonsog – Interia

04 feb 2011

ERRI DE LUCA “TRE CAVALLI”

In questi giorni ho letto un meraviglioso libro di Erri De Luca,”Tre Cavalli”…La storia di un giardiniere,con un passato di rivoluzione e di amore perduto,che parla alle piante e chiede loro dove vogliono essere piantate.Una giovane donna, che ne ama i racconti,il non detto e la faccia di cartapesta. E un nero di pelle,coperto di colori di fiori, con un debito di un bicchiere di vino e un nocciolo di oliva in bocca… Un libro delicato,soave, con dentro molti colori del mondo.Con dentro il ricordo,il dolore, la magia del raccontare,il desiderio di tornare alla vita e all’amore.E’ un libro profumato.Carico di odori.Si sente l’odore dell’erba appena falciata,quello delle mimose,la freschezza della salvia dell’isola di Pag. E’ anche colmo di sapori,di quelli genuini.Si assaggia del vino rosso,del pane,del formaggio,delle pere. Ci si siede a leggere libri usati insieme al giardiniere che non ha nome.Si mangia,si beve,si annusa,si ascolta, si parla. Si condivide.E fatti del passato vengono narrati sempre al presente.La voce di Erri De Luca è bassa,sincera,a tratti diventa intima,arricchisce chi legge tra le righe,chi riesce a rubare ogni minimo segno e luce lasciata sul volto dei personaggi.Si porta via,con il suo linguaggio, tutto l’affaticamento,la noia che può scaturire dal quotidiano.Perché possiede il dono della parola. E sa regalarcelo sempre!!

Trama:
La vita di un uomo dura Tre Cavalli e il protagonista di questo romanzo ha appena superato anche il secondo,con i suoi innesti e le sue potature. Ha cinquant’anni, vive nel Sud dell’Italia, fa il giardiniere, parla con gli alberi, legge libri usati, si reca a bere di tanto in tanto un bicchiere di vino all’osteria. Una vita fatta di silenzi, pienezze e di ricordi “ricordo giorni e mosse che vanno come il tracciato di una creapa, puntano sul casaccio per inventare un modo di durare”. Poi un giorno arriva Laila. Trent’anni. E’ alta, ha mani capaci, zigomi alti, tempie dolci. Lui le racconta una storia. Ai giovani piacciono le storie. Le regala un vaso con la salvia. Gli ricapita amore, desiderio, attesa. Un altro segno dell’attesa. E contemporaneamente le chiacchierate con Salim. L’emigrato africano, che vive in una casa senza porte e senza finestre. Poi vengono pensieri e frasi da una lontananza, che non sa far niente per fermarle. I suoi trent’anni, l’Argentina, Dvora, la guerra clandestina. Il sangue e il tempo di quando gli ammazzano la sposa. I giorni dopo Dvora sono giorni lenti, giorni senza attesa. Giorni tutti a Sud. Prima di fuggire da quella terra insanguinata, si porta dietro le sue scapette da ginnastica con i lacci ben legati, perchè le toglieva così Dvora, sempre allacciate. Leila è una piena di abbracci. Ride. I piedi si sfregano sotto il tavolo, si combinano sotto le lenzuola “e io so da capo che amo questa donna e che questo amore ha diritto di essere l’ultimo per me”. Ma niente è per sempre. La vita dà e toglie. Senza Laila la vita si indurisce nuovamente, per assorbire il colpo ed accettarlo. Passano giorni senza Laila. Non c’è via di fuga, non c’è altro Sud adesso. Solo erba da falciare a mano, solo fiato dentro al petto, bosogno di salvarla/si “prima di lei io so il male di ammazzare e glielo posso risparmiare”. Sono bagnate di sangue le ultime pagine di questo romanzo. Un sangue che appartine e tante vite, a tante storie. Quella del protagonista, di Dvora, di Laila, di Salim. Tutto è circolare. Tutto si fa sintesi, nella metafora del distacco e della ”perdita”.
“Vedo la linea rossa del tramonto che separa giorno da notte, penso che il mondo è opera del re del verbo dividere e aspetto la linea che viene a staccarmi dai giorni”.

http://eleboa.blogspot.it/2011/02/erri-de-luca-tre-cavalli.html

Zappo sotto gli allori. Proteggono passeri sotto le foglie spesse, sempreverdi. A sera litigano per il posto più caldo, vicino al tronco. Litigano per vivere. Poi fanno un bisbiglio di assestamento, penso che pregano.
E se il tatto è stimolato dal rapporto fisico con la terra stessa e poi con la scorza e il tronco degli alberi, che il giardiniere accarezza, l’olfatto e il gusto si alleano a far apprezzare cibi semplici, frutto del lavoro della terra : il pomodoro, la patata, l’aglio, il prezzemolo, il pane, il vino, l’olio e soprattutto le olive.

È solo in primavera che poto gli allori, quando non fanno da capanna ai passeri.
Mi piace bruciare il rimasuglio delle loro frasche. Danno un fumo che stordisce e fa tornare in mente gli scomparsi. In quel fumo mi siedo a mezzogiorno con le olive nere.

