Alfredo Piatti, un “Paganini” del Violoncello.

Carlo Alfredo Piatti – Wikipedia, the free encyclopedia

Alfredo Piatti,
un “Paganini” del Violoncello.

 

 

Alfredo Piatti, appoggiato al pianoforte, in una litografia londinese del 1851, raffigurante il gruppo dei musicisti della Musical Union di quella stagione. In primo piano, col violino sotto braccio, Camillo Sivori, l’allievo di Paganini; il contrabbassista è Giovanni Bottesini; al pianoforte il direttore d’orchestra Charles Hallé; Heinrich Ernst seduto in poltrona, dietro di lui c’è Henri Vieuxtemps.
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Carlo Alfredo Piatti nacque a Bergamo l’8 gennaio 1822,

a pochi passi dalla casa natale di Gaetano Donizetti. Fu iniziato alla musica e al violoncello fin dall’età di quattro anni, da suo padre, modesto violinista, con il sogno di produrre un novello Mozart; così, prima del suo decimo compleanno, Alfredo già poteva sostituire il suo anziano primo maestro, Gaetano Zanetti, nell’orchestra della sua città.
Nel 1832, la stessa commissione d’esame che aveva respinto Giuseppe Verdi, lo ammise al Conservatorio di Milano, dove studiò con Vincenzo Merighi, eccellente didatta, seguace della scuola dei Duport. I primi anni della sua carriera non furono facili: dal 1837, quando si congedò dagli studi, al ’44 non fece che peregrinare fra insuccessi e frustrazioni. Dopo due viaggi fallimentari, a Vienna e poi a Parigi, decise di partire per l’Inghilterra, dove finalmente ebbe fortuna grazie all’incontro e alla profonda amicizia con Mendelssohn, Liszt e col pubblico londinese, che lo amò e seguì per tutta la vita. Da quell’anno al 1898 visse a Londra, dove prese in moglie la pianista e cantante Mary Ann Welsh, da cui ebbe una figlia. Durante quel periodo ottenne fama e onori internazionali, si produsse in un numero esorbitante di concerti e tournées con i più famosi musicisti del suo tempo, fra cui Sivori, Bottesini, Clara Schumann, Anton Rubinstein, Joachim, Vieuxtemps, Berlioz, Grieg.
Intorno al 1855 si perfezionò in composizione con W. Bernhard Molique, e nel corso della sua vita produsse trentatré composizioni per violoncello con numero d’opera, tutte destinate al violoncello solista, accompagnato dal pianoforte o da orchestra sinfonica, e un vasto numero di pezzi di genere.
Piatti fu certamente il maggior virtuoso italiano di violoncello, ma soprattutto fu una fra le grandi personalità della musica europea dell’800; seppe essere, infatti, accurato interprete della musica dei classici e dei primi romantici, studioso, revisore e collezionista di musica antica, e protagonista di alcuni fra i più alti momenti della musica del suo tempo. Morì il 18 luglio 1901 a Crocette di Mozzo, presso Bergamo, lasciando la sua città erede della straordinaria collezione musicale oggi conservata nell’Istituto G. Donizetti, sotto il nome di “Fondo Piatti-Lochis“.
A cento uno anni dal suo ritiro dalla scena europea, a due dal centenario della sua morte, Piatti ancora non è conosciuto che per i suoi 12 Capricci per violoncello solo, op.25, composti e dedicati a B. Cossmann nel 1865, che tutti i violoncellisti del mondo studiano per conseguire un diploma professionale.
Questo disco è la prima incisione assoluta di ciò che Piatti ha composto oltre quei Capricci -ormai, purtroppo, collocati solo più nella noia dello studio e nella fatica degli esami scolastici- e si apre con il suo lavoro cameristico forse più significativo: la Prima Sonata op.28, dedicata al giovane Hugo Becker, il grande violoncellista tedesco che Piatti ascoltò a Londra nel 1882 e dichiarò suo ideale erede e successore.
Anche in questa composizione, come in tutte le sue altre, si riconosce un musicista che scrive integrando perfettamente il suo linguaggio in quello più conservatore dei suoi tempi, mostrando però sempre l’intenzione di realizzare opere che non siano solo esercizi di stile, bensì il frutto di una autentica, profonda esperienza poetica. Per questo la sua musica può apparirci come il dono dell’immaginazione di un autentico poeta e visionario romantico.
Piatti è innanzitutto un virtuoso di violoncello, e per questo può concedersi il lusso di immaginare e scrivere musica solo intorno al suo strumento. Così non spreca carta per grandi progetti operistici o sinfonici, né numero d’opera per composizioni effimere o commerciali, e la sua opera riesce sempre a offrire qualcosa di originale e, soprattutto, di complesso. Certamente, la ragione di questa “densità” è da cercarsi nel fatto che la sua composizione non solo si genera e sviluppa nelle sue dita -come quella di tutti i virtuosi-, ma si affina e si esprime in una grande cultura del passato, in una tradizione antica in cui infaticabilmente studia e ricerca: quella italiana di Locatelli, Veracini o Boccherini, confrontata con la lezione “spirituale” di J. S. Bach e con quella dei grandi classici tedeschi, Haydn, Mozart e Beethoven, ai quali egli dedicherà gran parte della sua attività concertistica.
