Libia e non solo : collage – Domenico Quirico – Lucio Caracciolo video , qualche vecchio post

UPDATE 3-Libyan oil pipeline sabotaged, gunmen storm Sirte offices

Sat Feb 14, 2015 8:36pm GMT

Feb 14 (Reuters) – Libya‘s National Oil Corporation urgently called on Saturday for more official protection for its installations after an oil pipeline from its El Sarir field was sabotaged, halting flow to Hariga port.

In a separate incident, gunmen stormed government buildings in the coastal city of Sirte, forcing officials out at gunpoint and taking over administrative offices and television and radio stations, the state news agency said.

No group claimed responsibility for Saturday’s pipeline sabotage, but oil infrastructure, ports and pipelines in the North African OPEC member state are often targets of attack.

Libya is riven by conflict, with two rival governments operating their own armed forces under separate parliaments, nearly four years after the civil war that led to the overthrow and death of leader Muammar Gaddafi in 2011.

The fighting also involves Islamist militant groups, former rebels, soldiers who fought for Gaddafi, and tribal and federalist factions often pursuing local causes.

In addition to the El Sarir sabotage, the National Oil Corporation said in a statement that gunmen had also tried on Friday to attack the Bahi oil facility in central Libya, but did not cause any damage.

“The NOC warns that the number of oil installation guards currently in the fields is not enough to protect them and to address such attacks,” it said.

No more details were immediately available about the attack in Sirte, where several Islamist militant groups are active.

Hariga oil terminal supervisor Rajab Abdulrasoul told Reuters on Saturday the El Sarir pipeline was hit at around 5 a.m, igniting a blaze and shutting of the flow to Hariga port.

“Hopefully, they will be able to control the fire as soon as they can,” he said. He had earlier said the incident was a bomb attack, but later said it was sabotage and a fire.

An NOC spokesman said a tanker had been loading up with crude at Hariga. He said it could take up to three days to restore the pipeline.

Hariga had just reopened after a strike by guards there. The country’s two main oil ports and nearby fields are still closed after clashes between rival armed groups trying to gain control of them.

Libya’s oil production has fallen to around 350,000 barrels a day, a fraction of the 1.6 million bpd Libya used to pump before the NATO-backed 2011 uprising that ended Gaddafi’s rule.

Apart from fighting between the two rival factions vying for control of Libya, militants claiming ties to Islamic State extremists in Iraq and Syria have also said they carried out several recent attacks.

Two gunmen attacked Tripoli’s Corinthia hotel last month, killing nine people, including five foreigners, in an attack claimed by militants who said they were loyal to Islamic State.

Earlier this month, gunmen killed 12 people south of Sirte, among them two Filipino and two Ghanaian nationals, after storming a remote oilfield. Officials said most of the victims were beheaded or shot.

French and Libyan officials said Islamic State militants were behind the attack on the oilfield, in which France’s Total has a stake, but which is operated by a Libyan company. (Reporting by Ahmed Elumami and Ulf Laessing; Writing by Patrick Markey; Editing by Tom Heneghan)

http://uk.reuters.com/article/2015/02/14/libya-security-idUKL5N0VO08120150214

Iniziata l’evacuazione degli italiani dalla Libia: “Tagliagole nelle strade, qui è il terrore”

Radunati all’alba verranno trasferiti in patria con una nave mercantile
Una «tecnica», fuoristrada con una mitragliatrice montata sul pianale, dei jihadsiti in azione nell’Est della Libia

15/02/2015

guido ruotolo
ROMA

È iniziata l’evacuazione degli italiani dalla Libia. I nostri connazionali sono stati radunati all’alba e verranno riportati in patria attraverso una nave mercantile.

Anche Tripoli ormai è una città fantasma. Bruno Dalmasso e la moglie Nura (lei è etiope) aspettano il rimpatrio. Si intuisce che Dalmasso, che si occupa del cimitero italiano di Hammangi a Tripoli, è molto preoccupato, scosso: «In tutti i momenti difficili del passato, mentre gli altri connazionali hanno lasciato la Libia io non mi sono mosso da qui. Ma oggi ho paura. Lascio anch’io».

