Othello (O. Welles, 1952, v.o. sott. fr.) european version …e l’altra

Othello (O. Welles, 1952, v.o. sott. fr.) european version …

OTELLO

recensione di Stefano Lorusso

Du­ran­te il pe­rio­do delle Re­pub­bli­che Ma­ri­na­re, Otel­lo, detto il moro di Ve­ne­zia, viene in­via­to dal doge a di­fen­de­re la roc­ca­for­te di Cipro dai mu­sul­ma­ni, dopo il su ma­tri­mo­nio con la bella e no­bi­le De­sde­mo­na.

Aven­do scel­to Cas­sio come aiu­tan­te, Otel­lo pro­vo­ca in­vi­dia e ge­lo­sia nel per­fi­do Jago, che co­min­cia ad in­si­nua­re dubbi sulla fe­del­tà della mo­glie.

Con un ar­ti­fi­cio, il sub­do­lo Jago crea l’in­ci­den­te del faz­zo­let­to di De­sde­mo­na. A que­sto punto l’in­ge­nuo Otel­lo gli crede e folle di ge­lo­sia…

Otel­lo: rac­con­to per­fet­to e su­bli­me di vio­len­te pas­sio­ni, di ac­ce­can­ti ge­lo­sie, di odio­si tra­di­men­ti, di sot­tar­ra­nee mac­chi­na­zio­ni. In quel­la che è forse la più po­ten­te delle tra­ge­die di Wil­liam Sha­ke­spea­re, ri­splen­do­no per­so­nag­gi ora­mai iscrit­ti nella di­men­sio­ne del mito: Il Moro, Iago, De­sde­mo­na, Cas­sio. Bu­rat­ti­ni scioc­chi e in­fe­li­ci nelle mani di un sa­pien­te ma­no­vra­to­re che ot­tun­de ed il­lu­mi­na, che ri­schia­ra ed eclis­sa, che an­no­da e che scio­glie i lacci del rac­con­to con as­so­lu­ta mae­stria.

Ca­po­la­vo­ro let­te­ra­rio che (raro caso) “par­to­ri­sce” un vi­vi­do ca­po­la­vo­ro per im­ma­gi­ni. Wel­les/Sha­ke­spea­re, au­to­ri veri en­tram­bi, così lon­ta­ni e così vi­ci­ni. Wel­les/Sha­ke­spea­re: nella forza di un bian­co e nero con­tra­sta­tis­si­mo non si smar­ri­sce nem­me­no un gra­nel­lo di quel vi­go­re te­stua­le, di quel­la vio­len­za espres­si­va che sor­reg­ge l’o­pe­ra del Bardo di Avon. Bian­co o nero: sono ban­di­te le mezze mi­su­re nell’ Othel­lo. E Orson Wel­les era uno che alle mezze mi­su­re non ci si è mai adat­ta­to…

Me­mo­ra­bi­le, ma­gni­fi­ca, ter­ri­bi­le se­quen­za ini­zia­le di bar­ba­ri­ca e tel­lu­ri­ca bel­lez­za, ad apri­re la vi­sio­ne del film. Ombre nere (le bru­cian­ti pas­sio­ni degli uo­mi­ni) ri­ta­glia­no nette ed obli­que il loro spa­zio vi­ta­le (in real­tà uno spa­zio di morte, per­chè alla morte e “la morte” con­du­co­no) sul cielo terso di campi lun­ghi fuori dal tempo. I pre­sa­gi più fu­ne­sti hanno già as­sun­to la “forma” cor­po­rea di due ca­da­ve­ri. Nei tagli espres­sio­ni­sti e nel gioco ar­chi­tet­to­ni­co dei pieni/vuoti, avan­za lenta e so­len­ne una pro­ces­sio­ne di uo­mi­ni e croci.

Im­pos­si­bi­le li­be­rar­si di si­mi­li im­pres­sio­ni sen­so­ria­li, im­pos­si­bi­le sgom­bra­re il campo (vi­si­vo ed emo­zio­na­le) da si­mi­li ap­pa­ri­zio­ni, im­pos­si­bi­le non ca­de­re pri­gio­nie­ri della fa­sci­na­zio­ne che esplo­de in que­sti fo­to­gram­mi. A se­gui­re, il gran­dio­so ludus wel­le­sia­no si di­pa­na in un for­sen­na­to suc­ce­der­si di in­qua­dra­tu­re sghem­be (de­bi­tri­ci dei Numi dell’espres­sio­ni­smo te­de­sco), di ro­boan­ti ba­roc­chi­smi fi­gu­ra­ti­vi, di li­be­ris­si­mi mo­vi­men­ti di mac­chi­na.

