CLAUDE DEBUSSY – PELLÉAS ET MÉLISANDE : analisi, Abbado , Boulez

 

CARLO MIGLIACCIO
CLAUDE DEBUSSY – PELLÉAS ET MÉLISANDE

Quando il 17 maggio del 1893 Debussy assistette alla rappresentazione del dramma Pelléas et Mélisande di Maurice Maeterlinck al Théâtre des Bouffes-Parisiens, e quando subito ne lesse il testo, forse dovette avere l’impressione di trovarsi di fronte a una rivelazione, ossia al dramma e al poeta che da tempo sognava, da quando – pochi anni addietro – si confidava con Guiraud dicendo che «la musica comincia dove la parola finisce. La musica è per l’inesprimibile. Deve uscire dall’ombra ed essere discreta». E il poeta sarà quello «delle cose dette a metà»:

Non luoghi stabiliti, non date prefissate. Niente grandi scene. Nessuna pressione sul musicista, che deve dar corpo e completare l’opera del poeta. […] Io sogno poemi brevi, con scene mobili. Me ne infischio delle tre unità! Scene variate nel luogo e nel carattere. Personaggi che non discutono, ma subiscono la vita e il destino.

Dopo aver ottenuto verbalmente una prima autorizzazione da Maeterlinck, il compositore inizia subito a lavorare alla messa in musica di quel testo, utilizzandolo direttamente, con alcuni tagli e correzioni. In quattro mesi compone la scena della «fontana nel parco» (IV, 4). Verso la fine dell’anno, probabilmente perché più sicuro di aver trovato il bandolo della matassa, fa di tutto per contattare Maeterlinck, tramite Camille Mauclair e Henri de Régnier, fino a incontrarlo a Gand, accompagnato da Louÿs, per ottenere l’autorizzazione sia a musicare sia ad apportare gli opportuni tagli al dramma – cosa che Maeterlinck concede con molta cordialità. Sull’incontro e sui turbolenti sviluppi del rapporto tra Debussy e lo scrittore già si è detto nel primo capitolo.
Non senza difficoltà e intoppi, Debussy lavora febbrilmente per quasi due anni, e alla fine dell’estate 1895 confida agli amici che l’opera è delineata, tanto che André Messager subito si prodiga a convincere l’impresario dell’Opéra-Comique Albert Carré ad allestirne la rappresentazione, che lo stesso Messager poi dirigerà. Mancano solo gli interludi per dare tempo al cambio delle scene, che di malavoglia verranno completati da Debussy solo poco prima dell’esecuzione – e l’orchestrazione: questa viene stesa a partire dal maggio 1901, solo quando egli riesce ad avere da Carré l’assicurazione che l’opera sarebbe andata in scena. Che nella sua struttura la composizione fosse già pressoché pronta fin dal 1895 è dimostrato dal fatto che per più di una volta si cercò, invano, di rappresentarla, anche se in forme diverse da quella teatrale (versione da camera nel dicembre 1895 al Théâtre de l’Oeuvre e, in concorrenza, dal Théâtre Libre; poco tempo dopo, due rappresentazioni private al Pavillon des Muses; suite sinfonica a Londra, sempre lo stesso anno; in forma concertistica a Bruxelles nell’ottobre del ’96, per interessamento di Eugène Ysaÿe). Ma Debussy sempre si era mostrato restio a queste esecuzioni, poiché secondo lui

se quest’opera ha qualche merito, esso consiste nella stretta confessione fra dramma e musica. È chiaro che in una esecuzione concertistica questa connessione verrebbe meno e nessuno potrebbe essere rimproverato per non aver colto quello che c’è sotto gli eloquenti «silenzi» di cui l’opera è disseminata (L, 13-10-1896).

