I grandi numeri della civiltà. Così abbiamo imparato a fare i nostri calcoli , Problems with Zero, WITTGENSTEIN ecc…

ANNOTAZIONI STORIChe e FILOSOFICHE SULLO Zero

 

GIOVANNI GRECO

Università di Bologna

Lo zero rappresenta un affascinante territorio di congiunzione fra matematica, storia e scienze umane, ogni ambito legato all’altro, in una realtà ideale, priva di frontiere, in una repubblica della scienza che si è costruita un suo spazio anche in settori molto complessi. Il caso dello zero è un caso emblematico perché la matematica, come la massoneria, ha la capacità di passare dall’osservazione delle cose visibili all’immaginazione delle cose invisibili, marcando così uno dei suoi segreti più profondi.

Lo zero, dall’arabo sifr, nulla, zero, calco del sanscrito sunya, vuoto, zero, dall’arabo “zerret”, cosa da nulla, è il numero che precede uno e gli altri numeri, è l’unico numero della successione naturale che non sia successore di un altro numero, e va distinto dall’assenza di valore stando a significare niente, nessuna quantità.

Per le normali attività quotidiane lo zero sembrerebbe non servire affatto giacché nessuno va al mercato a comprare zero frutta e zero pesci, ma in realtà l’impiego dello zero ci è stato imposto dalle esigenze legate all’esercizio di una raffinata razionalità. Non casualmente T. Dantzig sosteneva che “nella storia della cultura, la scoperta dello zero si ergerà sempre come una delle più grandi conquiste individuali del genere umano”.

Naturalmente bisogna distinguere lo zero dalla lettera o, perciò lo zero è designato a forma di uovo, mentre la lettera O è più circolare. Nella scrittura su carta la distinzione fra 0 e O è ancora meno evidente, per cui per evidenziarle a volte, si utilizza una sbarra sullo zero.

Nel sistema a basi miste (dieci, venti e sessanta), i Sumeri prima e i Babilonesi poi ebbero bisogno di un segno speciale per separare le cifre, cioè per indicare spazi vuoti: per esempio tra le tre centinaia e le due unità il posto delle decine rimaneva vuoto. Dopo che dal 1700 al 1400 s’era fatta strada l’idea dello 0 come spazio vuoto, ecco che attorno al 300 a.C. i Babilonesi iniziarono ad usare un sistema di numerazione in cui impiegavano due cunei pendenti per marcare uno spazio vuoto. Questo simbolo aveva la funzione di “segnaposto” e, successivamente, venne sostituito dallo 0 che era una forma simile all’impronta lasciata sulla sabbia da un ciottolo tondo dopo essere stato rimosso. Sempre sul versante simbolico, il sole ha avuto un’incidenza straordinaria, e il simbolo del sole corrispondeva allo zero e, in certi periodi, ad un punto o a un cerchio con dentro un punto. Nel sistema babilonese antico quindi il segno introdotto voleva dire “assenza” e non aveva nessuna funzione numerale. Neppure i greci, i più grandi matematici della storia, concepirono lo zero come numero: i loro numeri partivano da due, dato che per loro il numero era molteplicità; perciò uno non era un numero e zero men che meno. Si sostiene che questo fatto era dovuto anche al terrore filosofico che i Greci avevano del nulla, del vuoto, dell’assenza. Robert Kaplan, nel suo Zero, storie di una cifra, azzarda un’ipotesi suggestiva, ricordando che i matematici greci indicavano i numeri con ciottoli posati sulla sabbia. Quando si toglieva un ciottolo, rimaneva l’impronta indicata poi con un cerchietto vuoto.

Con l’introduzione dello zero non fu più necessario utilizzare gli abachi, tavolette rettangolari usate dagli antichi per eseguire i calcoli. Lo zero sembrava strettamente connesso con la conchiglia, con la chiocciola, con la pigna, ma soprattutto con l’uovo. Infatti la rappresentazione dello zero, nella sua lontana origine grafica, appariva collegabile all’uovo. Sappiamo bene che l’uovo è stato considerato un simbolo sacro, il segreto dell’essere che si dischiude e nasce alla vita, la dimostrazione concreta come dal nulla origina la vita, esattamente come lo zero, che sembra qualificarsi come il nulla e che però origina l’uno. Non casualmente tante antiche civiltà svilupparono la teoria dell’uovo cosmico, la nascita del mondo da un uovo, uovo considerato “un’unità primaria, caotica nei suoi elementi latenti”, uovo simbolo di rinascita, come per gli egizi, ma essenziale per indicare una precisa realtà effettiva e simbolica, contenente la molteplicità degli esseri, come dello zero poi si immagina la derivazione degli altri numeri.

