A settant’anni da “Kaputt” di Curzio Malaparte ; curzio malaparte scrittore “ maledetto “ – N. Copernico

A settant’anni da “Kaputt” di Curzio Malaparte

di pubblicato mercoledì, 14 gennaio 2015 ·

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica. (Fonte immagine)

Per Kurt Suckert, meglio conosciuto come Curzio Malaparte, quello di settant’anni fa fu un capodanno di festa. A poco più di un mese dall’uscita di Kaputt, le reazioni di stupore si reduplicavano e all’estero già si preparavano a tradurlo. Dalla casa di Capo Massullo, tuttavia, lo scrittore fingeva di riservare interesse a ben altre vicende. Il secondo capitolo dell’immane sforzo di raccontare «la peste della guerra» era già aperto (La pelle sarebbe uscito quattro anni dopo) e il bisogno di Malaparte di accreditarsi nel mondo nuovo che andava consolidandosi lo spingeva a cercare una sponda nelle fila del Partito Comunista. Fu così che, mentre il consenso letterario accoglieva una delle più straordinarie opere del Novecento, nell’Italia ancora spezzata, Kaputt apparve anche come il furbo prodotto di quell’uomo dal passato fascista che gran parte del mondo politico e intellettuale si sarebbe poi affannato a condannare. Negli anni seguenti, alle accuse contro l’abilità nel destreggiarsi fra opposti poteri si aggiunse la critica all’affidabilità dei resoconti. Tanto che si addensarono sull’opera dello scrittore ombre che si sono allungate fino ai nostri anni.

A rileggere oggi questo capolavoro (da poco tascabile: Adelphi, pp. 476, euro 13), si resta sbalorditi. E innanzitutto proprio per l’abilità della mano con cui Malaparte riuscì a trasformare la realtà. Magia, grottesco, follia, allegoria, sogno, delirio si alternano a raccontare una dimensione che sfugge di continuo, tanto è l’orrore di un’umanità che fatica a restare nell’alveo della sua animalità. Questo «viaggio al termine della notte» nell’Europa in fiamme (Céline è stato più volte chiamato in causa) fu sì il risultato dei viaggi del Malaparte inviato sul fronte orientale per il Corriere della sera (Romania, Polonia, Jugoslavia, Germania, Ucraina, Russia, Svezia e Finlandia) ma fu soprattutto esso stesso un viaggio nel mondo animale dominato da quel «mostro allegro e crudele» cui allude la «dura e quasi misteriosa parola tedesca Kaputt, che letteralmente significa “rotto, finito, andato in pezzi, in malora”».

Le sei parti del libro sono intitolate a cavalli, topi, cani, uccelli, renne e mosche. Perché, come scrive Maurizio Serra, autore della definitiva biografia (Malaparte. Vite e leggende, trad. dal francese di A. Folin, Marsilio, pp. 587, euro 25), «gli animali sono gli unici innocenti per definizione, i soli che soffrano di una pena che non ha la sua origine nell’espiazione di una colpa, ma nel sacrificio puro, gratuito, cristologico». Animali sono dunque gli uomini nella loro veste di vittime, laddove nel momento in cui si fanno persecutori si assimilano piuttosto alla perversione di «animali degradati dalla ragione».

Le storie che l’io narrante del libro, ovvero lo stesso Malaparte, racconta in circostanze reali trasformate da una penna trasfigurante, gettano luce, oltreché sugli esseri umani, sui popoli. E principalmente, è ovvio, sui tedeschi di cui si racconta in continuazione la paura: «Hanno paura sopra tutto degli esseri deboli, delle donne, dei bambini. Hanno paura dei vecchi. La loro paura ha sempre suscitato in me una profonda pietà. Se l’Europa avesse pietà di loro, forse i tedeschi guarirebbero del loro orribile male». Degli italiani, Malaparte ghigna in prima persona: «Io ho perso l’abitudine di agire. Sono un italiano. Non sappiamo più agire, non sappiamo più assumere alcuna responsabilità». Degli spagnoli, invece, egli parla attraverso uno dei personaggi principali del libro, il Conte Augustín de Foxá, Ministro di Spagna a Helsinki: «È crudele e funereo come ogni buon spagnolo. Soltanto per l’anima ha rispetto: il corpo, il sangue, le sofferenze lo lasciano indifferente. Gli piace parlar della morte, si rallegra come una festa nel veder passare un funerale».

Mai come in Kaputt, Malaparte ci appare nella sua potenza di camaleonte.  «Aristocratico con gli aristocratici, diplomatico con i diplomatici, militare con i militari, operaio con gli operai», compare sulla scena a Stoccolma, a fianco del Principe Eugenio di Svezia, cui dopo poco comincia a narrare di un villaggio ucraino dove con soldati romeni discorre di Unione Sovietica pensando a Tolstoj e affondando sempre più in un vortice di storie e di lingue. Tedesco, francese, romeno attraversano la scena, mentre Malaparte porta ovunque il suo sarcasmo, il gusto del paradosso, la battuta salace tipica del ragazzo nato a Prato da padre sassone e madre milanese.