E una nuova concezione del dramma in musica doveva infatti essere inaugurata dal Pelléas et Mélisande, in netta opposizione con le grandi tradizioni operistiche, tedesca, italiana e francese. E principalmente la prima il bersaglio polemico di Debussy: si tratta ovviamente dell’opera wagneriana, responsabile secondo lui di una confusione tra movimento sinfonico e movimento teatrale, nonché tra melodia e lirismo. Come afferma in un’intervista concessa poco prima del 30 aprile 1902 (MC, 266), gli eroi di Wagner «in certi momenti non sanno più cosa dire, solo per il fatto che devono permettere alla sinfonia di svilupparsi»; e la declamazione diviene un inconveniente, se si adatta al movimento musicale e non alla parola musicale. Debussy ritiene infatti inutile quella musica che intende spiegare stati d’animo ed emozioni, quando è solo il personaggio il più autorizzato a farlo. Da qui la confusione tra melodia ed «espressione lirica». La trama sinfonica, wagneriana e neo-wagnenana, «pretende di rendere nello stesso istante il sentimento espresso dal personaggio e le riflessioni interiori che lo fanno agire» (L, 18-4-1909): ciò per Debussy è contraddittorio e arbitrario, mentre atmosfere, stati d’animo, sentimenti vanno resi secondo lui «man mano che si producono». È allora preferibile rinunciare alla trama sinfonica e seguire con naturalezza e «semplicità» le situazioni, senza astrattamente premunirsi di «fili conduttori» o leitmotiven da sviluppare. «Ho cercato di dimostrare che quelli che cantano potessero rimanere umani e naturali, senza mai il bisogno di assomigliare a dei matti o a dei rebus.» (Ibid.)
Infatti per Debussy il leitmotiv deve avere una funzione di pura reminiscenza, simbolica, non di semplice esplicazione; tanto che nella sua opera i temi riappaiono anche trasformati, frammentati, e persino un intervallo isolato si può caricare di funzioni evocative.
Implicita è anche la critica all’opera italiana più recente, colpevole a suo avviso di abbindolare il pubblico con emozioni «false e magniloquenti» e, tramite la distinzione aria-recitativo, sacrificare al dramma la continuità della musica. «Non si traduce la vita con delle canzoni» (MC, 96), dice Debussy, considerando pura aneddotica l’opera di Puccini e Leoncavallo, «furberia» la declamazione – di Mascagni e persino «fabbrica del nulla» tutta la moderna scuola verista.
L’adesione alla realtà per Debussy può essere perseguita solo con un recitativo del tutto diverso, «quale lo intendevano i nostri antichi maestri» – alludendo a Rameau e Monteverdi – ossia «trama melodica, tessuta sul fondo armonico che lega i vari episodi del dramma musicale» (L, 53-1914). Un arioso quindi, capace tanto di sviluppare l’azione quanto di esprimere i sentimenti, e che «fiorisce» nel vero canto solamente allorché l’azione lo richiede.
Ma di magniloquenza sono accusati anche gli operisti francesi ottocenteschi, in particolare Massenet, Meyerbeer, Charpentier: il primo perché «trama abilmente» la musica per assecondare l’applauso del pubblico, il secondo perché è talmente serio da risultare involontariamente ridicolo (MC, pp. 154 sgg.), il terzo per il suo «falso» stile declamatorio, che è solo sintomo di greve populismo (il successo della Louise, rappresentata il 2-2-1900, indignò a tal punto Debussy da fargli desiderare di far eseguire il Pelléas in Giappone). Al suo pubblico invece Debussy chiede uno sforzo di «buona volontà», senza indulgere in ammiccamenti o in effetti artificiosi.
È tutto tranne che orecchiabile può dirsi il Pelléas et Mélisande. Infatti tutti gli elementi tendono non a ostentare superficialmente i caratteri dei personaggi a tutto tondo, bensì a sondare la profondità della loro psicologia, in una specie di immedesimazione che egli stesso provava quando faceva concretizzare alla sua immaginazione i fantasmi di Golaud e di Pelléas; o di una Mélisande che, con voce «dolce e flebile», gli consigliava di non vendersi al «pubblico cosmopolita» e di conservare i sogni e la tenerezza per i suoi capelli (L, 28-8-1894).
Colloquialità, pudore espressivo, minuziosa ricerca delle «innumerevoli sfumature attraverso cui passa un personaggio», il misterioso e impalpabile spessore che anima intimamente la vita e le azioni dei protagonisti, il minimalismo delle frasi e delle situazioni: tutto ciò costituisce la drammaticità-non-drammatica del Pelléas et Mélisande. Coerentemente con gli intenti drammaturgici, la musica svolge una funzione non amplificativa, ma di purificazione espressiva: segue umilmente la vicenda, i protagonisti e le loro parole, a cui si attaglia con discrezione, capace anche, quando occorre, di ritirarsi nella brachilogia e nel silenzio. L’orchestra, per quanto massiccia, viene sfruttata cameristicamente, solo raramente nella sua pienezza e in dinamiche superiori al forte. La melodia è prevalentemente modale, a imitazione dei maestri rinascimentali più amati da Debussy, come Palestrina e Victoria. E la vocalità è sempre rigorosamente sillabica, senza il benché minimo accenno ai vocalismi, intessuta su piccoli intervalli, spesso gradi congiunti, talora ribattuti. L’armonia viene poi portata alle estreme conseguenze della sua emancipazione dai vincoli della funzionalità tonale. Come i personaggi del dramma, gli accordi impiegati, consonanti o dissonanti, non hanno storia, non alludono ad alcuna evoluzione o risoluzione: si presentano nella loro nudità e semplicità, senza indicare né provenienza né destinazione.
In ciò consiste quel «tentativo di bellezza» che Debussy si propone di realizzare nel Pelléas:

Non pretendo di aver scoperto tutto in Pelléas, ma ho solo cercato di aprire una via che altri potranno seguire, allargandola con personali scoperte che, forse, sbarazzeranno la musica operistica dalla pesante costrizione in cui da troppo tempo essa vive (MC, 63).