A fare da col­lan­te un mon­tag­gio fre­ne­ti­co, che in un fiam­meg­gian­te mo­sai­co di im­ma­gi­ni con­giun­ge fram­men­ti di ful­mi­nea du­ra­ta (con Iago pro­ta­go­ni­sta, per­so­nag­gio sfug­gen­te e sfin­geo nella sua dia­bo­li­ca per­ver­sio­ne) a piani se­quen­za più pa­ca­ta­men­te svi­lup­pa­ti (mo­men­ti che in ge­ne­re de­fi­ni­sco­no la gi­gan­te­sca fi­gu­ra di Othel­lo, la più gran­de vit­ti­ma della per­fi­da mac­chi­na­zio­ne del suo servo). Con­trap­pun­ti sti­li­sti­ci per mar­ca­re la pro­fon­da di­ver­si­tà “di spi­ri­to” dei due pro­ta­go­ni­sti, quin­di: il cor­rut­to­re e il cor­rot­to, il per­fi­do in­gan­na­to­re e l’in­no­cen­te in­gan­na­to.

En­tram­bi pe­di­ne di una par­ti­ta a scac­chi gio­ca­ta dai de­mo­ni delle istin­tua­li­tà umane. Mo­nu­men­ta­le prova at­to­ria­le di Mi­cheal Ma­cLiam­moir, da molti de­fi­ni­to “il più gran­de Jago della sto­ria del ci­ne­ma“, di lu­ci­fe­ri­na ma­li­gni­tà e fe­ro­cia. Per non par­la­re del ma­gni­fi­co Moro Wel­le­sia­no, in cui le con­ces­sio­ni al­l’en­fa­si sono spes­so in­tel­li­gen­te­men­te te­nu­te a freno da un la­vo­ro di scavo psi­co­lo­gi­co de­ci­sa­men­te riu­sci­to.

Gi­ra­to nel­l’ar­co di quat­tro lun­ghi anni (1949-1952) tra l’I­ta­lia e il Ma­roc­co, il film co­nob­be non poche tra­ver­sie in fase di pro­du­zio­ne, com­pre­so il fal­li­men­to della casa che aveva ac­cet­ta­to ori­gi­na­ria­men­te di so­ste­ne­re il pro­get­to. Molto com­ples­so nel­l’u­so delle sce­no­gra­fie, rag­giun­ge pro­prio gra­zie alla co­stru­zio­ne di quel “rea­li­smo fit­ti­zio” così in­di­spen­sa­bi­le nel ci­ne­ma (a dif­fe­ren­za del tea­tro) la sua piena di­gni­tà di ca­po­la­vo­ro ci­ne­ma­to­gra­fi­co.

Nel pre­ce­den­te Mac­be­th, Wel­les com­pien­do una scel­ta ra­di­cal­men­te di­ver­sa (quel­la di ri­nun­cia­re quasi del tutto alla sce­no­gra­fia e alla co­stru­zio­ne della messa in scena) aveva fi­ni­to per far soc­com­be­re il film sotto la scure della tea­tra­li­tà. In Otel­lo que­sto pe­ri­co­lo è fu­ga­to e su­pe­ra­to at­tra­ver­so l’uso co­scien­te e ar­ti­co­la­to degli spazi sce­no­gra­fi­ci. Sem­pre al­l’in­se­gna della estre­ma (e tut­ta­via ri­cer­ca­ta e vo­lu­ta) fram­men­ta­zio­ne e de­strut­tu­ra­zio­ne del testoWel­les in Otel­lo gioca per­si­no me­sco­lan­do le carte dei luo­ghi del­l’a­zio­ne. Le chi­lo­me­tri­che di­stan­ze tra set di­ver­si e lon­ta­nis­si­mi si pos­so­no su­tu­ra­re at­tra­ver­so l’a­stu­ta ma­ni­po­la­zio­ne del mon­ta­to.

In un’in­ter­vi­sta lo stes­so Wel­les avrà modo di dire, con il suo im­pa­vi­do tono au­to­com­pia­ciu­to: “Iago esce dal por­ti­co della chie­sa di Tor­cel­lo, un’i­so­la della la­gu­na ve­ne­ta, per en­tra­re in una ci­ster­na por­to­ghe­se. Ha at­tra­ver­sa­to e cam­bia­to con­ti­nen­te nel bel mezzo di una frase. In Otel­lo suc­ce­de con­ti­nua­men­te. Una scala to­sca­na si pro­lun­ga in un ter­ra­pie­no ma­roc­chi­no per co­sti­tui­re uno spa­zio unico. Ro­de­ri­go col­pi­sce Cas­sio a Ma­za­gan e Cas­sio re­sti­tui­sce il colpo ad Or­vie­to, a mille mi­glia di di­stan­za“. E’ la fal­si­fi­can­te e stra­fot­ten­te ge­nia­li­tà wel­le­sia­na al­l’o­pe­ra. E’ il bef­far­do gusto dello scher­zo, ti­pi­co del gran­de Orson. Pren­de­re o la­scia­re. F per falso, quindi…​ma falso d’au­to­re. Un gran­dis­si­mo falso d’au­to­re.

http://www.storiadeifilm.it/altro/artistico_allegorico/orson_welles-otello%281952%29.html


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