Dalla “corte” del Generalgoverneur di Polonia, Hans Frank (poi condannato a morte a Norimberga), dove si aprono gli scenari più atroci del ghetto di Varsavia e del tragico pogrom romeno di Jassy (dove morirono 14000 ebrei), fino all’amata Finlandia dove Malaparte affabula gli ascoltatori fra l’altro con i bombardamenti di Belgrado vissuti da un cane. Berlino, Zagabria, il mefistofelico duce croato Ante Pavelic, Capri, Axel Munthe, Edda Ciano, e finalmente la Lapponia dove incontriamo Himmler nudo in sauna, giunto lì a punire con la fucilazione i soldati tedeschi presi dal desiderio del suicidio. Il paradosso domina. Tutto si confonde. Vita e morte perdono i loro significati elementari e l’abilità di scrittore di Malaparte raggiunge vette inarrivabili.

Kaputt è anche un gioco di tempi. Presente e passato s’intrecciano senza lasciar più speranza al lettore. Sogni e ricordi prendono il sopravvento, notti ebbre si riempiono di violenza pronta a sciogliersi in risate folli. E, prima che l’autore torni a Roma e Napoli (gli ultimi due capitoli) un aneddoto reale viene trasformato al punto da chiarire definitivamente quella che è la vera chiave del libro:  il misero scontro fra uomini e uomini s’illumina soltanto quando l’uomo affronta l’animale che è in sé. È la storia della lotta contro i salmoni ingaggiata dai soldati tedeschi nella loro pesca guidata dall’insana brama di estirpare la specie ittica. Ma «i salmoni sono coraggiosissimi e non è facile vincerli». Così, quando il generale von Heunert si troverà a dover sconfiggere l’ultimo esemplare del fiume Juutuanjoki, Malaparte regalerà al lettore una delle scene più indimenticabili.

Nell’appendice che Adelphi propone troviamo la vera storia su cui lavorò letterariamente (p. 452). È una prova eccezionale per capire quanto egli stesso avrebbe detto circa il suo stile in Pelle, forse già difendendosi dalle accuse montanti. È un manifesto di poetica, quello messo in bocca, nella finzione, a un colonnello americano di nome Hamilton. Dovrebbe tranquillizzarci per sempre e consentirci di ridare a questo fenomenale scrittore il posto che gli è stato spesso negato. «Non ha alcuna importanza» dice Hamilton «se quel che Malaparte racconta è vero o falso. La questione da porsi è un’altra: se quel che egli fa è arte, o no».

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Malaparte Curzio

Kaputt

Mar, 15/09/2009 – 06:20 — alfredo ronci

Trovo scandaloso il modo in cui Curzio Malaparte è sempre stato trattato dalla ‘critica’ letteraria nostrana. Sentite cosa scrive Giuseppe Petronio nel suo Racconto del novecento letterario: fascista e antifascista, versipelle congenito, esempio esemplare di malcostume, cinico ed intelligente.

Per non parlare di Giuseppe Gigliozzi che in ‘Cultura e letteratura del ventennio fascista’ scritto contenuto in Storia generale della letteratura italiana di Walter Pedullà a proposito di come si debba affrontare il ‘problema’ Malaparte dice: tentazione di rifugiarsi (…) nell’immagine dell’opportunista voltagabbana (…) le sue prigioni, i suoi esili, hanno più l’aspetto della colonia estiva che quella del lager (…) Malaparte continua ad essere l’infaticabile produttore di bolle di sapone.

E Kaputt, il suo capolavoro, non ha sorte migliore: viene trattato in due righe di sufficienza.

Ora ci si chiede: perché questo astio? Perché questa continua e ammorbante censura, perché questo ostracismo nei confronti di uno degli scrittori più talentosi che l’Italia abbia mai prodotto? E’ all’indice perché nel nostro paese vige ancora la cappa del diktat gramsciano (ma sarà vero?) della superiorità della cultura della sinistra? Ma allora cosa dovremmo dire di chi è sempre saltato sul carro dei vincitori rispolverando una verginità ideologica che solo ai più distratti è sembrata coerente? In fondo nessuno ha mai messo in discussione l’arte di Rossellini dopo Roma città aperta, dimenticando però la filmografia precedente di regime. Perché dunque si continua a bersagliare di maldicenze Curzio Malaparte? Forse perché come diceva Giuseppe Prezzolini in un sentito ricordo al caro amico subito dopo la morte: i suoi peccati m’ispirano simpatia, mentre le virtù di altri mi danno fastidio.

