Que grande es el cine : EUROPA 51 ! Rossellini

Europa ’51

Dopo l’anno zero

Di Sergio Di Lino

Film paradigmatico dei sommovimenti strutturali dell’opera di Roberto Rossellini

Se c’è un film che può essere preso a paradigma dell’opera, per molti versi multiforme e in alcuni passaggi persino contraddittoria, di Roberto Rossellini, questo è Europa ’51. Ben lungi dall’essere un normativo “film-spartiacque” (come può essere considerato, ad esempio, Paisà) della filmografia del regista (la trilogia neorealista era già parte integrante della storia personale e professionale del regista, mentre il periodo dei film con Ingrid Bergman era in pieno svolgimento, e pur inframmezzato da altri titoli che non contemplavano la presenza dell’attrice svedese – Francesco giullare di Dio, La macchina ammazzacattivi, gli episodi Invidia e Napoli 1943 inseriti rispettivamente nei collettivi I sette peccati capitali e Amori di mezzo secolo, Dov’è la libertà…? –, aveva già prodotto un’opera seminale quale Stromboli terra di Dio e si avviava a completarsi con l’episodio “casalingo” del collettivo Siamo donne – in cui l’attrice interpreta se stessa – e con i successivi Viaggio in Italia, Giovanna d’Arco al rogo e La paura-Non credo più all’amore), esso ne catalizza i tratti fondanti e li proietta sull’intero corpus di opere rosselliniano, dandosi come “centro” perfetto e assoluto. Alla base di Europa ’51 c’è la definitiva abiura dalla funzione spettacolarizzante del cinema, che pur messa in crisi, problematizzata, destrutturata, ancora informava sottotraccia le architetture retoriche e drammaturgiche dei capolavori neorealisti (basti pensare a certi momenti di Roma città aperta, che sostano dalle parti del racconto di genere quasi “all’americana” – nella loro sostanziale adesione a parte dei codici del cinema classico – o del feuilleton ottocentesco), e la piena fiducia in una nuova, duplice “missione” di cui il cinema doveva essere investito: da un lato, esso doveva configurarsi come strumento di scandaglio “spirituale”, in grado di analizzare con lucidità ma anche con partecipazione il grado di tensione etica, morale e metafisica dell’uomo contemporaneo; dall’altro, esso doveva mostrarsi in grado di offrirsi al tempo stesso come specchio delle “deformità” che avevano deturpato le coscienze degli uomini, e fornire di queste una lettura “in divenire”, che comprendesse al proprio interno anche il tentativo di indicare una possibile via d’uscita. Una funzione rinnovatrice, che fosse al tempo stesso empatica e maieutica, si andava dunque affermando “dall’interno” – e non più da urgenze esogene, come nel periodo neorealista – nel cinema rosselliniano, sin dalle opere immediatamente successive alla cosiddetta “trilogia della Resistenza”.
Se infatti il trittico costituito da Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero era ancora sostanzialmente informato da uno sguardo di attonito sgomento verso le macerie fisiche e morali in cui l’Europa – e l’Italia in particolare – versava al termine della Seconda Guerra Mondiale, se lo stesso Stromboli terra di Dio, ma anche il precedente L’amore (un “due atti” per il 50% di origine teatrale – il primo dei due episodi di cui è composto è tratto dal monologo La Voix humaine di Jean Cocteau – in genere considerato tra i lavori “minori” di Rossellini) e, in maniera sin troppo didascalica, il successivo Francesco giullare di Dio, rappresentavano un’accorata invocazione al recupero di una dimensione morale e spirituale umiliata e offesa dalla barbarie, i film successivi di Rossellini virano decisamente verso una questione puramente “intellettuale”, basata sulla necessità di dare plasticamente forma al travaglio emotivo dei personaggi.
