Fear – La Paura, last dance between Roberto Rossellini and Ingrid Bergman

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La paura

“It takes place in Germany, of course, Signora Wagner has a lover, she’s pestered by fear and a blackmailer, set on by her husband, a medical researcher.

One of Godard’s Ten Best Films that year, with Welles, Renoir, Hitchcock, Logan, Dwan, Sternberg, Bresson, Cukor, and Quine (“whereas Paisà, not so very long ago,” he later wrote, “was the rage of the Cannes Festival, Fear came out last year in a seedy second-run cinema”).

Rossellini interviewed by Godard (tr. Tom Milne), “do you remember the doctor in Fear who treats his wife like the guinea-pigs he uses for his experiments? For in the final analysis intelligence, too, is a convention; and behind the intelligence I seek to show not only how it works but why it works in this way. I would like to show the animal side of intelligence, just as in India 58 I showed the intelligence in animal behaviour.”

LA PAURA

Il cinema di Rossellini é autoriale. Anche se il regista contò fra i suoi collaboratori scrittori famosi, La paura fu l’unico film a nascere da una fonte letteraria. Il racconto é di Stefan Zweig, Die Angst, 1913, e appartiene alla prima fase produttiva del grande narratore della mitteleuropa. La storia di Irene e la ricattatrice, suo marito e l’amante si svolge nella Vienna della Belle Epoque, mondo dorato che si avviava a ritmo di valzer verso la catastrofe. Gli scrittori della Jungwein come Zweig furono i giovani stretti in quella morsa, Freud il loro nume tutelare, Schnitzler un modello insuperabile, la Grande Guerra e l’Anchlüss per molti l’inizio della fine. L’eroina del racconto di Zweig é la donna di un tempo inesorabilmente superato dalla Storia. Quella di Rossellini vive mezzo secolo dopo, in una Germania che avrebbe voluto plasmare l’Europa a sua immagine. La finis Austriae, prima ancora che fine di un Impero, fu la fine dei suoi miti. I disastri interiori di questa signora della buona borghesia viennese sono il crollo di una città che identificava una nazione e che Karl Kraus definì: “laboratorio sperimentale della fine del mondo”. Nel 1913 Zweig mise in scena un dramma molto privato, che portava però evidenti i segni di una malattia ben più estesa, quella della Vienna asburgica, “terra dei mangiatori di loto” (( Cit. in Barbara W. Tuchman, Dall’Expo’ a Sarajevo, Mondadori, 1962, p. 386 )) , di cui il conte Czernin, ex ministro degli esteri di Francesco Giuseppe, disse un giorno, commentando il crollo dell’impero (( Cit. in M. Freschi, La Vienna di fine secolo, 1997, Editori Riuniti, Roma, p.9 )) “Eravamo destinati a morire. Eravamo liberi soltanto di scegliere come, e scegliemmo la via più spaventosa”. Cosa lega dunque l’Irene di Zweig all’Irene di Rossellini? Il regista gira nel ’54, ambienta la storia a Monaco di Baviera, introduce cambiamenti abbastanza sostanziali nell’intreccio, Sergio Amidei e Franz Von Treuberg collaborano alla sceneggiatura, il figlio Renzo cura la colonna sonora. La scena é dominata dalla Bergman, una Irene centro assoluto della vicenda come il suo prototipo letterario, ma donna di una Germania del dopo-dopoguerra in piena ripresa economica e con un rimosso molto grande con cui convivere. La presa sul reale, lo sguardo sulla contemporaneità e la vocazione documentaria di Rossellini non vengono meno, neppure quando si ispira ad un dramma che mette a nudo riflessi profondi della psiche, facendo emergere quel doppio che sconvolge le barriere della propria vita svelandone parti sconosciute. La Germania di Paura é la stessa che solo qualche anno prima, 1947, ritraeva in Germania anno zero, sepolta dalle macerie reali e morali di una Berlino spettrale in cui l’innocenza del piccolo Edmund non poteva sopravvivere incontaminata. Nella lunga sequenza iniziale di Paura, un pezzo di buon cinema che gli storici tedeschi apprezzarono molto per la visione che dava del loro Paese (anni dopo sarà l’Heimat di Reitz a raccontare la storia vera della Germania del secolo scorso), Monaco é sfavillante di luci, rumorosa di traffico, febbrile nei bar e nei negozi, ma la carrellata verticale che scende pian piano lungo la torre del Dom zu Unserer Lieben Frau ha un rintocco funebre. Die Angst, la paura, é il sentimento che risucchia Irene, la traditrice ricattata, e la porta ai confini del suicidio, ma può essere anche la paura di un mondo costretto a scavare nelle sue rimozioni e, come lei, scoprirsi colpevole senza attenuanti. Gli extra del DVD che porta la versione restaurata del film e, delle quattro travagliate edizioni, quella italiana del ’54, la migliore, si diffondono sulla genesi del film, sulle sue molteplici versioni e sul perché di una scelta così eterodossa da parte di un autore notoriamente poco incline all’indagine sui meccanismi complessi del profondo che si avvitano in storie complesse tinte di noir. I risvolti della sua vita privata, il riferimento a quella partnership artistica e sentimentale che per anni fu oggetto di critiche e ostracismi estenuanti, brani da cinegiornali d’epoca che ritraggono con toni moralisticamente ironici