E la paura è quella dei tagliagole, dei fantasmi del Daesh, acronimo arabo dell’Isis. «Chi comanda ormai a Tripoli – dice Dalmasso – sono le bandiere nere, quelli dell’Is. In città vedi molti stranieri, siriani o iracheni che magari si sono tagliati le barbe o i capelli ma poi quando si tratta di accoltellare o sparare sono in prima fila».

L’attentato al Corinthia

Tutto è precipitato dal giorno dell’attacco al «Corynthia», il 27 gennaio scorso. Una autobomba, poi raffiche di mitra. È il gruppo del Daesh che ha iniziato a uccidere gli stranieri. Due americani, tra gli altri, prima di farsi esplodere. È quel giorno che Tripoli ha avuto la conferma che la città era già stata «infiltrata». E l’Italia e la comunità internazionale hanno capito che la Libia era ormai «totalmente» fuori controllo.

È una immagine terribile, che fa riflettere. I libici vicini al Parlamento che si è insediato a Tobruk (Cirenaica) spiegano che non sono arrivati ieri i jihadisti dalla Siria o dall’Iraq o dagli altri paesi. Sono in Libia da tempo: «Si sono insediati nelle varie città in tutti questi mesi e ora hanno deciso di uscire allo scoperto. E adesso stanno arrivando i loro rinforzi».

Potremmo trovarci alla vigilia di una guerra civile. Di una nuova guerra civile. E questa volta non più tra Tripolitania contro Cirenaica, gheddafiana la prima, ribelle la seconda, come fu all’inizio della rivolta contro il regime di Gheddafi. Oggi anche le milizie che si sono prestate a una guerra fratricida in questi mesi potrebbero decidere di cambiare strategia. Dopo la «conquista» delle bandiere nere di Sirte – con la drammatica notizia che i 21 prigionieri egiziani copti potrebbero essere stati sgozzati – è forte il timore che i fedelissimi di Al Baghdadi continuino una marcia trionfale senza trovare ostacoli.

Milizie contro jihadisti

Le milizie di Misurata hanno deciso di difendere la loro città. Questo è un segnale indicativo di quello che potrebbe succedere. È come se diverse milizie avessero deciso di prepararsi alla battaglia contro il nemico jihadista. La Libia è a un bivio, e rischia di diventare una nuova Somalia se le milizie non troveranno un accordo con la comunità internazionale per un governo di pacificazione nazionale. O comunque, potrebbe essere alla vigilia di una guerra civile se anche le milizie integraliste moderate dovessero decidere di non riconoscersi nel Daesh.

Sono quasi duecento gli italo-libici rimasti a Tripoli, figli di italiani che si sono sposati con donne libiche. Mentre sono una decina le italiane sposate con libici. Il personale dell’ambasciata, i tecnici e i dirigenti dell’Eni, gli italiani che lavorano in Libia sono già stati tutti evacuati. Ieri a Tripoli, racconta la signora Nura, «sembrava un giorno di festa di una città normale. Le due prime squadre in classica del campionato di calcio hanno giocato allo stadio. E cortei di macchine di tifosi hanno impazzato per tutta la sera». Prosegue la signora: «Non usciamo più di casa se non per andare a fare la spesa. Sembra tutto normale. Ma solo all’apparenza».

Gli italiani che hanno lasciato Tripoli in questi giorni sono pessimisti: «Ogni decisione che verrà presa – spiega un ingegnere – è tardiva. Non abbiamo capito quello che stava succedendo, abbiamo pensato di essere noi l’ago della bilancia, di avere un ruolo nel tentativo di dialogo tra tutte le parti in campo. La Libia è un po’ come la Siria. Ci siamo accorti del pericolo jihadista troppo tardi». E adesso anche la nostra ambasciata sta per chiudere i suoi battenti. Fu già saccheggiata durante la rivolta contro Gheddafi. Era la più importante sede diplomatica occidentale. Oggi rischia di essere il fantasma di se stessa.

http://www.lastampa.it/2015/02/15/esteri/gli-italiani-pronti-alla-fuga-in-massa-tagliagole-nelle-strade-il-terrore-wqEB0dr1SHVwrmLVjvj8eI/pagina.html

La soluzione politico-strategica necessaria ad un intervento militare italiano in Libia