L’azione si svolge in tempi e luoghi imprecisati: presumibilmente nell’Alto medioevo e in un regno immaginario (Allemonde) situato nel cuore dell’Europa post-carolingia. Vi è un castello, circondato da una fitta foresta e molto prossimo al mare.


ATTO I

Debussy taglia la scena iniziale del dramma originale (La porta del castello), nella quale le domestiche lavano la soglia del castello e il portinaio esclama: «[…] versate pure tutta l’acqua del diluvio; non ne verrete mai a capo…»; questo sia per esigenze di brevità, sia per fedeltà ai canoni drammatici dell’opera musicale, che prevedono l’inizio in medias res, senza preamboli, tranne quelli affidati al ruolo evocativo e «preveggente» dell’Ouverture. Che qui è molto breve e ha la funzione di presentazione dell’atmosfera e dei temi-personaggi: il cupo motivo della foresta all’inizio, esposto dai violoncelli, e i temi di Golaud e di Mélisande, presentati dai legni; il primo è costituito da un intervallo di seconda ripetuto su ritmi binari e ternari alternati, il secondo caratterizzato dalla progressiva discesa di intervalli di terza e dalla veloce risalita delle semicrome. L’intervallo di terza discendente riproduce la sonorità e l’intonazione stessa del nome di Mélisande e nel contempo denota l’enigma irrisolto, la domanda senza risposta, che si incarnano nella fanciulla.
Durante la caccia al cinghiale, il cavaliere Golaud si è perduto nella foresta (e il modalismo esatonico delle prime battute indica il suo senso di smarrimento); presso una fonte scorge, preannunciata dall’oboe e da un singhiozzo dei violini, Mélisande, sola e piangente. Stupito, le si avvicina e le rivolge una serie di domande: perché piangete, da dove venite, quanti anni avete, chi vi ha fatto del male. La prima reazione della fanciulla è un «ne me touchez pas», sempre scandito sulla terza discendente, che fa subito ritrarre l’impulsivo Golaud: ma l’unica cosa che da lei riesce a carpire è il nome. Per il resto le risposte sono vaghe o reticenti: è una principessa proveniente da molto lontano, che ha subito un imprecisato torto da… tutti; ha perso la corona in fondo allo stagno, ma minaccia di gettarsi in acqua se Golaud solo tenta di recuperarla. D’altra parte le domande che lei rivolge a lui non sciolgono il reciproco imbarazzo: perché ha barba e capelli bianchi? è per caso un gigante? L’enfatica autopresentazione di Golaud, sottolineata da squilli regali di corni e fagotti («Sono il principe Golaud, nipote di Arkël, re di Allemonde»), rimane l’unica certezza tra i due; quindi si incamminano insieme per la foresta.
La scena seconda ci conduce in Una sala nel castello, con un balzo temporale di sei mesi. In un lungo recitativo la madre di Golaud, Geneviève, riferisce al vecchio Arkël della lettera in cui il principe racconta l’incontro con Mélisande ed esprime al fratellastro Pelléas l’intenzione di tornare al castello. Golaud era infatti destinato a un matrimonio di convenienza politica con la principessa Ursule. Invece, avendo sposato una sconosciuta (che, anche dopo sei mesi, è rimasta tale) pensa di non poter essere accolto nel castello se non con il perdono del vecchio re. Nella lettera affida allora a Pelléas l’incarico di far da mediatore e di segnalargli l’avvenuta riconciliazione con l’accensione di una lampada in cima alla torre. Nonostante i dubbi della regina, il vecchio Arkël ne acconsente pacatamente il ritorno, sentenziando: «Forse non accade niente di inutile». Al colloquio interviene anche Pelléas, annunciato ai legni dal suo tema (in cui questa volta è l’intervallo di quarta a prevalere). Egli vorrebbe partire per incontrare l’amico morente Marcellus, ma viene convinto da Arkël ad attendere il ritorno di Golaud. Inoltre non sarebbe opportuno lasciare il padre al capezzale (la figura nascosta del padre morente di Pelléas ne determina tutte le sue azioni). Geneviève chiede infine al figliastro di accendere la lampada sulla torre.
Nell’Interludio gli archi, facendo udire i temi di Mélisande e Golaud variati, ne preannunciano l’arrivo.
La Scena terza, Davanti al castello, vede Geneviève maternamente accogliere una Mélisande turbata dall’oscurità del luogo («Vi sono posti in cui non si vede mai il sole», le dice la regina). Tutta la scena è infatti in chiaroscuro, ambientale e musicale: al buio della foresta, sottolineato dai bassi, si contrappone il chiarore del mare, dipinto da un festoso tono di Fa diesis maggiore. E il mare diventa quasi protagonista del quadro; si scorge la sua presenza indiretta dai cori dei marinai, dai timori di Mélisande (venuta lei stessa dal mare), dalla minaccia della tempesta, dalle onde che si odono nelle terrine e nella seconda ascendente; infine, dall’annuncio della partenza di Pelléas per non si sa dove: «Oh… perché partite?» chiede, stupita, Mélisande, il cui turbamento e un senso di vaga inquietudine emergono dalle ultime, placide, sei battute dell’atto.


