Cesare Pavese : La luna e i falò pdf e audiolibro

Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.

L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella , un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri -, era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e  pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggi’ un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più cosi pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel  buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al  punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un  posto, non averlo nel sangue, non starci in mezzo sepolto insieme al vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi.

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Pavese Cesare

La luna e i falò

Mer, 28/06/2006 – 02:31 — rapace

“Un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
(C. Pavese, “La luna e i falò”, capitolo I).

Scritto tra il settembre ed il novembre del 1949, pubblicato nel 1950, pochi mesi prima di togliersi la vita in un albergo di Torino, “La luna e i falò”, ultimo romanzo di Cesare Pavese, rappresenta il capitolo conclusivo della carriera di uno dei più importanti scrittori italiani del Novecento. Per stile, fluidità narrativa, tematiche trattate, costituisce l’indiscussa vetta creativa del romanziere piemontese e, inquadrato da un’altra prospettiva, il suo consapevole, sofferto e disincantato testamento.
Il libro, sin dalle prime righe, ci immette nelle atmosfere e nel contesto che faranno da sfondo all’intera vicenda: nell’immediato dopoguerra, l’io narrante, Anguilla, tornato al paese natale dove, da “bastardo”, ha trascorso la propria adolescenza, dal quale è fuggito per fare fortuna in America, riscopre i luoghi nei quali è cresciuto, ritorna ad osservare i campi dove le sue braccia hanno lavorato, a respirare l’aria torbida delle Langhe sfigurate dal conflitto bellico.

Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, trovar la Mora com’era adesso”.
(C. Pavese, “La luna e i falò”, capitolo III).

Viste non più con gli occhi del ragazzino curioso e amante della vita, ma dell’uomo maturo che ha viaggiato, conosciuto realtà distanti nello spazio e nel tempo, che ha vissuto la guerra dall’esterno ed è cambiato al proprio interno, quelle terre, quei luoghi sembrano simili, ma non sono più gli stessi. Mentre era lontano, a cercare fortuna in America, la guerra, i tedeschi e i partigiani, i fascisti e i comunisti, i morti ammazzati e lasciati a marcire nei boschi hanno mutato l’immagine di quei paesi: e nulla sarà più come prima. Durante il viaggio alla ricerca delle proprie radici, Anguilla ripercorre le tappe maggiormente significative della propria giovinezza in compagnia di Nuto (“il falegname del Salto, il mio complice delle prime fughe a Canelli”), amico d’infanzia, maestro di vita dal quale trarre preziosi insegnamenti ed ora cicerone di quei luoghi ormai sconosciuti. Il protagonista si rende conto degli orrori della guerra, e di come il mondo rurale nel quale è cresciuto non esista più, se non nel suo ricordo.

Fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato. Qui il caldo più che scendere dal cielo esce da sotto […] È un caldo che mi piace, sa un odore: ci sono dentro anch’io a quest’odore, ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie che non sapevo più d’avere addosso”.
(C. Pavese, “La luna e i falò”, capitolo V).

Anguilla ripercorre a piedi le strade di Belbo, le colline, i ponti, le case di Canelli, il casotto di Gaminella, le terre della Mora, ed intanto, seguendo un doppio filo mentale, rivive il proprio passato, le esperienze e gli avvenimenti di quegli anni trascorsi a “guadagnarsi la pagnotta” nelle campagne piemontesi, e la successiva avventura al di là dell’oceano, inseguendo il miraggio degli Stati Uniti d’America, terra di illusioni e speranze, nella quale fare fortuna, incontrare l’amore, per poi ritornare a Belbo, dopo essersi bruscamente svegliato da quel sogno. I due piani narrativi, le due storie rappresentate dal passato remoto della Mora e dal passato prossimo americano, si intrecciano perfettamente durante la narrazione, grazie al sapiente utilizzo di analessi e prolessi, e si confrontano con il presente, amaro e disincantato, e con l’osservazione della realtà del Piemonte postbellico.

Pareva un destino. Certe volte mi chiedevo perché, di tanta gente viva, non restassimo adesso che io e Nuto, proprio noi”.
(C. Pavese, “La luna e i falò”, capitolo XIV).