Secondo i Cinesi il caos primordiale poteva essere simboleggiato dall’uovo, mentre per i Celti l’uovo era un contenitore simbolico capace di ospitare tante opportunità. Alla stessa stregua degli Egizi – all’interno del sistema dei geroglifici, non vi era la necessità di un simbolo come lo zero, perché non forniva informazioni numeriche – poi dei Russi e degli Svedesi, l’uovo permane come simbolo di immortalità e di resurrezione. Persino gli Etruschi avevano in grande considerazione quell’uovo così misterioso e stimolante, allo stesso modo delle popolazioni africane. In effetti l’uovo, come lo zero, appaiono come simboli di discendenza, di prosperità, di vita, racchiudendo entrambi i misteri dell’infinito inteso come elemento di rigenerazione.

Un segno rotondo appare nel 150 d.C. in Claudio Tolomeo per indicare gradi e i suoi zero sessagesimali, ma lo zero appariva in modo esplicito in aritmetica a base venti dei Maya, la cui civiltà fiorì soprattutto fra il 300 e il 900. I Maya sono stati indubbiamente, fra i popoli più antichi, coloro che avevano intuito le caratteristiche essenziali dello zero, anticipando di centinaia di anni, l’utilizzo più moderno degli europei. Per i Maya si abbinava lo zero alla spirale, lo zero, come l’uovo, il mondo di congiunzione da un mondo chiuso ad uno aperto. La cultura dei Maya operava, dal punto di vista numerico, su base venti, i numeri venivano letti dall’alto verso il basso, e lo zero simbolicamente somigliava ad un occhio, utilizzato spesso per ragioni di carattere “estetico”, nel senso che andava a colpire uno spazio vuoto, a sopperire ad una lacuna dal punto di vista visivo, rendendo più incisiva la rappresentazione di una particolare data. I Maya adottarono un sistema vigesimale, che andava su base venti e che andava di venti in venti.

In àmbito babilonese vi era già una netta differenziazione fra i calcoli dello zero, nella vita quotidiana e nella società, e l’assetto numerico vero e proprio. Lo zero veniva utilizzato negli scambi commerciali, come base dei sistemi di calcolo, e le cifre venivano impresse nell’argilla che poi subiva un processo di cottura, con lettura da sinistra a destra. All’inizio lo zero compare in registri contabili stando solo ad indicare uno spazio vuoto, ma poi verso il 2000 a.C. astronomi e matematici cominciarono a perfezionare il sistema posizionale. I Babilonesi impiegavano due cunei pendenti per occupare uno spazio vuoto, e poi il simbolo dello zero, dalla lettera greca omicron.

Ma, come è ben noto, lo zero fu concepito in modo maturo in India intorno al 500, con particolare riferimento al documento di Lokavibhaga del 458, famoso trattato di cosmologia. I matematici indiani erano quasi ossessionati dai grandi numeri, una sorta di “mala infinità”, tanto che Gautama, arrivato sino a 384000 per 710, ebbe a dire: “Questa è la fine dei calcoli. Di qui in poi comincia l’incalcolabile”. Furono i matematici indiani a porre i presupposti per gli studi di Brahmagupta ai primi del Seicento e fu proprio il termine indiano sunya, zero o vuoto a divenire sifr in arabo che poi venne convertito in cifra. Brahmagupta definì lo zero come la somma di due quantità uguali e opposte, di cui si servì enunciando le regole della divisione per zero. In particolare, sostenne che un debito detratto dal nulla diveniva un bene e un bene detratto dal nulla diveniva un debito. Gli Indiani operavano su base dieci, e la prima volta che appare uno zero oppure uno zero raffigurato come un punto, risale al quinto-sesto secolo d.C., su una lastra di rame. All’inizio stava ad indicare l’assenza di una cifra, e solo successivamente si passò dallo zero raffigurato da un punto allo zero raffigurato dal simbolo del circolo O. Un grande poeta indiano, Biharilal, alludendo ad una donna molto bella, fece un paragone fra il punto e lo zero: “Il punto sulla sua fronte, accresce la sua bellezza di dieci volte, proprio come un punto zero accresce un numero di dieci volte”. Lo zero indiano quindi via via assurse dal valore di assenza di cifra al rango di cifra. Ciò si rese possibile anche perché corrispondeva alla Weltanschauung indiana per cui viene e ritorna nel nulla, esattamente al contrario della filosofia greca, per la quale il nulla non era indicabile. Furono poi gli Arabi, appreso dagli Indiani il sistema di numerazione posizionale decimale, a trasmetterlo agli Europei.