ATTO II

Il secondo atto si apre con la scena Una fontana nel parco, che fa da pendant con l’inizio dell’opera. Questa volta l’interlocutore di Mélisande è Pelléas e l’oggetto caduto nell’acqua non è la corona ma l’anello. La ragazza sembra stranamente attirata dalla profondità dell’acqua, un’acqua miracolosa che, secondo la leggenda, faceva tornare la vista ai ciechi: si sporge, immerge la sua lunga capigliatura, incurante degli avvertimenti di Pelléas. E gioca con l’anello nuziale, fino a farlo scivolare inavvertitamente, o inconsciamente, nella fonte. O forse per mettere alla prova Pelléas. La musica segue con melodie e arpeggi discendenti questo magnetismo gravitazionale che anima tutta la scena; la timbrica è limpida e trasparente come le acque, e la caduta dell’anello viene marcata da un subitaneo glissando dell’arpa che finisce sul sospiro della fanciulla. Ma già nell’Interludio si ode il ritmo puntato di Golaud, come minaccia che incombe nell’animo di Mélisande.
Proprio nel momento della caduta dell’anello, mezzogiorno, Golaud cade inspiegabilmente da cavallo. Nella scena seconda, Un appartamento nel castello, lo si scorge steso sul suo letto a ricordare lo strano episodio alla moglie, con la musica che segue i sussulti febbrili del racconto. Prima che egli stia per addormentarsi, la fanciulla comincia a piangere e a confessare al marito di soffrire, di essere malata («Sento che non vivrò più per molto […]»), di sentirsi infelice, ma di non conoscere la causa del suo stato d’animo («È qualcosa di più forte di me»). Forse è l’oscuro castello, da cui raramente si vede il cielo: «È molto freddo e molto profondo» la rincuora Golaud. «E tutti quelli che l’abitano sono già vecchi». Né la causa è Pelléas, anche se alla domanda di Golaud la fanciulla risponde con una decisione quasi colpevole – e Debussy, maliziosamente, fa accennare ai flauti il tema di Pelléas. E quando il marito le prende le mani per consolarla, si scopre il misfatto: ha perso l’anello. Il breve idillio di lirismo e tenerezza, con flauti e violini che dialogavano sul registro acuto, si interrompe con un violento pizzicato degli archi e un angoscioso punto coronato su una pausa. Da questo momento la musica diviene nervosa e frammentaria, come l’ira di Golaud e l’indecisione menzognera di Mélisande; il peso strumentale si sposta ai bassi e agli ottoni. È il punto clou da cui comincia a crescere a poco a poco la gelosia di Golaud e da cui, come dice lo stesso Debussy, «si comincia a presentire la catastrofe» (L, 17-81895). Golaud ha ancora fiducia in Pelléas, tanto che costringe la moglie ad andare con lui a recuperare l’anello (infatti Mélisande, disobbedendo al proposito di Pelléas di non mentire, dice di averlo perduto in una grotta mentre raccoglieva conchiglie per il piccolo Yniold). Con uno sconsolato «Je ne suis pas heureuse» – discendente su intervalli di terza – si chiude la triste scena, collegata alla successiva da un Interludio, in cui viene malinconicamente variato il tema di Mélisande e viene anticipata la tetra atmosfera della scena successiva, con cupi trilli degli strumenti bassi e le musorgskiane discese tremolanti degli archi.
Pelléas e Mélisande giungono quindi Davanti a una grotta (Scena terza) e cominciano ad addentrarvisi titubanti e impauriti:

[Questa scena] tenta di esprimere il mistero della notte quando tra tanto silenzio un filo d’erba, disturbato nel suo sonno, fa un rumore del tutto inquietante; poi c’è vicino il mare, che racconta le sue pene alla luna, e Pelléas e Mélisande, che hanno un po’ di paura a parlare in tale mistero (ibid.).

Lo spedito recitativo di Pelléas, che descrive il luogo, e la palpitazione delle viole sono indicativi del suo timore, anche se egli cerca di confortare Mélisande, facendole da guida. L’oscurità è completa e da lontano si ode il rumore del mare con le sue seconde ascendenti. Quando poi la luna squarcia le nuvole e Pelléas esclama: «Ah! ecco il chiarore […]», luminosi glissandi arpistici e tremoli violinistici nel tono di Sol bemolle interrompono quell’atmosfera. Ma alla vista di tre vecchi mendicanti dormienti Mélisande è sconvolta dalla paura e vuole subito tornare indietro, seguita a ruota dal non meno impaurito Pelléas.