Dopo una manciata di anni, la ricostruzione era ormai avviata a pieno ritmo, e Rossellini non aveva più a disposizione scenari devastati e squarci pseudo-apocalittici da utilizzare come “specchi” del dissesto interiore dei suoi personaggi (basti pensare al rapporto tragicamente simbiotico fra Edmund e la Berlino devastata dalle bombe in Germania anno zero); era dunque in un certo senso “costretto” (o, per meglio dire, indotto dalla contingenza del paesaggio che andava rapidamente mutando intorno a lui, con i primi prodromi della modernizzazione selvaggia che si andavano affacciando ai margini delle grandi città) a rivedere completamente il proprio registro interpretativo. Ciò che prima era efficacemente sintetizzato nell’accostamento dialettico fra la figura umana e il paesaggio, doveva essere ora necessariamente introiettato all’interno del personaggio, giacché il paesaggio italiano di quegli anni, così forsennatamente proiettato verso un futuro di prosperità (sono pur sempre gli anni che precedono il “boom” economico degli anni Sessanta), non trovava alcuna collimazione in quell’inquietudine che Rossellini tentava ancora di rintracciare nelle pieghe di un improvviso/improvvisato benessere, acquisito da un giorno all’altro e innestato in un tessuto sociale che fino a pochi anni prima aveva conosciuto solo l’indigenza e le privazioni della guerra; con prevedibili effetti di alienazione, di “distacco” progressivo delle coscienze più sensibili dalla realtà del contingente.
Nasce proprio sotto il segno di questa inquietudine il personaggio di Irene, la protagonista di Europa ’51, moglie di un diplomatico straniero residente a Roma tormentata dal ricordo di un figlio suicida giovanissimo come l’Edmund di Germania anno zero. Personaggio complesso e sfaccettato, frutto di un lavoro di sceneggiatura che, accanto agli iniziali e fondanti contributi di Federico Fellini e Tullio Pinelli, vide affiancarsi e/o avvicendarsi – oltre ovviamente allo stesso Rossellini -, fra gli altri, Massimo Mida e Antonello Trombadori, e in un secondo momento, allorché si decise di spostare il set principale da Parigi a Roma, Sandro De Feo, Ivo Perilli, Brunello Rondi e Diego Fabbri, e nella fase finale anche Antonio Pietrangeli e Mario Pannunzio. Spesso, proprio a causa della cesellatura estrema della sceneggiatura operata da un team di qualificati professionisti, Europa ’51 è stato accusato di schematismo, didascalismo, di una consequenzialità quasi “algebrica” nella dimostrazione della “tesi” che lo informa. In realtà, proprio questa estrema “esattezza” degli assunti consente a Rossellini essenzialmente due libertà: in prima istanza, di chiarificare il proprio discorso etico, andando a investire una serie di questioni che di lì a poco sarebbero deflagrate in seno al dibattito socio-culturale italiano, quali il ruolo della donna nella società post-industriale e post-bellica, la rimozione della memoria, la conformazione coatta a modelli di vita precostituiti e/o preesistenti (perlopiù “d’importazione”, come d’importazione è il marito di Irene), la negazione dei valori spirituali, la “devianza” e la “follia” viste come patologie insanabili e dunque passibili di isolamento rispetto alla parte sana della società; e in seconda analisi, di soffermarsi più a lungo e con maggiore attenzione sulle questioni formali, sullo stile e sulla messa in scena. E in entrambi i campi, Europa ’51 si rivela come un testo anticipatore di molte delle istanze che negli anni successivi diverranno fondanti nella poetica di alcuni dei cineasti più innovativi del panorama mondiale. Si pensi, ad esempio, alle tematiche sopra riportate, che oltre a costituire, di lì a qualche anno, oggetto di accesi dibattiti culturali, confluiranno – opportunamente “depurate” e sintetizzate da uno sguardo giocoforza più laico e molto meno “spirituale” in senso lato – nel cinema di Michelangelo Antonioni. Ma si pensi altresì allo stile, sospeso e controllatissimo, già lontano anni luce dalle “sporcature” del trittico neorealista, e più vicino a certi coevi esperimenti sul linguaggio di Robert Bresson (l’insistenza sul fuoricampo) e Carl Theodor Dreyer (l’uso quasi espressionista del primo piano), proiettandosi nel futuro per l’uso di alcuni movimenti di macchina che anticipano il cinema della “dizione controllata” (definizione di Christian Metz) di Alain Resnais.