La polemica sullo scrittore pratese non è certamente nuova: pensiamo al bel libro di Giordano Bruno Guerri (L’arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte – Bompiani), quel che non convince però è la disistima assoluta per la sua arte, per la sua straordinaria capacità di raccontare un mondo in declino e gli orrori di una guerra che ha prodotto sofferenze indicibili.

Perché Kaputt questo è: un quadro sconvolgente ed amaro della crudeltà umana. E lo ricordiamo perché Adelphi, in una bella edizione, ripresenta il capolavoro nella speranza che anche i più riottosi ed imbecilli capiscano che siamo di fronte ad una delle opere più stimolanti e suggestive di tutta la letteratura italiana del dopoguerra.

Dice lo stesso Malaparte della sua opera: Kaputt è un libro crudele. La sua crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dello spettacolo dell’Europa in questi anni di guerra. Tuttavia, fra i protagonisti di questo libro, la guerra non è che un personaggio secondario. Si potrebbe dire che ha solo un valore di pretesto, se i pretesti inevitabili non appartenessero all’ordine della fatalità. In Kaputt la guerra conta dunque come fatalità. Non v’entra in altro modo. Direi che v’entra non da protagonista, ma da spettatrice, in quello stesso senso in cui è spettatore un paesaggio. La guerra è il paesaggio oggettivo di questo libro.

Al di là delle maldicenze dei più invidiosi (l’invidia di chi sa di non poter competere con un’arte più sublime) Malaparte visse davvero in prima persona l’ultima guerra: in un primo tempo con il grado di capitano degli Alpini e in seguito, lavorando come corrispondente per il Corriere della Sera. Alla fine di marzo 1941 si spostò in Jugoslavia, dove fu l’unico corrispondente di guerra straniero al seguito delle truppe tedesche.

Kaputt proprio questo racconta: in un clima spesso mondano (Malaparte era ben ‘visto’ da molte personalità politiche dell’epoca ed aveva la possibilità di frequentare i bei ‘salotti’ del tempo e le residenze di alcuni eminenti capi), lo scrittore, di fronte allo sconquasso della guerra e delle tragedie umanitarie, si lascia andare a considerazioni politiche di tutto rispetto (ne enumereremo alcune) e ai racconti, quasi sempre di una partecipazione commovente ed emotivamente insopportabili (nel senso che è si fa fatica a contenere l’emozione), che tracciano un quadro indimenticabile (qualcuno, sempre a corto di argomenti pensiamo noi, ha parlato di autocompiacimento. Lo dice anche Giordano Bruno Guerri nel suo libro, ma non vorrei che questa sorta di ‘appagante estetismo’ di Malaparte non dipendesse dal fascino e dall’elan che lo scrittore stesso si portava dietro, per via di un’innata predisposizione all’eleganza) degli anni che vanno dal 1941 al 1944.

Sin dall’inizio si avverte un clima plumbeo e foriero di sventure: poco prima della guerra, in un incontro col principe di Piemonte a Capri, Malaparte scrive: Non v’era più nulla di puro, più nulla di veramente giovane, ormai in Italia. C’era come il segno di un destino comune, nelle rughe, nella calvizie precoce, nella pelle morta di quel giovane principe.

In quegli anni lo scrittore ha già saltato il fosso: nel senso che avverte già chiaramente il declino del sogno mussoliniano (ma non solo quello, ma credo la fine di tutto l’armamentario fascista), pur essendo stato da giovane entusiasta ‘ideologo’ del regime (partecipò alla marcia su Roma del ’22) e sostenitore di un agghiacciante ‘squadrismo intransigente’ soprattutto dopo l’assassinio di Matteotti.

La sua prospettiva politica gli permette, in vari passi del libro, di affrontare tematiche che sono state per molti anni patrimonio anche della storiografia più clarata.

Pensiamo ai rapporti tra il Papa e Mussolini a proposito dello ‘svezzamento’ della gioventù e dello scontro tra regime ed Azione Cattolica: Quando nasce un italiano, Mussolini lo prende sotto la sua protezione: prima lo affida a un asilo d’infanzia, poi lo manda a scuola, più tardi gli insegna un mestiere, quindi lo iscrive al partito fascista e lo mette a lavorare, fino all’età di vent’anni. A vent’anni lo chiama sotto le armi, lo tiene due anni in caserma, poi lo congeda, lo rimette a lavorare, e non appena è maggiorenne gli dà moglie: se gli nascono dei bambini, ripete ai figli il trattamento che ha già fatto al padre. Quando poi il padre, divenuto vecchio, non può più lavorare e non serve più a nulla, lo manda a casa, gli da una pensione e aspetta che muoia. Finalmente, quando è morto, Mussolini lo consegna al Papa perché ne faccia quel che gli pare.