Sotto la crosta del lastricato la terra è spenta, sfibrata dal buio. È di fine inverno che se l’abbraccia intera e la fermenta arsa di calce.
Le occorre ossigeno e luce. Il salino assorbito va corretto con terriccio acidoso.
[…] Dal fuori del corpo vedo un uomo di cinquant’anni che bussa al portone della terra per buttarlo giù, per spaccare breccia nel suo grembo serrato. […]
Alla fine sto sulla terra scoperchiata.
È grigia, la rovescio a scasso, la rimpasto con sterco di cavallo e zolla di castagno.
La stendo pettinata sotto il sole enta.

Così mi trovo a stare la giornata in un giardino a badare ad alberi e fiori e a stare zitto in molti modi e dentro qualche pensiero di passaggio, una canzone, la pausa di una nuvola che toglie sole e peso dalla schiena.

A stare zitti mentre il corpo lavora, vengono pensieri di nuoto e di volo. Da un aprile di molti anni fa torno a vedere il cielo di Gerico imbiancato di cicogne, migranti dall’Africa verso i tetti d’Europa.

Nel giardino i passanti erano la specie, mentre i reclusi gli esemplari, unici anche quando erano in gruppo. Le bestie erano il riassunto di una varietà. Noi la ripetizione di un tema. Nel giardino ero un caso comune di uomo e gli animali mi guardavano come io guardo una folla : senza vedere nessuno.

Un uomo alto, un africano, anziano, mi accenna dal cancello.[…] Ha denti buoni per sorridere.Qui fa il manovale, a casa alleva bestiame. […] In bocca succhia quqlcosa. Non è una caramella, è un nocciolo d’oliva. Ama  le olive scure,la forza dell’olio di chiudersi in un legno duro da rodere, gli piace il gusto dell’osso e lo rigira in bocca fino a che è liscio e senza più sapore.
Le olive mi tengono compagnia, dice.
Una manciata gli dura un giorno.
Il caffè sale, scroscia profumato nella gola della macchinetta. Prima di berlo dice una preghiera di …ringraziamento. Tu no, chiede, io no.
Prego, dice, davanti a ogni cosa che porto alla bocca. Prego per legare il giorno al suo sostegno, come faccio con la cannuzza vicino al pomodoro…
Forse per uno d’Africa è più semplice legare terra e cielo con lo spago.

Un albero ascolta comete, pianeti, ammassi e sciami. Sente le tempeste sul sole e le cicale addosso con la stessa premura di vegliare. Un albero è alleanza tra il vicino e il perfetto lontano.
Se viene da un vivaio e deve attecchire in suolo sconosciuto, è confuso come un ragazzo di campagna al primo giorno di fabbrica. Così lo porto a spasso prima di scavargli il posto.

Un albero somiglia a un popolo, più che a una persona. S’impianta con sforzo, attecchisce in segreto. Se resiste, iniziano le generazioni delle foglie.
Allora la terra intorno fa accoglienza e lo spinge verso l’alto.
La terra ha desiderio di altezza, di cielo. Spinge i continenti all’urto per innalzare creste.
Si struscia attorno alle radici per espandersi in aria con il legno

Le facce sono scritte.
Anche le mani, dico, e le nuvole, il manto delle tigri, la buccia dei fagioli e il salto dei tonni a pelo d’acqua è scrittura.
Impariamo alfabeti e non sappiamo leggere gli alberi. Le querce sono romanzi, i pini sono grammatiche, le viti sono salmi, i rampicanti proverbi, gli abeti sono arringhe difensive, i cipressi accuse, il rosmarino è una canzone, l’alloro è una profezia.

Al giardino Selim viene per le mimose e per parlare un po’ del suo paese dove si va scalzi e per questo si parla volentieri.
Quando tu metti le scarpe non parli, questo pensa di noi. Senza la nuda pianta del piede sopra il suolo, noi siamo isolati, dice la sua lingua che deve avere dentro una lisca d’argento per essere così sonante.
È la verità, dico, è puro amen : tutta la nostra storia è una scarpa che ci stacca dal suolo del mondo. Scarpa è la casa, la macchina, il libro. Pezzo di santo d’Africa, penso, vieni a dare la tua sapienza a un selvaggio d’Europa che segue la luna sul calendario e le nuvole sul bollettino della radio e non sa leggere nessuna parola senza un alfabeto.

Del resto Selim è uno che prega e, come abbiamo visto, conosce il segreto che consente di tenere uniti terra e cielo :
« Ti intendi con la cenere e col cielo, quante ne sai, Selim ? »
Soffio solo un po’ di grazie in alto, dice.
Faccio salire fiato, che si combina con le nuvole e diventa pioggia. Un uomo prega e così ammucchia la sostanza in cielo. Le nuvole sono piene di fiato di preghiere.
[…] E lui ride con me e dice che è buono ridere e che la fede viene dopo di ridere, più che dopo di piangere.

Di fronte al giardino del mio lavoro c’è una macchina ferma con un uomo dentro. Non devo chiedere se è quello.
Siamo a un angolo in cui possiamo vederlo senza essere visti. […]
Risalgo la via e prima di entrare nel giardino passo lentamente a fianco della macchina ferma dal lato dell’autista e ci guardiamo e io sento sale in bocca.
Uno di noi due è già morto e adesso a me non importa sapere chi.
Attraverso la strada e entro nel giardino.

So che porta via con sé il coltello per continuare a tagliare pane, a fare mazzi di fiori, a spaccare un frutto.
Chi ama le cose e sa il valore di usarle, non le abbandona a un ultimo servizio maledetto.

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