Al 598 risaliva la più antica iscrizione sanscrita della Cambogia, dove il 520 venne reso con lo zero. Nell’isola di Sumatra e in Cambogia, alla fine del Seicento, lo zero compare come un circoletto del niente designato con un punto nero. Ancora nel tredicesimo secolo dire di una persona che era “cifra in algoritmo” era un’espressione assai spregiativa, sarebbe come dire oggi “quella persona vale zero”. Successivamente gli Arabi appresero dagli Indiani il sistema di numerazione e lo trasmisero agli Europei durante il Medioevo, perciò ancora oggi in Occidente i numeri scritti con quel sistema sono detti “numeri arabi”.

Probabilmente, il termine venne usato per la prima volta in un trattato di aritmetica del maestro Iacopo (1307), ove si legge “che lo zero per se solo significa nulla, ma è potenzia di farlo significare” e, sempre più è chiamato cifra, in lingua greca, “ovvero circhulo e alcuno lo chiama nulla”. Leonardo, figlio di Bonacci il pisano, ossia Fibonacci, fu probabilmente il primo a far conoscere la numerazione posizionale in Europa, parlando di nove cifre indiane e del segno zero, oltre a tendere verso il numero algebrico irrazionale denominato sezione aurea. Fibonacci nel suo Liber abaci pubblicato nel 1202 tradusse sifr in zephirus: da qui si ebbe zefiro e poi zero – quindi pure quello “zephirus” con cui si era soliti indicare un leggero vento di primavera, quasi un vento “da nulla”.

Fibonacci, mercante e viaggiatore, trattava già dei numerali arabi e parlava delle nove cifre indiane più il segno dello zero. La successione di Fibonacci è una sequenza di numeri interi naturali, mirante a individuare una legge atta a descrivere la crescita di una popolazione di conigli. Fra le principali proprietà dei numeri di Fibonacci vi è quella di tendere al numero algebrico irrazionale chiamato sezione aurea. Alla fine del tredicesimo secolo, però, i fiorentini decisero di vietare i numeri arabi, che si prestavano a perpetuare frodi perché, ad esempio, lo zero si poteva trasformare facilmente in 6 o in 9. Contestualmente, un certo uso dello zero era già diffuso fra i commercianti e finalmente l’accademia, nel 1240, con Alessandro De Villa Dei, sosteneva che lo zero era la decima cifra quella che viene per ultima, dopo il nove.

Bisognerà peraltro attendere il 1491 e il testo stampato a Firenze, Aritmetica Opusculum – splendida opera quattrocentesca con tavole per le moltiplicazioni, con elementi di geometria e la teoria dell’albero spezzato, la cui prima versione risaliva a Chin Chang Suan Shu (circa 300-200 a.C.), l’autore dei Nove capitoli sulle arti matematiche – di Filippo Calandri, illustre rampollo di una famosa casata fiorentina, per veder considerato lo zero alla stregua di un qualsiasi altro numero.

Nel sedicesimo secolo, John Napier trasforma le equazioni di secondo grado in equazioni uguali a zero, decretando definitivamente il passaggio dello zero dal mondo squisitamente simbolico, nonché da quello commerciale, a quello numerico a tutto tondo, consentendo così allo zero di esprimere delle quantità.