ATTO III

Scena prima. Una delle torri del castello. Un cammino di ronda passa sotto una finestra della torre. Debussy ha tagliato sia l’ultima scena del secondo atto – in cui Arkël, pur essendo morto Marcellus, chiede a Pelléas di non partire, in attesa di «quel che deve accadere tra poco […]» – sia la prima del terzo – in cui il piccolo Yniold, figlio di Golaud, palesa a Pelléas e Mélisande una strana e immotivata apprensione. Anche qui, come per altre scene tagliate, i presagi e le inquietudini destinali espressi dal testo Debussy preferisce affidarli alla capacità evocativa della musica. Nella prima scena quindi appare Mélisande alla finestra della torre, cantando mestamente e pettinando i suoi lunghi capelli. L’arpa e il flauto, sopra il velo degli archi, ne seguono il dolce movimento ondulatorio, mentre la melopea, impostata sul modo dorico-gregoriano, è una pia invocazione rivolta ai santi («Sono nata di domenica, a mezzodì»). Ma dal momento in cui giunge Pelléas sul cammino di ronda e scorge la fanciulla alla finestra («Che fai alla finestra cantando come un uccello lontano dal suo nido?») la scena si volge rapidamente dal sacro al profano, divenendo un climax di sensualità e passione.
E come Giulietta e Romeo vivono la loro prima scena d’amore al balcone, così Pelléas e Mélisande amoreggiano, in modo un po’ perverso, alla finestra: lui le chiede dapprima di darle la mano perché è in partenza, lei, sporgendosi anche qui come alla fontana – pericolosamente, fa crollare sul corpo dell’amato la sua folta capigliatura, che finisce addirittura per intrecciarsi con i rami di un salice. Pelléas si avvolge in essa, voluttuosamente, con l’analogo feticismo del fauno mallarmeano nei confronti dello scialle della ninfa; la bacia, la lega al salice, la paragona a un vello dorato. Il motivo della capigliatura, «intrecciato» con quello di Mélisande, viene variato ed elaborato in un crescendo dinamico ed espressivo: è imperniato su due momenti corrispettivi, una vertiginosa discesa degli archi, coincidente con la caduta dei capelli, e l’arpeggio discendente delle arpe, quando le colombe di Mélisande volano verso l’alto e si perdono nell’oscurità, enigmatica e archetipica rappresentazione di un presagio di morte. Ben presto il passo terzinato di Golaud comincia a udirsi ai violoncelli e poi ai timpani. Il marito scorge i due nello strano atteggiamento e, sebbene sospettoso, si limita a rimproverarli: «Siete dei bambini!».
La gravitazione verso il basso di questa scena pesa ancor più nella successiva (I sotterranei del castello), così «soffusa di ambiguo terrore e di un tale mistero da fare venire le vertigini anche agli animi più temprati» (L, 28-8-1894). Nei sotterranei vi è dell’acqua stagnante che «odora di morte» e le crepe nelle mura potrebbero prima o poi far inghiottire il castello nell’abisso. Questa volta è Pelléas a sporgersi pericolosamente (Golaud: «Vedete il baratro? Pelléas? Pelléas?»), sorretto a fatica dal fratellastro. La scena è anticipata da un trillo di timpani che, uniti agli altri strumenti bassi, accompagnano cupamente i due personaggi, mentre gli altri strumenti fanno risuonare l’ambiente di echi misteriosi. In tale tenebrore c’è spazio per una piccola gag comica: Golaud, che regge la lanterna, trema di paura e, alla domanda di Pelléas «è la lanterna che trema così?», risponde: «Ecco, l’agitavo per rischiarare le pareti». E qui, naturalmente, Debussy fa tremolare violoncelli e viole. Infine i pizzicati degli archi bassi e dell’arpa rappresentano i passi dei due fratelli che riguadagnano l’uscita.
Un senso di luce e d’aria fresca comincia a risuonare nelle volate del flauto, alternate con i leggeri arpeggi dell’arpa; mentre a poco a poco comincia a udirsi all’oboe l’intervallo del mare; un improvviso crescendo porta la piena orchestra alla tonalità di Re maggiore, allorché, in piena luce, Pelléas esclama: «Ah, finalmente respiro» (Scena quarta. Una terrazza all’uscita dei sotterranei). Una musica solare e gioiosa accompagna il sollievo di Pelléas: flauti e violini imitano i guaiti dei gabbiani, mentre il glockenspiel fa risuonare i rintocchi di mezzogiorno. Una scena «piena di sole, ma di un sole bagnato dal mare, la nostra madre», dice Debussy, e «d’una poesia deliziosa», secondo Marcel Proust. Ma presto l’atmosfera diviene severa per il rimprovero che Golaud rivolge al giovane a proposito dell’amplesso con la capigliatura: «Lo so bene sono giochi da bambini; ma bisogna che non si ripetano». E inoltre: «Non è la prima volta che noto che forse c’è qualcosa fra voi […].
Evitatela quanto potete, ma senza affettazione». Annuncia infine che la ragazza forse è incinta.
Ormai comunque il dubbio del tradimento si è insinuato nella mente di Golaud, come il tenebroso motivo ascendente dai bassi si insinua nell’orchestra; tanto che, nella Scena quinta (Davanti al castello) egli costringe il figlioletto Yniold a un drammatico interrogatorio: «Di che parlano quando sono insieme?»; «Che dicono di me?»; «S’abbracciano qualche volta?». Nella sua ingenuità Yniold risponde che una volta si sono baciati (e quando fa per mostrare al padre come si baciano un’acciaccatura dell’oboe indica il contatto con la barba pungente di Golaud). Finché, accortisi della luce nella camera di Mélisande, Golaud solleva il bambino sulle sue spalle per poterlo fare spiare dalla finestra. È uno dei punti più strazianti dell’opera: «Che fanno?»; «Non dicono nulla?», incalza il padre. E il figlio, terrorizzato e piangente, riferisce la surreale scena di Pelléas e Mélisande che, in piedi contro il muro, guardano la lampada, senza parlare e senza mai chiudere gli occhi (la maliziosa domanda di Golaud: «E il letto? Sono vicini al letto?», fu censurata dall’ispettore delle Belle Arti perché troppo «oscena»). Come nella seconda scena dell’atto II, anche qui la musica segue il nervosismo, gli sbalzi d’umore di un Golaud furibondo e nel contempo maldestramente premuroso con il figlio; ma soprattutto emerge l’innocenza e l’emotività turbata del piccolo Yniold, le cui frasi si concludono ricorrentemente in quel «petit père» su intervallo discendente, che tanto aveva ossessionato Debussy durante la composizione.