Il primo dicembre 2014 usciva su GPC questo post che sintetizza una soluzione politico-militare per la crisi libica. Lo riproponiamo oggi alla luce delle dichiarazioni interventiste del governo italiano.
Libia 2011, la rivolta esplode a Bengasi, Gheddafi si prepara a soffocarla come tante volte aveva fatto in passato ma in quell’anno la volontà dell’amministrazione americana, la voglia dei francesi di scavalcare l’Italia nel ruolo di partner commerciale privilegiato con il paese retto all’epoca da Gheddafi, la politica degli Stati Uniti atta ad escludere dal mediterraneo la Federazione Russa, la pochezza italiana e la debolezza del primo ministro Berlusconi, diedero il via ad i una campagna militare che determino la caduta del regime libico, la morte di Gheddafi e pochi mesi dopo la dissoluzione dello stato libico.
Una dissoluzione generata dalla mancanza di una strategia politica a medio termine, una strategia che doveva avere come obiettivo, non solo danneggiare un avversario (i Russi per gli Americani e gli Italiani per i Francesi) ma anche prevedere la riorganizzazione della Libia.
Nessuna strategia di questo tipo fu messa in atto e la Libia implose. Così sono nati vari Signori della Guerra, spesso finanziati (se non armati) anche da stati esteri, sono nate formazioni islamiste che si richiamano al Califfato, la parte orientale del paese si è trasformata in un territorio di garanzia per i gruppi terroristici che oggi vogliono colpire l’Egitto e che domani potrebbero volgere il loro sguardo verso l’Italia.
Islamisti che controllano oggi l’est del paese, area per la quale le analisi americane riguardanti la situazione sul campo erano così sbagliate da determinare la morte del loro ambasciatore per mano di uno di quei gruppi senza legge che ora imperversano nel paese.
Oggi serve un intervento militare del quale il nostro gruppo aveva già parlato il 23 novembre (si ma del 2013),  individuando tutte le criticità che oggi stanno emergendo prepotentemente; tuttavia all’epoca non avevamo fornito una parte fondamentale dell’analisi e cioè la strategia politica funzionale al successo della missione militare.
A nostro avviso una soluzione politico-strategica esiste.
In primo luogo non è possibile affermare che la democrazia, in stile occidentale, risolverà ogni cosa. Il nostro modello non è applicabile in molte nazioni, e la Libia è una di queste, a causa di problematiche culturali e sociali, ed in questo caso anche per cause geografiche e geopolitiche.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che la Libia in se non esiste come stato nazionale, ma è una creazione geopolitica del colonialismo europeo. Tuttavia dopo oltre un secolo di questo assetto dei confini nazionali essi sono oggi imprescindibili.
LibiaNella Libia si possono distinguere 4/5 macroaree, tre costiere (la Cirenaica, la Tripolitania e la regione di Misurata) e due nell’interno (il Fezzan e la regione di Al Jawi). A queste cinque macroaeree andrebbe, a nostro avviso, garantita ampia autonomia politica, di autogoverno, di impostazione dell’assistenza sociale, della destinazione dei propri fondi di Budget, dell’istruzione, dell’amministrazione della giustizia, delle forze di polizia, come in uno stato federale ad elevata autonomia.
Il governo centrale dovrebbe invece mantenere il controllo sull’esercito nazionale, sui confini dello stato federale, su una forza di polizia federale che possa perseguire i crimini, relativi a particolari reati di interesse nazionale su tutto il territorio libico. Il governo dovrebbe farsi carico di distribuire, in maniera proporzionale secondo criteri di popolazione ed estensione territoriale (in maniera da bilanciare i fondi destinati alle aree costiere più popolose rispetto a quelli destinati alle aree del sud del paese con una popolazione inferiore ma con ampie aree di territorio) i proventi delle esportazioni degli idrocarburi libici.