Inoltre, lo zero venne diffuso inizialmente in maniera esoterica utilizzando anche i tarocchi, che era un misto dei ventitré segni del sistema letterale greco-ebraico più il matto, ch’era un travestimento dello zero. In base a tale percorso, lo zero è diventato un raffinato numero naturale che l’essere umano ha impiegato millenni a concepire e a creare. Ancora, lo zero è considerato numero pari, è sia un numero sia un numerale, e il numero che lo segue è l’uno e nessun numero lo precede: di norma, le persone contano da uno, mentre in informatica si conta spesso da zero.

Ciononostante, non è del tutto vero che lo zero conti solo come numero e non sia presente nella nostra vita di tutti i giorni: sulla bilancia, in assenza di oggetti sul piatto, ci si aspetta di vedere apparire lo zero; i cronometri partono da zero; nell’orologio digitale, allo scoccare della mezzanotte, vi è lo 00:00 e solo dopo un minuto troviamo 00:01, così quando arriverà 00:01 saranno trascorsi sessanta secondi, ma all’inizio c’era zero e non uno. L’aereo parte alle zero precise ed allora non è che non accade nulla, ma parte un aereo; il termometro segna zero gradi, ed allora non è che non accade nulla, ma avviene la fusione del ghiaccio; sparare ad alzo zero, e allora non è che non accade nulla, ma si fa fuoco con l’arma orizzontale, quando il bersaglio è molto vicino, la benzina è a zero, ed allora non è che non accade nulla, ma la macchina non parte; il tasso zero, vendita di un prodotto a tasso zero, zero interessi, può essere un buon acquisto; nell’ora zero non è che non accada nulla: è il momento previsto per l’inizio dell’operazione; zero in condotta non significa che non è successo niente, ma che l’allievo è stato un gran discolo, intralciando i lavori didattici, disturbando insegnanti e compagni, non adeguandosi alle regole della vita scolastica; quando un bilancio è in pareggio, la differenza fra crediti e debiti è zero: non è di certo che non significhi nulla, perché è un sintomo di buona amministrazione. Pure l’espressione sotto zero allude al fatto che fa molto freddo: da un lato è l’ideale per chi va a sciare, dall’altro può persino provocare la morte di povere persone all’addiaccio per mancanza di mezzi.

Attualmente molte sono le espressioni che contengono la parola zero: dai capelli a zero alla crescita zero in economia e in demografia, dal numero zero in editoria al gruppo zero (uno dei gruppi sanguigni), allo zero assoluto all’interno della scala Kelvin, fortunato sistema di misurazione della temperatura.

Oggi ci sono in Italia oltre novecento persone che portano il cognome Zero – senza dimenticare Renato Zero, nome d’arte di Renato Facchini –, c’è il gruppo musicale degli “Zero assoluto”, c’è l’apprezzata trasmissione televisiva “Anno zero” di Michele Santoro, vi fu il gran film di Rossellini Germania anno zero, esiste il comune di Zero Branco, nei pressi di Treviso, vi sono tante favole per bambini in cui lo zero è doviziosamente adoperato, vi è un tatuaggio dello zero – di gran moda, pare – formato da quattro pugnali e da due croci greche sovrapposte, simbolo di vita, all’interno di un quadrato, espressione dell’equilibrio per eccellenza. Senza poi dire di Ground Zero – espressione inglese per indicare un territorio toccato da una terribile deflagrazione – ch’è divenuta la denominazione del luogo ove si sono verificati gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.

Per alcuni studiosi dell’esoterismo moderno, lo zero non corrisponde al nulla, ma va inteso, in senso neoplatonico, come limite estremo al mondo formale, e si esprime nel tentativo di andare “oltre lo zero”. Con lo zero si varca il limite della corporeità per accedere al mundus informalis, per dirla con gli indù vedantini, o alla suprema potenzialità, per dirla con René Guénon.

Infine, anche il nostro Trilussa ha utilizzato lo zero in un’amarognola poesia moraleggiante del 1944: “– Conterò poco, è vero: / – diceva l’Uno ar Zero – / ma tu che vali? Gnente: proprio gnente. / Sia nell’azione come ner pensiero / rimani un coso voto e inconcrudente. / Io, invece, se me metto a capofila / de cinque zeri tale e quale a te, / lo sai quanto divento? Centomila. / È questione de nummeri. A un dipresso / è quello che succede ar dittatore / che cresce de potenza e de valore / più so’ li zeri che je vanno appresso”.