Pensiamo all’idea di Pio XII di preferire il nazismo al comunismo (sarebbe da approfondire quest’argomento visti i dibattiti che periodicamente s’intavolano sul discusso pontefice, e magari un’occhiata a quello che lo stesso Pio II pensava della bomba atomica… non guasterebbe mica).Durante una partita di cricket con un gerarca fascista (sta qui forse l’astio dei nemici di Malaparte? In questa sorta di appartenenza ad una confraternita del Male? Ma dài!), Franz Wachter afferma: Il clero polacco teme più i russi che i tedeschi, teme più i comunisti che i nazisti. Può darsi che abbia ragione. E in un dialogo rubato tra il ministro di Turchia Agah Aksel e il primo ministro rumeno Constantinide si legge: “Oggi a Vienna ci sono i nazisti” disse Constantinide. “Se si facessero cristiani ci rimarrebbero” disse Agah Aksel.

Pensiamo all’idea della crudeltà nazista: Ciò che muove il tedesco alla crudeltà, agli atti più freddamente, più metodicamente, più scientificamente crudeli, è la paura. La paura degli oppressi, degli inermi, dei deboli, dei malati, la paura dei vecchi, delle donne, dei bambini, la paura degli ebrei.

Ma è sugli aspetti orrendi e mutilanti della guerra che Malaparte dà il meglio dal punto di vista letterario (e non capisco come si possa essere autocompiaciuti nel raccontare le tragedie di un mondo in disfacimento). Kaputt è diviso in capitoli ed ognuno di questi è titolato con nomi di animali: cavalli, topi, cani, uccelli, renne e mosche. Le parte migliori sono quelle dedicate ai cavalli: i cavalli delle terre finlandesi che, a causa di un inverno particolarmente freddo e del vento gelido che scende dal mare di Murmansk e per sfuggire gli eserciti nazisti, restano bloccati nel gelo con la testa fuori, come statuine da giardino: Nei giorni opachi dell’interminabile inverno, verso mezzogiorno, quando un po’ di luce sbiadita piove dal cielo, i soldati del colonnello Merikallio scendevano dal lago, andavano a sedersi sulle teste dei cavalli. (…) La scena sembrava dipinta da Bosch.

I topi sono i bambini del ghetto di Varsavia che scavano buche nel terreno per poter fuggire dall’isolamento nella speranza di racimolare del cibo: “Dov’è il topo?” domandò Frau Brigitte Frank. “Achtung!” disse il soldato prendendo la mira. Dalla buca scavata ai piedi del muro fece capolino un nero ciuffo di capelli arruffati, poi due mani emersero dalla buca, si posarono sulla neve. Era un bambino.

Il colpo partì, ma anche questa volta fallì di poco il bersaglio. La testa del bambino scomparve.

“Dammi qua” disse Frank con voce impaziente “non sai neppure tenere un fucile in mano”. Afferrò il fucile del soldato e prese la mira.

Nevicava nel silenzio.

Basterebbero queste poche frasi per rendere Kaputt una lettura indispensabile. E oltremodo suggestivo sarebbe affrontare la tematica animalista nell’opera di Malaparte: non soltanto, come abbiamo visto, i capitoli di quest’opera sono contraddistinti tutti dalla presenza di animali, ma c’è nel mondo dello scrittore pratese una sensibilità, al riguardo, fino ad allora sconosciuta ai più. Pensiamo a Febo, il cane tanto amato e pianto sul tavolo di un laboratorio di vivisezione ne La pelle che tornerà in un racconto di Sangue. Alla mamma nel racconto Madre che cerca il suo bambino (sempre Sangue) che scambia un cane per la propria prole, lo mette nella culla e nel tentativo di allattarlo si lascia mordere. O l’agghiacciante finale de Un giorno felice (sempre Sangue) dove viene ucciso un gatto. Il racconto vuole rappresentare una Italia littoria felice, ma proprio nell’apparente serenità del momento si nasconde la crudezza di una violenza che esplode improvvisa, macchiandosi di sangue innocente.

Kaputt, come dice lo stesso autore, sta tutto nel titolo: Lei conosce l’origine della parola kaputt? E’ una parola che proviene dall’ebraico kopparoth, che vuol dire vittima. Il gatto è un kopparoth, è una vittima, è l’inverso di Sigfrido: è un Sigfrido immolato, sacrificato (il cerchio si chiude no?).

Vittima è il bambino russo che spara ai tedeschi durante la guerra di Russia. Alla domanda del gerarca nazista perché spara, risponde che lo sa già, non c’è bisogno di dirlo. Ascolta, non ti voglio far del male. Sei un bambino, io non fo la guerra ai bambini (…) Ascolta, io ho un occhio di vetro. E’ difficile riconoscerlo da quello vero. Se mi sai dire, subito, senza pensarci su, quale dei due è l’occhio di vetro, ti lascio andar via, ti lascio libero.