Proprio a riguardo delle aree di estrazione, transito, esportazione e raffinazione degli idrocarburi dobbiamo fare una importante distinzione. Tali aree, a nostro avviso, andrebbero escluse dal territorio delle regioni federate della nuova Libia e denominate “aree di interesse strategico nazionale” sotto la giurisdizione e il controllo del governo centrale, che li amministrerebbe a nome dell’intero paese. Il governo centrale riceverebbe così i pagamenti dagli acquirenti internazionali e li ridistribuirebbe secondo i principi di pololazione e ampiezza territoriale delle regioni.
Questo assetto dovrebbe garantire finanziamenti equi e distribuiti in maniera corretta ed evitare dispute che le aree dove sorgono i siti di estrazione, quelle dove transitano i gasdotti e gli oleodotti e quelle dove sono situati i terminal per le esportazioni.
Per giungere a questo assetto sarà necessaria una assemblea costituente che decida quali istituzioni dell’attuale stato dovranno essere mantenute, quali create ex novo e quali abolite. La medesima assemblea dovrà individuare i coefficienti per la distribuzione dei proventi delle esportazioni e i limiti di giurisdizione del governo centrale, nonché la rappresentatività di ogni singola “regione” nel parlamento federale (sempre a nostro avviso tenendo conto del mix popolazione-estensione territoriale).
Tale procedura dovrà essere sotto garanzia di un gruppo di contatto che si faccia carico, in base ad una risoluzione delle Nazioni Unite, di garantire la transizione pacifica al nuovo status di Stato Federale. Va da se che in una prima fase le truppe delle Nazioni Unite dovranno avere un mandato di Peace-enforcement in base all’art 42 della Carta delle Nazioni Unite.
Il ruolo “combat” delle truppe delle Nazioni Unite, in una prima fase dell’intervento deve essere chiaro e non messo in discussione al fine di scoraggiare movimenti di resistenza che possano far leva sulla proverbiale indecisione e scarsa prontezza della Catena di Comando che fa capo al palazzo di vetro.
Se per un qualsiasi motivo (veti incrociati, desideri di egemonia geopolitica) non si riuscisse a trovare una soluzione in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, serebbee preferibile (rispetto ad una inerzia foriera di caos e di rafforzamento dei gruppi più estremisti oggi presenti in Libia) un intervento dell’Egitto e dell’Italia e di qualunque altra nazione condivida il progetto federale per la Libia, in base all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, visto che tali formazioni presenti su suolo libico, hanno ripetutamente espresso la volontà di mettere in pericolo l’integrità territoriale sia dell’Italia sia della nazione Egiziana, nazione Egiziana ai quali confini si sono già manifestati attacchi armati originati dal territorio libico. Comprendiamo le difficoltà diplomatiche, politiche, e anche militari, di una scelta così radicale, tuttavia il prezzo del non agire sarebbe molto più alto del costo dell’azione, e comprometterebbe entro pochi anni la sicurezza stesse del Nord Africa e del nostro Paese.
Va tenuto presente che una nostra presenza in Libia sarebbe salutata con favore da gran parte della popolazione, oggi in una situazione di anarchia e di crollo dello stato sociale messo in piedi da Gheddafi negli ultimi 20 anni. Va altresì ricordato che la nostra presenza sarà benvenuta se temporanea, e a patto di instaurare subito un piano di rilancio economico per i paese, prestare massima attenzione al fenomeno della corruzione e avviare il processo federale da noi esposto ripristinando la legalità e una parte di stato sociale, tangibile ed evidente, come ad esempio l’assistenza sanitaria che dovrebbe essere garantita dalla nostra Sanità militare con il supporto del Servizio Sanitario Nazionale.
Se miglioreremo subito e concretamente le condizioni di vita dei libici saremo bene accolti e entro 18/24 mesi potremo lasciare la Libia padrona del Suo destino. Se invece interverremo e accetteremo la corruzione, senza dare nulla di concreto ai libici (serve cibo, ordine e un sistema sanitario) allora faremmo meglio a rimanere a casa!