ATTO IV

Il quarto è l’atto in cui i conflitti ormai innescati vengono condotti alle loro estreme conseguenze e alloro drammatico epilogo. Nella Scena prima (Un corridoio nel castello) Pelléas incontra Mélisande per fissarle un appuntamento: le deve dire qualcosa di importante. Le riferisce anche che il padre sta meglio e lo ha esortato a viaggiare, ed egli è sul punto di obbedire con gioia. L’incontro, che secondo Pelléas sarà l’ultimo, avverrà di nuovo alla fontana dei ciechi, simbolo della edipica cecità umana di fronte al destino. La frettolosa agitazione delle quartine di semicrome anima l’introduzione alla scena, così come l’animo di Pelléas è ansioso sia di incontrare Mélisande sia di partire per sempre, per molto lontano.
Ma, dopo quella con Yniold, ci attende un’altra scena sconvolgente, di intensità quasi shakespeariana, la seconda (Un appartamento nel castello): un alito di serenità e ottimismo si prova alle parole di Arkël rivolte a Mélisande, di fiducia nel destino e nella gioventù: «qualunque essere giovane e bello crea attorno a sé avvenimenti giovani, belli e felici […]». E, avvicinando Mélisande per abbracciarla: «[…] si ha tale bisogno di bellezza in prossimità della morte […]». E il pacato accompagnamento del suo recitativo culmina nel crescendo del tono di Re diesis maggiore alle parole: «[…] apri la porta dell’era nuova che intravedo». Ma è da qui che comincia l’altro versante della scena: ai bassi si odono le terzine minacciose di Golaud. Egli entra annunciando la partenza di Pelléas. E lievemente ferito alla testa ma respinge con violenza le cure premurose di Mélisande. È in cerca della sua spada, ma solo per affilarla; e al timore della moglie risponde: «Perché tremate così? Non sto per uccidervi», mentre lo scoraggiamento di Mélisande è sottolineato da un frammento discendente del suo tema fatto udire dai legni. Al turbamento di lei Golaud reagisce con un progressivo moto d’ira, fino ad afferrarla per i capelli, trascinarla in ginocchio e disegnare con il suo gesto una croce sul pavimento: «Ah! Ah! I vostri lunghi capelli servono finalmente a qualcosa! […]». La terribile ira della gelosia e la demonizzazione della donna è seguita da una musica sempre più incalzante e drammatica; viene placata solo dall’intervento del vecchio Arkel. Golaud si ricompone ma rimane minaccioso: «Aspetterò l’occasione; e allora…». E nel silenzio Mélisande, singhiozzando, sussurra: «E…] non mi ama più […] Io non sono felice!». Un mesto corale, vera quiete dopo la tempesta, accompagna il lapidario commento di Arkël: «Se fossi Dio, avrei pietà del cuore degli uomini».
Ma ecco, dopo quella dei tre mendicanti nella grotta, un’altra scena fortemente enigmatica e simbolistica, la terza (Una terrazza nel castello), stranamente posta a introduzione alla scena-acme di tutto il dramma. Ritrae il piccolo Yniold che cerca di sollevare una grossa pietra, sotto la quale si è incastrata la sua palla d’oro: è pesante, «più di me», «più della casa», «più di tutto», esclama sconsolato il fanciullo con la sua solita cantilena cullante e ripetitiva. Un presagio angoscioso, segno di una situazione irrisolvibile. Così come è simbolica e quasi onirica la scena delle pecorelle «piangenti» e smarrite e poi improvvisamente silenziose: qui il fitto terzinato senza direzione accompagna i passi del gregge, mentre le acciaccature dell’oboe ne contraffanno il belato; e alla domanda senza risposta «Dove vanno a dormire questa notte?», rimane nel silenzio un malinconico trio flautistico. In questa scena, dice Debussy,