Infatti la tecnica strumentale di cui Piatti fu indiscusso maestro, la “bravura” che lo distinse e fece sì che Franz Liszt lo acclamasse un “Paganini del violoncello“, è null’altro che un’emanazione dell’antica scuola italiana di violino e un’evoluzione diretta della tecnica della grande tradizione napoletana barocca di violoncello, fusa alla lezione tedesca di Romberg (di cui eseguì i Concerti con orchestra e i Duetti, insieme a Servais), e di Dotzauer, ovvero della più solida scuola violoncellistica riferita a Beethoven e ai classici, piuttosto che al sentimentalismo più alla moda dei francesi o dei belgi.
Piatti seguiva con vivo interesse tutte le innovazioni dei grandi solisti europei, ma rifiutò per tutta la sua carriera l’uso del puntale, che fin dal 1850 era diventato abitudine comune; rifiutò le sottili corde francesi -ottime per l’esecuzione sicura e non faticosa di tutte le acrobazie caratteristiche dell’epoca-, restando fedele alle grosse corde italiane, che costringevano a una tecnica fuori moda e certamente meno appagante anche per il pubblico, ormai abituato a nuove leggerezze. Erano però proprio queste scelte a permettergli di offrire ad autori barocchi e classici la nobiltà del suono, l’immensa varietà di timbri, articolazioni ed espressioni musicali rese dense di significato dall’esperienza di una tradizione secolare.
Così anche la sua composizione si avvale di questa ricchezza tecnica: «Egli si può dire che scolpisce e tornisce la cantilena italiana, simulando coi gemiti della corda i sospiri dell’Anima…», scriveva un critico italiano nel 1875. E nella sua musica si possono ancora incontrare varie eredità dell’arte barocca dell’accompagnamento vocale, come nell’uso frequente, ad esempio, di accordi di tre o quattro suoni simultanei, così come si esercitavano in Italia per poter ben accompagnare sul Basso Continuo, o nei Recitativi d’Opera. E poi i picchettati, le ottave usate anche nel Cantabile, il canto accompagnato dal tremolo, le “volatine” di stile vocale, come tutti facevano e scrivevano a quell’epoca. Eppure, in Piatti, tutto ciò non è usato mai in modo gratuito o eccessivo, caratteristica questa che venne sempre apprezzata negli scritti dei critici d’allora.
Il Piatti compositore, così come l’interprete, si mostrava sempre uomo di elevato senso della spiritualità, e ciò si nota specialmente in ogni suo brano lento o meditativo, che presenta sempre l’atteggiamento dell’invocazione, o della preghiera. Il virtuosismo “maledetto”, o folle, del mito romantico di Paganini, veniva riconosciuto in lui per quella sua “diabolica” abilità tecnica -quella che fece esclamare a Molique, nel suo approssimativo inglese, «Dat Piatti is de debil, he play my concerto at sight!» (quel Piatti è il diavolo, ha suonato il mio concerto a prima vista!)-, sebbene tutta la figura del suo personaggio fosse in netto contrasto con quell’immagine: Piatti era “misurato, sobrio, severo e castigato nello stile“, ci dicono i cronisti dell’epoca.
C’è quindi una sorta di “moralità”, di profondo senso etico, nel virtuosismo di Piatti; una lezione antica, anche questa, propria della più alta tradizione barocca italiana. Piatti costringe il virtuosismo nell’etimo di “virtù”, nell’espressione del sentimento vero, autentico dell’animo; lo piega alle capacità poetiche e narrative della musica, mai alla vanità delle acrobazie. E quindi la sua ricerca musicale è nella “verità” dell’espressione poetica, nell’efficacia di un violoncello che sa “recitare”, ma solo per poter “parlare” al cuore dell’ascoltatore.
Molta musica della seconda metà dell’800 è poco più che una palestra di esercizi di stile o di bravura acrobatica, che in massima parte sono diventati obsoleti divertissements già congedati dalla storia. Il tempo che ha filtrato, setacciato i linguaggi della poesia, rispetta solo quell’energia poetica che, se c’è, si manifesta nel potersi ancora confrontare con l’autenticità dei sentimenti. In Piatti, alla scelta etica ed eroica del suo “fare” musica, si aggiunge il suo essere “interprete” dei grandi: servitore, e quindi “strumento” della musica. Questo suo impegno è una cosa ancora abbastanza rara ai suoi tempi, e lui vi si dedica con l’umiltà dei grandi uomini, suonando in Trio e in Quartetto musica non virtuosistica, non “alla moda”, per far conoscere e far amare tutta la complessità e la spiritualità dell’arte. Per questo nacque e si impose al pubblico europeo il celebre Quartetto Joachim, del quale Piatti fu il violoncellista, sostituito poi dal suo allievo Robert Hausmann.