Anguilla rincontra Nuto, uomo buono, riflessivo e giudizioso, che conosce le tensioni e le ostilità ancora presenti in una società appena uscita dalla guerra, esprime più di una volta i suoi ideali e il suo desiderio di giustizia mentre c’è chi, all’interno del paese, spara sentenze e giudica, in maniera acritica, l’operato dei comunisti; conosce Cinto, un ragazzino storpio che vive, con la propria famiglia, nella casa che un tempo era stata sua, nel quale Anguilla rivede se stesso da piccolo e con il quale stringe uno spontaneo e particolare rapporto d’amicizia. Ripercorrere, anche se solo con la memoria, la vita fatta di stenti a Gaminella, l’esperienza di uomo di fatica alla Mora, significa, per Anguilla, immergersi in un passato lontano, quasi mitico, che da piccolo riusciva ad offrire momenti di semplice e spontanea euforia, ma che agli occhi dell’adulto si presenta in tutta la miseria e la tragica quotidianità che quelle terre affrontano, dopo essere state aggredite dal conflitto mondiale.
I ricordi di Anguilla tornano a Silvia, a Irene, a Santina, le tre figlie del Sor Matteo, il padrone della Mora, desiderose di emanciparsi e allontanarsi dal mondo contadino; agli altri servitori, Cirino, l’Emilia, la Serafina; alle giornate trascorse nei campi, tra gli alberi, ad ammirare le ragazze della casa, portando il biroccio o strigliando i manzi. Quegli anni, quelle sensazioni, quegli avvenimenti, sono ancora stampati nella sua mente, in maniera indelebile, così come l’improvviso e tragico precipitare degli avvenimenti, alla Mora.

“…dalla piana del Belbo si sentivano le donne urlare quando il Valino si toglieva la cinghia e le frustava come bestie, e frustava anche Cinto – non era il vino, non ne avevano tanto, era la miseria, la rabbia di quella vita senza sfogo
(C. Pavese, “La luna e i falò”, capitolo X).

Ora, ora che tutto è finito, la guerra fa parte del passato ma lascia tracce evidenti anche nel presente. Tornare in quei luoghi significa, per Anguilla, voler ricercare le proprie radici, ma comprendere che il paese da cui è fuggito non è più lo stesso e come la morte e la desolazione siano tutto ciò che rimane, in quelle terre. Una morte che si rivela, in tutto il suo orrore, nel drammatico epilogo, con il rogo appiccato da Valino al casotto della Gaminella, un falò funebre, legato intimamente a quello che aveva avvolto Santina, pochi anni prima, che non porta fertilità alle terre durante le notti d’estate, ma testimonia soltanto la fine di tutto e la forza della miseria, capace di annientare qualsiasi cosa. Le splendide descrizioni paesaggistiche, l’indubbia perfezione stilistica, parole, proposizioni e aggettivi dosati e organizzati in modo eccellente, i dialoghi ridotti all’osso ma duri come macigni, la particolare architettura temporale rendono “La luna e i falò”, l’ultimo romanzo di Cesare Pavese, un libro fondamentale, una testimonianza unica e imperdibile della complessità di un’epoca e di una cultura che non deve cadere nel dimenticatoio.

Opera intensa, commovente, rabbiosa e consapevolmente definitiva, “La luna e i falò” ci parla, attraverso uno stile scarno e amareggiato, ricco di pathos e abbellito dalle corpose descrizioni del paesaggio piemontese, di un mondo rurale e di una società annientata dalla barbarie della guerra, aprendo una finestra su un microcosmo che sembra ormai lontano anni luce dalla nostra realtà, ma con il quale dobbiamo sempre confrontarci, per ricercare, come l’io narrante protagonista della vicenda, le nostre comuni radici, attraverso la comprensione del passato e di una Storia che è impossibile cancellare, che lascia “il segno, come il letto di un falò”.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908 – Torino, 1950), romanziere e giornalista italiano.

Cesare Pavese, “La luna e i falò”, Edizione speciale per la Repubblica su licenza della Giulio Einaudi editore SpA, Torino, 2002. Prima edizione: “La luna e i falò”, Einaudi, Torino, 1950.

http://www.lankelot.eu/letteratura/la-luna-e-i-falo-di-cesare-pavese.html


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