http://www.geopoliticalcenter.com/2015/02/la-soluzione-politico-strategica-necessaria-ad-un-intervento-militare-italiano-in-libia/

SCENARIO- Libia una guerra per procura tra Egitto e Turchia -SCENARIO-

By Settore Medio Oriente

5/02/2015

Questo è il terzo possibile scenario sull’evoluzione della crisi libica, il meno probabile ma che va comunque enunciato
Libia, estate del 2016, dopo diciotto mesi di battaglia, di attentati suicidi, di caos generato dalla presenza degli uomini del Califfato in Libia, le due principali forze che si contendono l’egemonia sul paese sono riuscite, grazie ad un coordianamento derivato dagli accordi di Ginerva, a sradicare dalla Libia gli uomini dello Stato Islamico.
Ora però, come spesso accade nella storia della geopolitica, sconfitto il comune nemico le tribù di tripoli-misurata e il governo riconosciuto internazionalmente di Tobruk non collaborano più è solo la forza delle armi risulta essere il mezzo per risolvere le controversie tra le due parti in conflitto.
La situazione è di relativo equilibrio ma nel mese di giugno una delegazione ad alto livello del gruppo che controlla la città di Tripoli sale, all’aeroporto della città su un aereo delle linee aeree turche e decolla alla volta di Ankara. Appena atterrati in Turchia si recano al palazzo presidenziale per formalizzare al presidente turco una richiesta di supporto militare.
Già dall’inverno 2014 la Turchia assicurava frequenti voli, sia cargo che passeggeri, tra il proprio territorio e la parte occidentale della Libia, in mano alle tribù di Tripoli-Misurata, tribù che per assetto politico, per fusione dello stato con la religione islamica, per volontà censorie, molto si avvicinavano al modello turco dello stato che viene plasmato in questo periodo storico dal partito islamista al potere.
Ora la Turchia annuncia ufficialmente che fornirà aiuti “non letali” alle tribù che controllano l’Ovest del paese, e che presto inizieranno le consegne di razioni alimentari Halal, divise, elmetti in kevlar giubbotti antiproiettile, sistemi di comunicazione e apparati di posizionamento GPS.
Ma con queste forniture, in quanto di armi in Libia se ne trovano in quantità enormi, le milizie di Tripoli e Misurata avanzano rapidamente verso est e le truppe di Tobruk, si trovano quindi in inferiorità tecnica. Così il governo egiziano decide di fornire al governo di Tobruk non solo i medesimi equipaggiamenti ma anche sistemi anticarro di ultima generazione e istruttori militari che cercano di rimediare alla sopravvenuta inferiorità tecnica del governo laico. Ma alla presenza di istruttori militari egiziani sul suolo libico corrisponde immediatamente la medesima misura da parte di Ankara, naturalmente senza che questo aiuto venga fornito in maniera ufficiale, nel solco delle ultime guerra combattute senza la presenza ufficiale di nessuna nazione.
Siria, Ucraina e ora Libia, diventano loro malgrado protagoniste della “Guerra Fantasma” (la cui teorizzazione troverete lunedì 9 febbraio qui sul sito)

http://www.geopoliticalcenter.com/2015/02/libia-una-guerra-per-procura-tra-egitto-e-turchia/

L’Isis in Libia, l’eredità avvelenata del colonnello Gheddafi / ANALISI

Beirut – L’espansione dello Stato islamico (Isis) in Libia è in parte uno dei «bocconi avvelenati» lasciati nel Mediterraneo dalla strategia del deposto e defunto presidente libico Gheddafi.