La “Passione” laica di Irene, sconvolta dalla morte del figlio, che cerca conforto nell’aiuto disinteressato ai poveri delle borgate, finendo per essere ritenuta pazza dal marito (nota di servizio: chi, scorrendo queste brevi linee sinottiche, trovasse più di un’analogia con il recente Cuore sacro di Ferzan Ozpetek, al punto di interrogarsi sul confine fra “omaggio al Maestro” e semplice plagio, è ampiamente giustificato…) e infine rinchiusa in manicomio, è dunque accompagnata da una messa in scena ugualmente ascetica, che elide molto spesso il contesto privilegiando i particolari del volto di Ingrid Bergman: tutti gli impercettibili glissements della narrazione passano per i minimali mutamenti di espressione dell’attrice, che disegnano traiettorie e percorsi esistenziali, come se quel volto rappresentasse la mappatura esatta delle possibili varianti di un’esistenza; la condizione iniziale/inerziale di agiatezza e serenità di Irene – spietatamente lasciata ai margini del racconto, come una scoria in rapida via di espulsione dal “corpo” della narrazione – muta progressivamente in disperazione per poi sublimarsi in una forma di pietas panteistica che trasforma Irene in un’agente evangelizzatrice. Anche questa ricollocazione dello status morale di Irene passa interamente attraverso il volto e i gesti dell’attrice, rifuggendo Rossellini dall’esplicitazione dell’iter della donna attraverso il ricorrere all’iconografia sacra; mentre gli altri personaggi fungono da “coro”, commentando e descrivendosi reciprocamente le “stranezze” di Irene.
Ma Irene non è, evidentemente, né il San Francesco d’Assisi di Francesco giullare di Dio, né tantomeno la Giovanna d’Arco che la stessa Ingrid Bergman interpreterà di lì a poco sempre per Rossellini. Irene non appartiene a un mondo arcaico in cui la distinzione fra bene e male, fra sacro e profano, fra compassione e crudeltà, poteva essere facilmente individuata e isolata nella propria cristallina trasparenza; Irene è figlia di una civiltà che alle questioni morali ha sostituito, quasi “per protocollo”, ragioni di opportunità: ed è per opportunità, non per crudeltà né per timore dell’eccentricità della donna, che la “beatificazione mancata” di Irene si arresta a metà del guado, rinchiusa fra le quattro mura di una casa di cura per malattie mentali, dove Irene è destinata, per volere e su autorizzazione del marito, a vivere fino al resto dei suoi giorni.
Ancora una volta, come durante il conflitto, il germe dell’uomo nuovo, risorto dalle ceneri della guerra, per Rossellini appare destinato allo scacco, o meglio, alla repressione delle proprie velleità. Eppure, fra le righe, rispetto all’oppressione dei film del periodo bellico, si nota già un’apertura del cineasta, che offre ai suoi personaggi se non altro una possibilità di redenzione, nelle forme di una scelta che a Edmund, come ai personaggi di Paisà e Roma città aperta, era negata.

Scheda Tecnica:

Regia: Roberto Rossellini
Sceneggiatura: Sandro De Feo, Diego Fabbri, Federico Fellini, Mario Pannunzio, Ivo Perilli, Antonio Pietrangeli, Brunello Rondi, Donald Ogden Stewart
Fotografia: Aldo Tonti
Montaggio: Jolanda Benvenuti
Scenografia: Virgilio Marchi
Costumi: Fernanda Gattinoni
Musiche: Renzo Rossellini
Produzione: Ponti-De Laurentiis
Distribuzione: Lux Film
Cast: Ingrid Bergman, Alexander Knox, Ettore Giannini, Giulietta Masina

Nazione: Italia
Anno di produzione: 1952
Durata: 110 min.
Caratteristiche tecniche: 35mm – B/N – Mono

http://www.cinemavvenire.it/overlook-hotel/dopo-lanno-zero/europa-51



Europa ’51 (1952) Roberto Rossellini -1/2 di nenhn


Europa ’51 (1952) Roberto Rossellini -2/2 di nenhn




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