“L’occhio sinistro” risponde pronto il ragazzo.

“Come hai fatto ad accorgertene?”

“Perché dei due è l’unico che abbia qualcosa di umano”.

Vorremmo azzardare di più: con tutti i suoi errori e i suoi voltafaccia Malaparte è stato egli stesso vittima della sua straordinaria capacità di vedere e prevedere le cose. Forse nel titolo di questo libro ‘obbligatorio’ intravedeva la possibilità di essere frainteso: che le sue vicinanze alle stanze del potere, quelle sue ‘liaisons dangereuses’ potessero significare per i più condivisione se non addirittura complicità dei crimini raccontati.

Scriveva al suo amico Prezzolini in una lettera in cui confessava di stare male: Ma non si tratta di malattia soltanto: si tratta di schifo. Non sto a dirti quel che abbiamo passato. Una vera e propria caccia agli intellettuali, specie agli scrittori, organizzata da quei quattro cialtroni di intellettuali biliosi e di scrittorelli mancati, che anche sotto il fascismo, e per venti anni di seguito, non hanno fatto altro che romperci le scatole con denunzie, persecuzioni, calunnie sotterranee eccetera. E’ gente che in vent’anni non ha mai arrischiato nulla, si è sempre guardata dal compromettersi in senso antifascista, nel migliore dei casi, non ha mai scritto due righe contro Mussolini eccetera ed oggi spera, o sperava, di toglierci di mezzo con la presunzione di poter prendere il nostro posto nelle lettere, presso il pubblico, nei giornali eccetera.

Malaparte, se fosse in vita, capirebbe subito che quegli anni non sono mai finiti e che questo è ancora il paese degli scrittorucoli e delle ideologie preconfezionate che hanno rovinato la cultura e l’idea di poter vedere semplicemente oltre.

Raccontava al gerarca fascista: Non sapete che i bambini ebrei non camminano? I bambini ebrei hanno le ali.

Dovrebbero averle anche i lettori per poter volare con Kaputt e lasciare ai più la mestizia di una letteratura resa esangue dal mercato e da un falso realismo di risulta (neo-neorealismo?).

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Kurt Erich Suckert (Prato, 1898 – Roma, 1957), alias Curzio Malaparte, scrittore, giornalista e diplomatico italiano.

Curzio Malaparte, “Kaputt”, Adelphi, Milano 2009.

Prima edizione: M. Grassi e F. Goti, in “Malaparte 1957-2007. Trame d’autore” (Biblioteca Comunale A. Lazzerini, Prato, 2007] riferiscono: “Pubblicato nell’ottobre del 1944 quando la guerra non era ancora finita, ‘Kaputt’ fu stampato in una tipografia di Napoli requisita dagli Alleati, sotto i bombardamenti tedeschi, con scarsità di piombo, inchiostro e carta. Il libro uscì ancora prima dello sfondamento di Cassino, al quale Malaparte prese parte a fianco degli Alleati, e nel 1948 circolavano traduzioni in tutta Europa oltre a New York e Rio de Janiero, con un ciclo editoriale eccezionale per l’epoca”.

Approfondimento in rete: WIKI it / ItaliaLibri / Corriere della Sera.

In Lankelot:articoli su CURZIO MALAPARTE

http://www.lankelot.eu/letteratura/malaparte-curzio-kaputt.html

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Il ritorno di Kaputt bellissimo e crudele

di Giuseppe Leonelli, la Repubblica, 23/05/2009

Kaputt, definito dall¿autore ¿un libro crudele¿, è il resoconto d¿un viaggio attraverso l¿Europa devastata dalla guerra. Uscì nel 1944 e diventò, assieme alla Pelle del 1949, un grande successo internazionale, che consacrò lo scrittore, ma produsse indignate reazioni di rigetto. Famosa quella del Cecchi, per il quale Malaparte non era altro che un ¿fabbricante di bolle di sapone terroristiche¿. Oggi, passata tanta acqua sotto i ponti della letteratura, Kaputt ci appare un¿opera bellissima e tutt¿altro che monocorde, ricca di storie, sorretta da una forza stilistica, ereditata dal miglior D¿Annunzio, che ha pochi eguali nella letteratura contemporanea. Un libro terribile nel descrivere il degrado della civiltà europea, ma anche gentile e non privo di pietas, soprattutto con le donne e i bambini e altri occasionali, erratici puri di cuore ( si veda il ritratto del malinconico principe Eugenio di Svezia). Il nostro occhio scorre sulla Polonia offesa dall¿occupazione nazista, indugia sulle grandi pianure russe, dove un popolo eroico sta ribaltando le sorti della guerra, s¿affaccia sull¿inferno balcanico, s¿infila negli anfratti dell¿alta società romana, sfinita dall¿eterna, sciroccale, criminosa inerzia, giunge fino a Napoli, colta in una strepitosa, insieme angelica e bestiale, epifania. Kaputt appare animato in particolare da una splendida capacità di raccontare la natura, ancora raccolta nella purezza originaria, malgrado lo scempio prodotto dagli uomini.