Nel panorama di fine ’800, la musica da camera e quella strumentale italiana ricevono un contributo straordinario dalle sei Sonate per violoncello e pianoforte che Piatti compose con coscienza della sua maturità artistica, cominciandole all’età di sessantadue anni, e terminando la sesta nel 1896. Infatti, alla struttura classica, all’estetica mitteleuropea, o mendelssohniana, Piatti sovrappone l’italianità della melodia, del cantabile, e la sua sapiente, originalissima maniera di sviluppare il virtuosismo violoncellistico.
Durante la sua carriera, Piatti suonò con molti grandi virtuosi di pianoforte, come Paderewsky, Döhler, Moscheles, o Anton Rubinstein, ma eseguì le sue composizioni solo con pianisti meno noti, sebbene di altissimo livello, come la moglie Mary Ann, Arabella Goddard o Fanny Davies. Viene quasi il sospetto che, per la sua indole modesta, non ritenesse i suoi lavori all’altezza dei grandi nomi. Eppure la scrittura delle sue Sonate, benché non sembri particolarmente impegnata ad esaltare il pianismo dell’epoca, non tratta mai il pianoforte con indifferenza, o come mero accompagnamento. C’è, anzi, una squisita ricercatezza nell’impasto coi suoni del violoncello, nell’ottenere suggestive trasparenze e, soprattutto, un uso brillante e virtuosistico dello strumento, magnificamente concertante, attraverso un contrappunto sempre vivo ed efficace nello sviluppo drammatico della composizione.
Nella Prima Sonata, che Piatti eseguì molte volte a Londra a cominciare dal 5 gennaio 1885, accompagnato da Mme. Haas al pianoforte, il violoncello si spinge ai limiti estremi di quel suo virtuosismo non appariscente, mai volgare, quasi per rivolgere all’Hugo Becker cui è dedicata, una lezione sulle virtù del sacerdote dell’Arte, del “santo acrobata” che scaccia da sé la vanità, compiacendo il pubblico solo per poterlo avvicinare alla dottrina. Così, fra torrenti di note “senza rete”, sempre in unisono col pianoforte, sempre in posizioni ferocemente rischiose, si deve poter conquistare quella “Virtù”. Tutta questa Sonata sembra rappresentare la “Regola” della sua arte, offerta come eredità, e ricca di varie eredità essa stessa, se si nota come i due temi dell’Andantino siano quasi riferibili agli stili dei due grandi maestri di violoncello dell’inizio ’800: a Bernhard Romberg il primo, e a Justus J. F. Dotzauer il secondo. Anche il finale -del quale ci rimane un foglio manoscritto che testimonia la difficile gestazione delle idee e dei temi- si avvale infine di un’idea dalla prima Invenzione op.X di Francesco A. Bonporti (forse all’epoca ritenute di J. S. Bach), alternata alla giocosa ubriachezza di una sorta di frammento di Valzer, chiudendo così una composizione che si presenta come un dono della sua cultura e un affettuoso, e “virtuoso”, omaggio ai Maestri ideali del passato.
Con la Seconda Sonata Piatti sembra meditare su due momenti fondamentali della sua vita: nell’estate del 1885, come sua abitudine, era in Italia con la figlia Rosa, già fidanzata con il Conte Carlo Lochis di Bergamo. Ebbero un grave incidente di carrozza, e Alfredo si ruppe malamente il braccio destro. Appena fu in grado di muoverlo, scoprì di non riuscire più a suonare, e credette di essere giunto alla fine della sua carriera. Durante la lunga convalescenza nella villa dei Lochis scrisse questa Sonata e la dedicò a un suo caro amico inglese, l’Esquire F. C. Pawle. Infine guarì perfettamente, tanto da eseguirla lui stesso a Londra, con la pianista Agnes Zimmermann, già il 5 aprile ’86.
L’8 luglio 1844 visse un altro indimenticabile avvenimento, quando Felix Mendelssohn -che pochi giorni prima, il 24 giugno, aveva diretto una memorabile serata dei Philarmonic Concerts di Londra con Piatti come solista- chiese di suonare per pochi amici la sua Seconda Sonata in Re maggiore op.45, ancora mai eseguita, con il «beau talent» del giovane virtuoso italiano. Alfredo suonò a prima vista dal manoscritto dell’autore, e ricordò sempre quel concerto come uno dei momenti più importanti della sua vita, proprio nell’anno in cui cominciò la sua fortuna. Ecco perché, a distanza di tanti anni, nella sua Seconda Sonata, dopo una breve, intensa frase d’apertura, inizia quell’Allegro spiritoso carico di forza vitale e di gioia di vivere, nella stessa tonalità, tempo e ritmo di quello di Mendelssohn; quasi un ricordo del Maestro che forse amò più d’ogni altro (Mendelssohn iniziò a scrivere per Piatti un Concerto per violoncello e orchestra, ma perse i suoi appunti durante un viaggio, e non lo scrisse più).
Dopo la splendida pagina meditativa dell’Adagio lento, commovente capolavoro di introspezione, la Sonata si conclude con delle Variazioni del I° tempo, come a confermare quell’omaggio, consegnando pure una formidabile prova del suo virtuosismo: nella bravura acrobatica e nell’espressione del sentimento. (torna indietro)