 Bibliomanie.it

http://www.bibliomanie.it/annotazioni_storiche_filosofiche_zero_greco.htm

di Piergiorgio Odifreddi, la Repubblica, 23/02/2011
Un saggio di Bellos mostra come, dall’abaco alle tabelline, lo sviluppo dell’uomo sia legato al saper contare.
Il sistema oggi in vigore in Occidente è stato “inventato” in India nel V secolo e poi tramandato dagli arabi agli europei.
Risultati geometrici, astronomici e architettonici molto importanti sono stati raggiunti da vari popoli in epoche e luoghi diversi.
Se avesse voluto apporre un’epigrafe al suo libro Il meraviglioso mondo dei numeri (pubblicato da Einaudi Stile Libero), Alex Bellos avrebbe potuto usare la duplice domanda del neurofisiologo Warren McCulloch: «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?». Perché il suo sterminato ed enciclopedico libro è appunto un tentativo, divertente e riuscito, di rispondere a entrambi gli interrogativi, e di mostrare come le storie del numero e dell’uomo siano in realtà intrecciate in maniera inestricabile, e i progressi e regressi dell’uno siano andati di pari passo coi progressi e regressi dell’altro.
L’espressione “mondo dei numeri” del titolo si riferisce dunque non soltanto al concetto oggettivo di numero da una parte, e alle sue rappresentazioni soggettive nello spazio geografico e nel tempo storico dall’altra, ma anche alle facoltà intellettuali dell’uomo. In particolare, al fatto che la scrittura alfabetica e la notazione numerica hanno sempre fecondamente intessuto, in teoria e in pratica, un rapporto di mutua stimolazione e derivazione.Non stupisce quindi che il libro di Bellos sia in realtà una storia delle civiltà mascherata, osservata e raccontata dai complementari punti di vista del numero, delle cifre e del calcolo: tre aspetti di un’unica realtà, che costituiscono le versioni aritmetiche del pensiero, della scrittura e del linguaggio. Né stupisce che il libro mostri che, come le idee sono legate alla lingua in cui vengono espresse, e le parole sono legate alla scrittura con cui vengono registrate, così le varie civiltà abbiano affrontato e risolto in maniera diversa i problemi di definire filosoficamente i numeri, rappresentarli semioticamente e manipolarli matematicamente, rispondendo in maniera diversa alla domande su che cosa essi siano, come si possano indicare e come li si possa maneggiare.Naturalmente, non tutte le civiltà hanno trovato “la soluzione” di questi problemi, che consiste in una ricetta che combina i seguenti quattro ingredienti. Primo, scegliere una base arbitraria ma conveniente: ad esempio, dieci. Secondo, indicare tutti i numeri positivi minori della base con segni differenti: ad esempio, le cifre da 1 a 9. Terzo, rappresentare i numeri maggiori mediante un sistema posizionale, in cui le cifre hanno un valore diverso a seconda di dove si trovano: ad esempio, assegnando allo stesso 1 il valore di uno, dieci o cento, e allo stesso 2 il valore di due o venti, nelle espressioni 1, 12 e 123). E quarto, aggiungere una cifra (ad esempio, 0) per rappresentare allo stesso tempo sia un posto vuoto nella precedente rappresentazione, sia il numero zero corrispondente a una quantità nulla.Anzi, questa “soluzione” è il lascito culturale all’umanità di un’unica, grande civiltà: quella indiana della dinastia Gupta, che regnò nella valle del Gange e dei suoi affluenti tra il terzo e il sesto secolo della nostra era, ed è ricordata anche nella storia dell’arte per i suoi capolavori, primi fra tutti le pitture e le sculture delle grotte di Ajanta. La più antica registrazione dell’uso del sistema numerico indiano viene dalla Lokavibhaga: un’opera del 458, la cui datazione stabilisce un limite temporale superiore alla nascita del sistema numerico che oggi è universalmente in vigore nel mondo intero, dopo essere stato adottato dagli Arabi, e da essi tramandato agli Europei.I quali, come ricorda Bellos, non soltanto l’hanno accettato con grandi e secolari resistenze, ma ancor oggi lo usano in maniera impropria. Ad esempio, privilegiando alcune potenze della base dieci come il mille, il milione o il miliardo, e non assegnando alle potenze intermedie nomi propri, bensì nomi composti come diecimila e centomila, o dieci milioni e cento milioni, che trattano quelle potenze come basi aggiuntive al dieci e macchiano la purezza del relativo sistema decimale. Una stonatura che invece gli indiani seppero evitare.