http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3668284

CURZIO MALAPARTE

La Francia riscopre Curzio Malaparte e lo riscopre in chiave di uomo glaciale, anzi, addirittura «minerale», come lo definisce con un aggettivo carico di suggestione lo scrittore e diplomatico italiano  Maurizio Serra.
La casa editrice Grasset ha infatti annunciato per gennaio la pubblicazione di una biografia tutta nuova del grande esibizionista politico e affabulatore , che si presenta come un’ operazione culturale fuori dal comune, se si pensa che si tratta una «vita» di Malaparte scritta in francese per un pubblico straniero, che in 650 pagine propone una visione dell’ arci italiano per eccellenza, come di un uomo «di respiro autenticamente internazionale». È questa la tesi di Maurizio Serra, ambasciatore italiano all’ Unesco, ma anche storico della cultura e autore di alcuni precedenti saggi su personaggi a cavallo tra letteratura, storia e politica nelle ore più tragiche del Novecento, come Filippo Marinetti, Louis Aragon, André Malraux e Pierre Drieu La Rochelle. Forte di una documentazione più vasta di quella disponibile finora tra cui i rapporti della polizia francese e alcune lettere di Henry Miller e di Céline, Maurizio Serra in Malaparte, vies et légendes, descrive l’ autore di Kaputt «come un narciso intriso della tragicità del mondo.
Mentre tutto il resto – votare per un partito o sedurre una donna – conta pochissimo. Vale in quel momento ma non ha alcuna vibrazione profonda sulla sua natura».
Colpisce l’ interesse degli intellettuali francesi per Malaparte. Interesse che sembra avere due ragioni principali.
 «La prima è che Malaparte corrisponde a una certa idea molto francese dell’ intellettuale del Novecento, tra letteratura e azione, politica e avventura, che è un po’ il paradigma dell’ intellettuale impegnato.
Se si prende il diario di Bernard-Henri Lévy sulla guerra in Bosnia, si vede che l’ unico libro che si è portato dietro è Kaputt», spiega Serra. «Il secondo motivo è che Malaparte porta dentro di sé due caratteri molto costitutivi della cultura francese del Novecento, che sono da un lato il Salotto e dall’ altro il senso tragico della Storia. Per dirla con una battuta, è un intellettuale che passa dai campi da golf ai campi di sterminio». Quanto al suo cliché di «arci italiano», mitomane, esibizionista e voltagabbana della politica, Serra lo inquadra in una cornice psicologica di frigidità assoluta.
«Penso davvero che con la distanza data dal tempo il personaggio Malaparte venga a perdere quei cliché istrioneschi con cui a lungo lo abbiamo identificato, e ad acquistare una dimensione molto solitaria, quasi ascetica, addirittura, direi, minerale. Un uomo anaffettivo per cui gli uomini contano poco e le donne pochissimo. In Italia Adelphi ha dato il via alla ripubblicazione delle opere di Curzio Malaparte.

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(un articolo di Stenio Solinas)
Tecnica del colpo di Stato, di Curzio Malaparte, uscì in Francia nel 1931. Un anno dopo, in occasione del quindicesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre, Trotski si sentirà in dovere di contraddire pubblicamente il suo autore; vent’anni più tardi Ernesto Che Guevara porterà quel libro con sé durante l’avventura castrista e la successiva conquista del potere a Cuba.

Nel 1947, dal fondo della sua «prigione» danese, Louis-Ferdinand Céline risponde fra l’altro così all’offerta d’aiuto dello scrittore pratese: «Qui Kaputt è sulla bocca di tutti. Dell’élite che legge voglio dire, quella timorata di Dio per esempio, ma per la Danimarca è un trionfo. Ancora grazie, fraternamente». Blaise Cendrars, il romanziere monco e vagabondo idolo di tutte le avanguardie, andrà oltre: «Kaputt è un capolavoro, geniale e disgustoso. Anch’io credo che la civiltà sia fottuta. Per questo bisogna dire quello che abbiamo nel cuore. Altri parleranno dello stomaco».

 Sulla stessa lunghezza d’onda sarà Henry Miller: «Voi avete realmente compreso il significato recondito di queste guerre mondiali che sono appena all’inizio». Negli anni Ottanta del Novecento, in un saggio apparso su Vanity Fair, Bruce Chatwin accuserà Malaparte di snobismo, il che detto da lui suona involontariamente comico; più intelligentemente, agli inizi del nuovo millennio, Milan Kundera definirà l’autore di La pelle «un poeta, non uno scrittore impegnato. Con le sue parole fa male a se stesso e agli altri, chi parla è un uomo che soffre».