ho cercato di riprodurre un po’ la delusione di un bambino al quale una pecora dà inizialmente l’idea di un giocattolo con il quale, viceversa, non può giocare, e anche quella pietà che la gente, tutta occupata com’è a procurarsi ogni conforto, non prova più (L, 288-1894).

Il poeta e il musicista hanno così preparato l’animo dell’ascoltatore ad assistere all’imminente tragedia: scena quarta, Una fontana nel parco, luogo dell’appuntamento. Pelléas, solo, è preoccupato del ritardo di Mélisande, e continua a proporsi di partire: «Bisogna che la veda un’ultima volta, fino in fondo al cuore […] Bisogna che le dica tutto ciò che non ho detto […]». Una musica in chiaroscuro corrisponde al doppio stato d’animo, di gioia e dolore, di un Pelléas pieno di complessi di colpa e pronto a fuggire molto lontano. Giunge Mélisande, ansante e con le vesti lacere, perché impigliatesi ai chiodi della porta mentre, furtivamente, lasciava Golaud in preda agli incubi. E una musica ugualmente inquieta e furtiva accompagna il dialogo tra i due fragili e timorosi amanti: tremoli degli archi e frammenti dei fiati si ricompongono in un crescendo coincidente con l’abbraccio tra i due nell’oscurità; mentre al fatidico momento in cui Pelléas, un po’ titubante, esclama: «Je t’aime» e Mélisande «Je t’aime aussi», la musica significativamente tace, lasciando il sentimento e il reciproco turbamento liberi di effondersi nel silenzio. Anodini armonici dei violini sostengono poi gli interrogativi di Pelléas: «E da quando mi ami?» – e alla risposta: «Da sempre… da quando t’ho veduto», inizia una vera e propria aria, che pare quasi provenire da un’opera di Puccini: «Sembra che la tua voce sia trascorsa sul mare a primavera!». È tuttavia un’aria «interrotta», come tutte le «serenate» debussiane, non dall’ironia ma dagli inquieti trasalimenti di Pelléas che, incredulo e passionale nel contempo, giunge a gridare di gioia nell’acuto, «Ed ora t’ho trovata! […]», per poi ripiegarsi improvvisamente nel dubbio e nel silenzio: «Dove sei? […] Non sento più il tuo respiro […]». La ragazza infatti non si abbandona alla passione, ma guarda il su amante con gravità, oppure rivolge lo sguardo «altrove», distrattamente. Lui vuole portarla alla luce e all’ottimismo, lei preferisce rimanere nell’oscurità e nel pessimismo, quando si pronuncia in un contraddittorio aforisma, presagio dell’imminente tragedia: «[…] sono felice, ma sono triste», commentato solo da una contorta armonia dei legni.
Si odono quindi chiudere le porte del castello (con le descrittive acciaccature sulle seconde degli archi bassi). L’animazione della musica fa aumentare il senso di panico e di voluttà dei due giovani ormai braccati e disperati, come una febbrile accelerazione cardiaca o una corsa sfrenata di fronte al pericolo della morte. E nel momento in cui lui l’abbraccia con trasporto («[…] il mio cuore è sul punto di soffocarmi»), Mélisande comincia a udire il fruscio delle foglie morte (oboe e corno inglese) e i passi pesanti e ovattati di Golaud (violoncelli e contrabbassi). In un’ulteriore accelerazione ansiosa, la musica concentra le minacce dei bassi con lo slancio verso l’acuto del tema d’amore infortissimo, fin quando l’acme della voluttà dei due amanti che si stringono sempre di più, anche di fronte al pericolo, viene a coincidere con il ferimento mortale di Pelléas e la breve fuga di Mélisande inseguita da Golaud («Non ho coraggio![…] Non ho coraggio! […]»).