Lorenzo Trombetta – febbraio 14, 2015

Beirut – L’espansione dello Stato islamico (Isis) in Libia, a poche ore di viaggio dalle coste italiane, è in parte uno dei «bocconi avvelenati» lasciati nel Mediterraneo dalla strategia del deposto e defunto presidente libico Muammar Gheddafi, che sin dagli anni ‘90 e ancor di più dai primi anni 2000, col consenso implicito di Stati Uniti e di alcune potenze occidentali, ha controllato i movimenti estremisti tradizionalmente basati in Cirenaica. Secondo la ricostruzione, supportata da una nutrita cronologia di fatti accertati, offerta da Lorenzo Declich, già docente all’Università Orientale di Napoli e uno dei massimi studiosi italiani di jihadismo, gli eventi che in queste ore insanguinano il golfo della Sirte erano prevedibili, almeno dallo scoppio della guerra in Libia quattro anni fa. E sono l’esito di una catena di responsabilità libiche, arabe e occidentali di cui Gheddafi «è l’ultimo cruciale anello». In una conversazione con l’Ansa, Declich ricorda che «i jihadisti che oggi in Libia combattono in nome dell’Isis non sono altro che i sopravvissuti del jihadismo storico della Cirenaica, dei combattenti mandati in Iraq a partire dal 2003, di alcuni detenuti della prigione Usa di Guantanamo e di diversi terroristi rimessi in libertà da Gheddafi a partire dal 2009 e fino alla vigilia delle manifestazioni popolari anti-regime del febbraio del 2011». Tra questi spicca il nome del libico Abu Sufyan ben Qumu, già coinvolto nell’attacco alla missione diplomatica Usa di Bengasi. Dopo aver passato anni a Guantanamo, gli americani lo consegnano a Gheddafi nel 2008. E nell’ottobre del 2011, poco prima della caduta di Tripoli, viene misteriosamente rilasciato. Poco dopo – afferma Declich – ben Qumu figura come il leader di Ansar Sharia, un gruppo qaedista che ha poi giurato fedeltà all’Isis. Dal 2009 le autorità libiche avevano rilasciato circa 850 terroristi, tra cui Nasser Taylamun, indicato come uno degli autisti di Osama bin Laden, Abdelhakim Belhaj, Khaled Shrif e Sami Saadi, rispettivamente leader, capo militare e ideologo dell’allora ala qaedista libica. In precedenza, i servizi di sicurezza di Tripoli avevano facilitato la partenza di questi e di altri jihadisti verso l’Iraq post-Saddam. Alcuni tornano in Libia proprio per partecipare, sotto il vessillo qaedista, alla guerra scoppiata nel 2011.

La pericolosità dello scenario libico è anche data dalla proliferazione di armi provenienti dall’arsenale di Gheddafi. Declich sottolinea come «gran parte di queste armi sono finite nelle mani dei contrabbandieri e di diversi gruppi della galassia jihadista dentro e fuori la Libia». Lo studioso italiano evoca anche il più recente coinvolgimento di attori esterni ,come il Qatar, che ha ospitato Belhaj, il «jihadista-mercenario» usato anche nella guerra sporca in Siria, e che «aveva guidato alla conquista di Tripoli la propria fazione sponsorizzata da Doha». Bisogna inoltre considerare – prosegue Declich – che l’est della Libia è da decenni terra di contrabbando: è un porto sicuro per traffici di ogni tipo e sin dagli anni ‘90 è la culla del jihadismo libico. Un’altra zona grigia della Libia nel caos sono le sue regioni a sud e sud-ovest. Qui, il qaidismo ha trovato corpo in organizzazioni terroristiche dell’Africa subsahariana e nei nuovi legami tra diversi rami africani del jihadismo: gli Shabaab somali, Boko Haram in Nigeria, i jihadisti in Mali.

http://www.themeditelegraph.com/it/markets/finance-and-politics/2015/02/14/isis-libia-eredita-avvelenata-del-colonnello-gheddafi-analisi-t0r7rwhYH17e2hhekrZBsI/index.html

La Libia nella morsa dell’Isis e l’imbarazzo dell’Onu

Tripoli – L’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini parla con l’inviato speciale Onu per la Libia Bernardino Leon «per coordinare come procedere».

febbraio 14, 2015

Tripoli – L’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini parla con l’inviato speciale Onu per la Libia Bernardino Leon «per coordinare come procedere». Monta l’attenzione sulla Libia e la consapevolezza che si rende urgente un’azione della comunità internazionale, anche una virata se necessario, per uscire dallo stallo che fa da cornice ad un’escalation risultata impossibile da fermare con gli strumenti messi in campo fino ad ora. «Per la prima volta, tutti gli invitati hanno partecipato ai colloqui». Così in un comunicato, solo lo scorso mercoledì, la Missione di supporto dello Nazioni unite per la Libia (Unismil) segnalava l’unico possibile elemento incoraggiante emerso dall’incontro di Ghadames. L’azione dell’Onu nel Paese è però di fatto in stallo. La nota diffusa lo scorso 11 febbraio metteva in evidenza la partecipazione del Gnc, il parlamento che sostiene il governo non-riconosciuto dalla comunità internazionale ma insediato a Tripoli e che aveva boicottato i colloqui svoltisi precedentemente a Ginevra. Ma non è bastato: restano infatti “congelate” le annunciate intenzioni di mettere a punto una tabella di marcia per contatti tra le parti con l’obiettivo di giungere ad un accordo, attraverso negoziati più approfonditi, da condurre in questi giorni. Resta così la consapevolezza che questo percorso potrebbe non essere sufficiente a scalfire gli interessi dei gruppi armati, da cui il pressing internazionale per cambiare strada.

Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha ribadito oggi che «La Libia deve diventare una priorità» per la comunità internazionale e che «l’Italia ha la responsabilità di sollecitare questa priorità» presso i partner. È tornato così ad evocare l’inevitabilità di un impegno, ma che sia nella cornice Onu: «l’Italia è in prima linea sul piano militare, politico e culturale. Di fronte alla minaccia che cresce l’Italia deve fare la sua parte nella cornice Onu, ma in Libia non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità», ha detto. Questo mentre da più parti si moltiplicano gli appelli ad una presa di posizione coordinata, Ue-Onu soprattutto. «L’Ue si deve dare una mossa. Non esiste solo la crisi in Ucraina, c’è anche quella sul versante sud del Mediterraneo, che è un’emergenza al pari dell’Ucraina. Non è accettabile che ci sia asimmetria», ha sottolineato il presidente del gruppo S&D al Parlamento europeo Gianni Pittella, chiedendo «un tavolo tra Onu e Ue perché si valuti la proposta del ministro Gentiloni». L’ex ministro degli Esteri Franco Frattini va oltre e parla chiaramente di «disimpegno», cui rimediare con un’azione antiterrorismo decisa dall’Onu: «La Libia come la Somalia negli anni ‘90. Abbiamo abbandonato la Libia al suo destino dopo la caduta del regime. Disimpegno europeo e americano, invece che invio di addestratori, supporto logistico, esperti per aiutare e formare “ex novo” un esercito statale», scrive Frattini su Facebook .
«Il terreno libero è stato occupato dai terroristi», continua Frattini. «E il prezzo sarà altissimo. Forse solo un’azione antiterrorismo decisa dalle Nazioni Unite potrebbe essere la risposta efficace. E l’Italia certo non potrebbe non partecipare»

http://www.themeditelegraph.com/it/markets/finance-and-politics/2015/02/14/libia-nella-morsa-dell-isis-imbarazzo-dell-onu-NGe2gyIX3tY8EIDFfhBNjM/index.html

Sirte, l’Isis controlla anche l’ufficio passaporti

Il Cairo – Oltre a emittenti e a un ospedale, l’Isis controlla a Sirte anche altri uffici governativi tra cui quello che emette i passaporti: è quanto emerge da resoconti dell’agenzia Lana e altri media libici.

febbraio 14, 2015

Il Cairo – Oltre a emittenti e a un ospedale, l’Isis controlla a Sirte anche altri uffici governativi tra cui quello che emette i passaporti: è quanto emerge da resoconti dell’agenzia Lana e altri media libici. Funzionari sono stati espulsi dall’«Ufficio passaporti», scrive l’agenzia mentre altre fonti mediatiche parlano di un «Centro per l’immigrazione» precisando che era già stato preso «la settimana scorsa» per essere diviso in un «tribunale islamico» e un «collegio femminile». È stato preso anche il «Fondo per la solidarietà sociale», riferisce Lana. Sul fronte delle emittenti radio e tv che ha reso chiara la presa di possesso della città (anche se resta fissato per domani un ultimatum rivolto alle milizie islamiche moderate e rivali di Fajr Libya afffinché sgombrino il campo) i media citano «Wataniya Tv», creata all’epoca di Gheddafi per usarla quando c’era una conferenza internazionale in città. Viene confermato che le radio in mano all’Isis sono «Syrte» e «Mkmadas» (o Mekmedas).
Vengono poi citati anche un hotel (il «Mahary») e «alcuni ospedali e cliniche», quindi non solo l’«Ibn Sina». I media spiegano che, come avvenuto per Derna, Sirte è stata conquistata «lentamente da forze islamiste negli ultimi mesi».

http://www.themeditelegraph.com/it/markets/oil-and-energy/2015/02/14/sirte-isis-controlla-anche-ufficio-passaporti-TFm1Fy5culbxi47QAnSavK/index.html

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