Se nell’arco di una vita, e post mortem, uno scrittore continua a far discutere e a far riflettere fuori dal suo Paese d’origine, vuol dire che la sua dimensione è internazionale e come tale va trattata.

Nello scrivere questa monumentale e bellissima biografia, che non a caso esce in Francia (Malaparte. Vies et lègendes), ricca di annotazioni psicologiche e che senza fare sconti di sorta restituisce in pieno il carattere del biografato, Maurizio Serra fa giustizia di quel provincialismo culturale che tanto vessò Malaparte in vita e in patria. Il libro, una miniera di inediti (la lettera di risposta di Céline sopra citata, così come quella di Henry Miller, per dirne soltanto due), lo riconsegna dunque alla dimensione che è sempre stata sua: Prospettive, la rivista da lui fondata negli anni Trenta, presentava traduzioni di García Lorca, Eluard, Yeats, Eliot, Rafael Alberti, Antonio Machado, Gottfried Benn; Kaputt e La pelle sono le più impressionanti descrizioni della Finis Europae che siano mai state scritte; in Deux chapeaux de paille d’Italie, pubblicato sempre in Francia nel 1948, si prevedeva il compromesso storico fra democristiani e comunisti con trent’anni d’anticipo…

Questo spiega perché nel libro di Serra ci sia più spazio per Jünger, Malraux, Koestler, Hemingway (senza dimenticare Byron e Chateaubriand) che per Longanesi, Maccari, Montanelli, perché Alberto Moravia, che pure si giovò del suo aiuto e della sua influenza, abbia in seguito sempre cercato di favorirne l’oblio, perché all’interno dello stesso fascismo Malaparte abbia fatto vita a sé, inclassificabile e perciò sostanzialmente ingovernabile.

Degli scrittori suoi contemporanei, quello che più gli somiglia, non è del resto un italiano, ma un francese, Pierre Drieu La Rochelle.

 Il tema della decadenza che ossessionerà Drieu per tutta la sua opera è quello che Malaparte, dalla Pelle a Mamma marciafarà proprio: il decomporsi di una civiltà e l’impossibilità di porvi un freno, l’aver sognato un ritorno a valori antichi, elementari, come antidoto, il doverne constatare il fallimento, il prendere atto della fine di un mondo. Malaparte scrittore europeo: era ora.

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Tra i tanti autori dimenticati dalla “letteratura istituzionale” italiana, Curzio Malaparte gioca un ruolo da assoluto protagonista. Uno dei pochi scrittori italiani a livello europeo.già definito a suo tempo da Gobetti  «la più bella penna del fascismo» ,e forse per questo dimenticato per anni.

“Tutti gli scrittori sono stati fascisti, nella qual cosa non vi è nulla di male. Ma perché oggi pretendono di farsi passare antifascisti, per martiri della libertà, per vittime della tirannia? Nessuno di loro, dico nessuno, ha mai avuto un solo gesto di ribellione contro il fascismo, mai. Tutti hanno piegato la schiena, con infinita ipocrisia, leccando le scarpe a Mussolini e al fascismo. E i loro romanzi erano pure esercitazioni retoriche, senza l’ombra di coraggio e di indipendenza morale e intellettuale. Oggi scrivono romanzi antifascisti come ieri scrivevano romanzi fascisti; tutti, compreso Alberto Moravia, che gli stessi comunisti (quando Moravia non flirtava ancora col comunismo) definivano uno scrittore borghese, e perciò fascista. L’attuale romanzo italiano rispecchia l’attuale conformismo anti-fascista del popolo italiano, come ieri rispecchiava il conformismo fascista e  rivela lo sforzo degli scrittori di conquistarsi una libertà formale e contenutistica in contrasto col loro inguaribile conformismo personale morale e intellettuale. Moravia, ad esempio, è il moralista e in un certo senso lo storico, non il critico, della borghesia fascista e chi ha voluto vedere negli Indifferenti un romanzo antifascista, ha sbagliato, consapevole o no, poiché l’indifferenza non era una reazione al fascismo, ma proprio una conseguenza di quella decadenza della società, di cui il fascismo era un altro degli aspetti”. (Malaparte)

Con lo stile ricco di immagini, mutuato da Proust e D’Annunzio e con i contenuti propri del verismo, esaltando un naturalismo alla Zola, Malaparte mostrò inimmaginabili mondi di degradazione e di miseria, le atrocità della guerra, creando quel meraviglioso orrore proprio delle sue opere.