La Terza Sonata, dedicata alla sua amica newyorkese Josephine May, fu eseguita per la prima volta dall’autore a Londra il 28 gennaio 1889, probabilmente ancora con Agnes Zimmermann al pianoforte, o forse con Edward Grieg, col quale suonò in molti concerti proprio in quel periodo. Forse, fra le sue composizioni, è quella che maggiormente raccoglie suggestioni tipicamente “britanniche”, o nordiche, in modo particolare nel Finale, così narrativo, quasi una fiaba raccontata agli occhi meravigliati dell’innocenza. Dallo slancio appassionato del primo movimento, fino a quel Fa sovracuto che chiude la Sonata, tutto è pervaso di sensualità, di poesia, di stupore, offerto con altissimo equilibrio formale e tecnica splendente.
Tutt’e tre le Sonate, più la quarta intitolata Sonata idillica op.31, furono pubblicate da Schott & Co., intorno al 1895. Su questa edizione, che resta finora l’unica disponibile, noi abbiamo studiato per realizzare questo disco.
Piatti, che nel 1844 ricevette in dono da Franz Liszt un prezioso violoncello di Amati, quello stesso anno si invaghì di uno Stradivari del 1720, che era stato acquistato da un suo amico e ammiratore, il Generale T. Oliver.
Il 18 giugno 1866 ricevette proprio quel violoncello, insieme al seguente biglietto: «Mio caro Piatti, mi procuro il piacere di mandarvi il violoncello che spero gradirete come segno della mia stima per voi e ammirazione del vostro straordinario talento. Vostro sinceramente T. Oliver». Da allora volle suonare solo più con quello, che chiamò “il suo Strad“, e che oggi porta il suo nome. Alla sua morte, nel 1901, venne venduto al banchiere e dilettante di violoncello Robert Mendelssohn, nipote del grande Felix, quasi un ultimo omaggio alla sua memoria.
Il grande critico musicale Robert Hanslick, in “The Strad“, nel 1858, così descrisse il “modo” di Piatti: «... His playing, which for beauty of tone, is incomparable, is also fully developed in the direction of virtuosity, as in that of refinement and perfection of style … when playing Schubert’s Litanei, there is a complete absence of that horrible sentimentality which is so often found among violoncellists. When rendering an Adagio, too, that perpetual vibrato, which with many passes for feeling, is quite absent in the case of Piatti.».
Dopo un concerto a Pavia nel 1875, un anonimo critico scrisse: «Cinge col manco braccio il suo violoncello, come si raccogliesse al seno un caro fanciullo … in tale istante il suonatore e lo strumento non sono che una cosa, un essere unico: i sentimenti dell’uno si traducono, e manifestano mediante la voce dell’altro, ed i misteriosi affetti del cuore del virtuoso, hanno per interprete e rivelatore il violoncello». Questa immagine, forse, racchiude tutta la lezione di Piatti: attraverso i percorsi dell’arte del violoncello, essere servitore e strumento solo della maestà della musica.
Null’altro, e nulla di più prezioso poteva esser lasciato in eredità all’arte del nostro secolo.

 

Bibliografia essenziale:
A.Lodetti Barzanò, «Il musicista C.A.Piatti, un violoncellista nell’Europa dell’800», Bergamo, 1996.
V.Camplani, «A.Piatti, cenni biografici», Bergamo, 1902.
M.Latham, «Alfredo Piatti», Essex, 1901.
E.van der Straeten, «History of the Violoncello...», Londra, 1915.

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Piatti, AlfredoCarlo Air Baskyrs Op.8 free sheet music

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