ATTO V

Dopo la drammatica concitazione del quarto atto, il quinto è un triste e nel contempo velatamente sereno epilogo. Nell’unica scena, Un appartamento nel castello (Debussy taglia la prima scena, in cui la vecchia serva racconta che per prima ha visto Golaud e Mélisande ferita rientrare al castello, «stretti l’uno contro l’altra come due bimbi che abbiano paura»), Golaud, Arkël e un medico sono al capezzale di Mélisande, che dorme dolcemente e, appena si sveglia, chiede candidamente che si apra la finestra perché possa vedere il sole che tramonta sul mare. Un inciso terzinato discendente accompagna i sospiri della fanciulla morente. La sua ferita, «sotto il suo piccolo seno sinistro» è piccolissima («Una piccola ferita che non farebbe morire un piccione», presumibile allusione all’antico matrimonio brettone, in cui lo sposo succhia il sangue di una piccola ferita praticata sotto il seno sinistro della sposa) e il medico discolpa perciò Golaud; il quale invece è angosciato dal rimorso e chiede alla moglie il perdono («Sì, sì ti perdono […] risponde lei. Cosa bisogna perdonare?»). Tutta la scena è sostenuta dal tono austero degli archi e dal timbro aerato dei legni, che accompagnano le sagge parole di Arkël e l’enigmatico delirio di Mélisande («Non so quel che dico… Non so quel che so…»). Solamente nei dialogo tra Golaud e la moglie si assiste a un ultimo, penoso, dramma, dovuto a un inconciliabile malinteso: Golaud vuoi sapere se i due giovani si sono mai amati. «Sì», risponde Mélisande, accompagnata dall’innocenza filiale di arpa e flauto. Ma il marito, con la stessa testarda malizia con cui interrogava il figlio Yniold, insiste: «Dimmi la verità per amor di Dio!». «La verità.., la verità…», si sofferma pensierosa la fanciulla, in un silenzio innaturale che turba grandemente Golaud: «Dove sei? Mélisande!». Il freddo dell’inverno incipiente entra dalla finestra e più distintamente si ode l’intervallo dei mare. Mélisande ha solo il tempo per guardare la sua piccola figlia nata da poco, ma non ha la forza neanche per abbracciarla. All’entrata delle serve e agli inquietanti silenzi del medico e di Arkël, l’atmosfera si predispone alla morte e Golaud, nervoso come il Rodolfo della Bohème, non vuole credere all’irreparabile. «L’anima umana è molto silenziosa», dice Arkël, e silenziosamente, dopo l’ultima apparizione dell’inciso degli oboi e in coincidenza con il punto coronato su una pausa, Mélisande muore. «In una sonorità dolce e velata» l’orchestra segue l’ultimo canto di Arkël, mentre in lontananza risuonano le campane a martello: «Era un povero piccolo essere misterioso, come tutti […]».

E le parole del vecchio sovrano, con le quali si conclude l’opera, sembrano voler coinvolgere ogni uomo all’interno di una vicenda che altro non è se non una fiaba allegorica, un po’ arcana ed esoterica, ma che alla fine si rivela più famigliare e vicina all’esistenza umana concreta, proprio come voleva renderla Debussy. In una struttura drammatica abbastanza tradizionale nel romanticismo operistico (due amanti possono realizzare il loro amore solo nella morte, nel sacrificio), Maeterlinck e Debussy dipingono personaggi di uno spessore inconsueto, quasi impalpabili e fantasmatiche creature, velate da un’aura metafisica di «lontananza» (Jankélévitch). Non sono infatti veri eroi, non pronunciano parole e discorsi memorabili, non compiono gesti clamorosi: si rifugiano invece nel pudore e nell’innocenza di brevi frasi sussurrate, di interrogativi senza risposta, di pose enigmatiche. Ciò che emerge non è la loro consistenza personale e carnale, ma l’alone di mistero che li circonda, l’ambiente naturale e nello stesso tempo innaturale in cui si muovono, così carico di richiami simbolici non sempre comprensibili. Anzi, spesso sono resi volutamente incomprensibili, come lo è il destino di una fanciulla senza origini e senza futuro, o paradossali, come l’inquieto personaggio di Pelléas, sempre in partenza e sempre fermo sul posto, pieno sia di gioia per la vita che di rimorsi mortali, o come l’innocente e nel contempo lucidamente preveggente Yniold. E tra di loro vaga un Golaud più umano e terreno, quasi viscerale e persino greve nella sua gelosia e nei suoi ossessionanti sospetti; con lui infatti gli altri personaggi non possono che instaurare un perenne rapporto di totale incomunicabilità. E tutti abitano in un castello marcio, privo di solide fondamenta, sempre sul punto di crollare nel baratro, eloquente presagio simbolico di un mondo e di una civiltà ormai prossimi, in quegli anni, a sprofondare in un’immane catastrofe.

http://www.rodoni.ch/OPERNHAUS/pelleas/migliaccio.html


 C. Debussy – Rondel Chinois – ” Noël des enfants qui n’ont plus de maisons.”

http://www.controappuntoblog.org/2014/11/24/c-debussy-rondel-chinois-noel-des-enfants-qui-nont-plus-de-maisons/

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