Personaggio complesso, come solo l’intelligenza può essere. Incoerente, stravagante,contradditorio ma allo stesso tempo dotato di una gran logica e una grande passione. Uomo di gran gusto, dai gesti paradossali e bizzarri come sono tutti i “maledetti toscani.
“Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta”.
(La Pelle)
Mai, Malaparte, perse il suo temperamento, mai abbandonò il suo cinismo così profondamente impastato di dolore e così ferocemente lucido.
Prima di morire a Roma nel 1957, Malaparte si convertì al cattolicesimo, riuscendo con questa intima decisione a scandalizzare, ancora una volta, i contemporanei.

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Opere principali
Narrativa
Avventure di un capitano di sventura, 1927

Sodoma e Gomorra, 1931
Fughe in prigione, 1936
Sangue, 1937
Donna come me, 1940
Il Volga nasce in Europa, 1943
Kaputt, 1944
Don Camaleo,1946
Il sole è cieco, 1947
La pelle, 1949
Storia di domani, 1949
Maledetti toscani, 1956
Racconti italiani, 1957

Poesia
L’Arcitaliano, 1928,

Il battibecco, 1949

Teatro
Du côtè de chez Proust – Das Kapital, 1951

Anche le donne hanno perso la guerra, 1954

Saggistica
La rivolta dei santi maledetti, 1921·

Le nozze degli eununchi, 1922
L’Europa vivente, 1923·
Intelligenza di Lenin, 1930
Technique du coup d’état, 1931
I custodi del disordine, 1931
Deux chapeaux de paille d’Italie, 1948
Due anni di battibecco, 1955
Io, in Russia e in Cina, 1958
Mamma marcia, 1959
L’inglese in Paradiso, 1960
Benedetti italiani, 1961
Viaggio fra i terremotati, 1963
Diario di uno straniero a Parigi, 1966

http://www.pojanlive.com/2011/03/curzio-malaparte.html

Curzio Malaparte, pseudonimo di Kurt Erick Suckert , nasce a Prato nel giugno del 1898. Il padre Erwin, di origine tedesca svolgeva l’attività di “maestro tintore” mentre la madre era originaria di Milano. Fino a sei anni il piccolo Kurt visse presso una famiglia di operai dove ricevettequell’educazione proletaria che, sicuramente lascerà alcune tracce nella sua formazione ideologica e culturale. A tredici anni cominciò a frequentare il Cicognini (nello stesso collegio in cui avevastudiato anche il D’Annunzio) e, ammiratore di Mazzini e di Garibaldi, aderì al partito repubblicano.

In questo periodo venne a contatto con il mondo letterario che gravitava attorno alle riviste“Lacerba” e “La Voce”: conobbe Papini, Prezzolini, Palazzeschi, Soffici.

Dopo i fatti del 1914 (attentato di Sarayevo e iniziodella prima guerra mondiale) volle attraversare la frontiera a piedi per arruolarsi nella Legione Garibaldina costituita da operai, socialisti, repubblicani, francesi, inglesi, spagnoli, polacchi alsaziani.

Nel 1914-15 combatte nelle Argonne, ma entra anche in contatto, frequentando Montmartre aParigi, con artisti come Apollinaire

Appena l’Italia entra in guerra si arruola volontario e combatte su due fronti, prima in Italia, poi nuovamente in Francia. Proprio durante la battaglia di Bligny subirà una lesione ai polmoni procurata dal gas pyrite per la quale soffrirà per quasi tutta la sua vita fino alla morte per tumore.

Per un certo periodo di tempo lo vediamo in Belgio, poi in Germania e nel 1919 a Versailles con l’incarico di dirigere l’ Ufficio Stampa della Conferenza della Pace.

Nel 1921 Malaparte rientra in Italia per dedicarsi all’ attività giornalistica e letteraria frequentando gli artisti che gravitavano attorno alla rivista “Valori Plastici”: De Chirico, Carrà, Cecchi, Bontempelli.

Frequenta Savinio, Cardarelli, Bacchelli e pubblica

“Viva Caporetto!” (nelle edizioni successive con il titolo “La rivolta dei santi maledetti”). L’opera sarà ripetutamente sequestrata per il contenuto antimilitarista, disfattista, antinazionalista.

Durante l avvento del fascismo assume un atteggiamento polemico nei confronti degli intellettuali per l’interpretazione teorica della rivoluzione fascista.

Nel 1928 scrive il romanzo “Don Camaleo” (il romanzo di un camaleonte) in cui analizza i

protagonisti della farsa politica italiana e lo stesso Don Camaleo ( Mussolini ) non era altro che l’immutabile maschera della vita italiana, sempre pronta a trasformarsi.

Nel 1925 cambia il suo nome in quello di Curzio Malaparte e negli anni seguenti comincia i suoi viaggi in Russia dove conosce Majakovskij, Stalin e altre personalità del mondo politico e culturale

curzio malaparte : scrittore “ maledetto “ – N. Copernico

Il Cristo proibito 1950 | controappuntoblog.org

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