le numerose e variegate famiglie dei due artisti, tutto torna in superficie, così da far pensare che nulla riuscirà mai a salvare Rossellini da sé stesso, consentendo di valutare quella parte della sua opera segnata dalla presenza della Bergman a prescindere dalla sua vita di uomo. Se può essere interessante osservare i fenomeni di costume e le facce di un Paese che traspaiono nella storia di un film e della sua fortuna, altro é però valutarne le qualità attenendosi a codici esclusivamente cinematografici. Quello che negli anni ’50 servì a stroncarlo non può essere oggi mezzo di una rivalutazione postuma, e del film vanno, sì, riconosciuti pregi, ma anche evidenziati difetti. Quello che risalta, ed é il suo limite maggiore, é la presenza di figure sbiadite al fianco di Irene, attori volenterosi ma anonimi, compreso quel Mathias Wieman, attore di teatro interprete del marito, che in Zweig é figura intensa e di forte rilievo, pur nella presenza limitata sulla scena, nel film quasi scompare, e non perché sepolto dal colosso Bergman, ma per quell’aria dimessa, da vinto, lontana anni luce dal Fritz di Zweig e adatta, se mai, ad un Mattia Pascal. La Bergman non é nelle sue pérformances migliori, le nuoce il confronto col precedente letterario, non si riesce a calarla nei panni della frivola e smarrita eroina di Zweig, neanche quando Rossellini la veste da bella tirolese nel mezzo dei campi fioriti di Baviera. La paura non fu un film di successo. Male accolto da critica e pubblico, fu ritirato e poi rieditato, rimontato e infine, nell’edizione del ’58, dotato di un orrendo sottotitolo: “Non credo più all’amore”. Il mélo finì così per prevalere sul noir, lo psicodramma intessuto di finissimo scandaglio introspettivo del racconto viennese si perse nel nulla, il documentarismo critico di Rossellini lasciò il posto ad una storia di sconcertante banalità. Nell’edizione italiana restaurata sopravvivono la buona fotografia di Carlini, il focus del Rossellini migliore su una Monaco anni 50’ che dice molto sulla capacità dei Tedeschi di colmare i baratri segnati dalla Storia, un montaggio ben diretto che assolve bene alla sua funzione diegetica, ma ci sono soluzioni drammaturgiche a tratti forzate, il finale non rende un buon servizio allo sviluppo della storia, affrettato com’é, la distanza dal libro non é segnata solo dal cambio di nomi e tempi, ma da una sostanziale diversità d’intenti e di mano conduttrice. L’Irene di Zweig ha un amante “a cui si é data per una certa qual indolenza nel resistere alle sue avances e per una sorta di curiosità inquieta”. È una donna inerte, mollemente adagiata nel benessere fornito dal marito avvocato, tutta protesa fuori di sé in una vanità che l’appaga fin quando il ricatto di una donna volgare, sguaiata popolana, minaccia l’equilibrio della sua vita dorata e protetta. Irene scopre così la paura, ma di cosa? Di perdere quella sicurezza immobile in cui é cresciuta e vissuta. Dover diventare un essere umano vero, responsabile delle proprie azioni, é cosa che può suscitare angoscia. Scoprirsi tanto facilmente capaci di doppiezza, vedere all’improvviso quanto falso é ciò di cui si vive senza darsi pena, é dramma che può portare alle soglie del suicidio. Zweig sapeva come guidare il lettore lungo le pieghe sottili in cui si annida l’uomo ripiegato su sé stesso, avrebbe potuto dire anche a lui le cose che Freud scrisse a Schnitzler, un giorno, per significargli la sua stima: “La Sua penetrazione nella verità dell’inconscio, nella natura pulsionale dell’uomo, la Sua demolizione delle certezze convenzionali della civiltà, l’adesione dei Suoi pensieri alla polarità di amore e morte, tutto ciò mi ha colpito con una inquietante familiarità” (( S.Freud, Lettere 1873-1939, a cura di E.L.Freud, Torino, 1960, p. .312 )) La spinta al suicidio viene rimossa dall’intervento salvifico del marito. Irene torna a vivere, libera dalla paura, forse é diventata una donna consapevole. “Dentro di sé provava un leggero dolore, ma era una sofferenza piena di promesse, ardente e dolce al tempo stesso, come le ferite che bruciano prima di cicatrizzarsi per sempre”. Così chiude Zweig. Cercare nel film significati politici é possibile, come nel libro, c’é sempre dietro l’opera un uomo col suo sguardo sul mondo. La Vienna che nel ’13 ancora ci s’illudeva promettesse un futuro all’altezza del suo straordinario presente, la Germania che aveva tradito l’Europa e ora, negli anni ’50, cercava di rifarsi il trucco. Zweig morì suicida quando quella speranza si rivelò fallace, e questo non rende meno vero quello che ha detto dell’animo umano in una storia d’anteguerra. Rossellini non firmò uno dei suoi capolavori, girò un film onesto con qualche tocco da grande Maestro qual era. Le due opere sono storie diverse di mondi diversi e, soprattutto, raccontate da uomini diversi. E se raccontare é un po’ come sognare, teniamo per buono quello che diceva Canetti: “Nessun sogno é mai stato così insensato come le sue spiegazioni“.

http://www.indie-eye.it/cinema/digital/la-paura-di-roberto-rossellini-dvd-flamingo-video-2012.html

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