Come racconta Bellos, il massimo numero per il quale gli indiani coniarono un nome fu quello delle gocce di pioggia che potrebbero cadere in diecimila anni sull’insieme dei mondi, valutato dal Buddha in dieci alla centoquaranta e da lui chiamato asankhya: una parola sanscrita che significa letteralmente “innumerabile” o “incalcolabile”. In Occidente soltanto Archimede poté competere con queste imprese: per rimediare alla pochezza della lingua greca, che aveva come massimo nome di numero la miriade, pari a diecimila, nell’Arenario egli inventò un modo sistematico per parlare di grandi numeri e lo applicò al calcolo del numero dei granelli di sabbia che potevano riempire l’universo, da lui valutato in dieci alla sessantatrè.

Ma non solo i Greci non avevano nomi per i grandi numeri: non avevano neppure le cifre, e usavano le lettere al loro posto. Poiché l’alfabeto classico aveva ventiquattro lettere, aggiungendone tre cadute in disuso essi ottennero un sistema di ventisette lettere, che divisero in tre gruppi di nove ciascuno: le prime nove per le unità, le seconde nove per le decine, e le ultime nove per le centinaia. Questo permise divertimenti come la composizione di poemi isopsefi, “a stesso calcolo”, in cui tutti i versi avevano la stessa somma numerica delle lettere. O paranoie come la lettura simbolica di numeri quali l’apocalittico 666, variamente interpretato nei secoli come il nome di Nerone, Diocleziano, Lutero o il Papa.

Ma non facilitò le operazioni aritmetiche, per le quali si dovette ricorrere a vari tipi di abaco: una letterale “tavoletta” che poteva essere di sabbia, di cera o a gettoni, e che permetteva di compiere in maniera analogica le operazioni che il sistema indiano permette invece di fare sulla carta in maniera digitale, manipolando le cifre con l’ausilio delle “tabelline”. Bellos ci narra che l’abaco fu usato, in qualche forma, da tutti i popoli che non possedettero un adeguato sistema numerico che permettesse di fare i “calcoli”: una parola, questa, che significa letteralmente “pietruzza” (come nel caso dei calcoli al fegato o alla cistifellea), e richiama l’origine primordiale dei numeri.

È in queste molteplici origini che si trovano le tante albe del numero di cui trattano i vari capitoli del libro di Bellos. Il sistema sessagesimale additivo dei Sumeri, ad esempio, di cui rimangono vestigia nel nostro computo dei secondi in un minuto, dei minuti in un’ora e dei gradi in un angolo giro. Il sistema decimale posizionale dei Babilonesi, che introdusse lo zero come posto vuoto. Il sistema vigesimale posizionale dei Maya, che arrivò a considerare lo zero come numero indipendente. E soprattutto il sistema completo di tutti gli ingredienti degli Indiani, che condividono con i Babilonesi, i Cinesi e i Maya l’introduzione del sistema posizionale, con i soli Maya l’invenzione dello zero, ma con nessun altro l’intuizione della necessità di indicare in maniera indipendente tutti i numeri minori della base.

Analogamente all’evoluzione biologica dell’uomo, o all’evoluzione linguistica dell’alfabeto, non bisogna però guardare all’evoluzione numerica del sistema indiano come a una teleologia. Da un lato, infatti, la constatazione che solo una civiltà è arrivata alla “soluzione” mostra che quest’ultima non può essere vista come un’inevitabile necessità, e dev’essere piuttosto considerata come una fortunata contingenza. E, dall’altro lato, i risultati geometrici, astronomici e architettonici raggiunti rispettivamente dai Greci, dai Maya e dai Romani, che possedevano solo sistemi numerici parziali e incompleti, mostrano che il progresso matematico, scientifico e tecnologico può evolversi in direzioni multiple e complementari, di molte delle quali Il meraviglioso mondo dei numeri narra le affascinanti vicende.

http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3722235

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