Corrado Alvaro – Gente in Aspromonte

Gente in Aspromonte» di Corrado Alvaro

Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte; d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro con lunghi cappucci attaccati a una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d’erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande pei porci neri. Intorno alla caldaia, ficcano i lunghi cucchiai di legno inciso, e buttano dentro grandi fette di pane. Le tirano su dal siero, fumanti; screziate di bianco purissimo come è il latte sul pane. I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto delle loro promesse spose, cavano dal legno d’ulivo la figu-rina da mettere sulla conocchia, e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di canna. Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano, quando appenderanno la giacca e la fiasca all’albero dolce della pianura. Allora la luna nuova avrà spazzata la pioggia, ed essi scenderanno in paese dove stanno le case di muro, grevi delle chiacchiere e dei sospiri delle donne. Il paese è caldo e denso più di una mandra. Nelle giornate chiare i buoi salgono pel sentiero scosceso come per un presepe, e, ben modellati e bianchi come sono, sembrano più grandi degli alberi, animali preistorici.

Arriva di quando in quando la nuova che un bue è precipitato nei burroni, e il paese, come una muta di cani, aspetta l’animale squartato, appeso in piazza al palo del macellaio, tra i cani che ne fiutano il sangue e le donne che comperano a poco prezzo.

Né le pecore né i buoi né i porci neri appartengono al pastore. Sono del pigro signore che aspetta il giorno del mercato, e il mercante baffuto che viene dalla marina. Nella solitudine ventosa della montagna il pastore fuma la crosta della pipa1, guarda saltare il figlio come un capriolo, ode i canti spersi dei più giovani, intramezzati dal rumore dell’acqua nei crepacci, che borbotta come le comari che vanno a far legna. Qualcuno, seduto su un poggio, come su un mondo, dà fiato alla zampogna, e tutti pensano alle donne, al vino, alla casa di muro. Pensano alla domenica nel paese, quando si empiono i vicoli coi lor grossi sospiri, e rispondono a loro, soffiando, i muli nelle stalle e i porci nei covili, e i bambini strillano all’improvviso come passerotti, e i vecchi che non si possono più muovere fissano l’ultimo filo di luce, e le vecchie rinfrescano all’aria il ventre gonfio e affaticato, e le spose sono colombe tranquille. Pensano alla visita che faranno alla casa di qualche signore borghese, dove vedranno la bottiglia del vino splendere tra le mani avare del padrone di casa, e il vino calare nel bicchiere che vuoteranno tutto d’un fiato, buttando poi con violenza le ultime gocciole in terra. Quel vino se lo ricordano nelle giornate della montagna come un fuoco dissetante, poveri ed eterni poppanti di mandra.

………

L’Antonello stava nella sua capanna di felci e di canne a mezzacosta dell’Aspromonte. Col fucile in ispalla girava come un guardiano, all’erta che non arrivasse qualcuno. La capanna era costruita su quattro alberi grossi, su due piani, e al pianterreno aveva un posto per le riserve. Qui belavano chiusi i montoni, e i buoi, che facevano un gran concerto. Qualcuno passava al largo, ma egli lo chiamava con un cenno, e posava il fucile in segno di pace. Voleva che, se andava al paese, portasse qualche piccolo regalo ai suoi amici; compensava lautamente. Metteva nella bisaccia del passante agnelli vivi e coscie di manzo. Si ricordava dei più poveri del paese, con la memoria dell’infanzia. Si ricordava dell’Agata cieca, quella che andava mendicando, e le mandava un agnellino. Si ricordava di tutti. Gli davano anche le notizie. Il signor Filippo era rovinato, rovinati i tre eredi del signor Camillo Mezzatesta. Erano arrivati la notte i carabinieri e si sarebbero messi alla ricerca degl’incendiari. Credevano che fosse una banda, e l’Andreuccio e il Titta la andavano cercando. Egli sorrideva orgogliosamente. Intanto era tornato suo fratello, Benedetto, che non poteva più pagare al seminario, e rimaneva vestito da prete. Era un santo, predicava la pace, viveva di pane ed acqua, e le donne lo seguivano e gli baciavano l’orlo della veste. Giovane com’era, dava già buoni consigli alla gente che ne chiedeva, e scriveva le lettere per tutti. E portate, diceva l’Antonello, questi pochi denari alla Schiavina, con questo agnellino. La conoscete la Schiavina? E questo maialino che lo allevi per il carnevale, alla mia salute. E questi denari a lui, a mio fratello Benedetto, che potrà così tornare a studiare. E che mi perdoni e preghi per me. Ora si diceva, nelle leggende che si spargevano sul conto suo, da quelli stessi che lo avevano veduto, che stava su un cumulo di carne macellata e che con un focone davanti alla sua capanna faceva arrostire quarti di bue e bocconi buoni. Egli emanava decreti, e mandò a dire ai piccoli mandriani che potevano star tranquilli, ché lui non ce l’aveva con loro. Si affacciarono dunque le pecore a brucare le erbe sui precipizi, ed egli le sentiva scampanellare e belare, col cuor pieno, come se le avesse create lui. Aspettava la sua sorte. Quando vide i berretti dei carabinieri, e i moschetti puntati su di lui di dietro gli alberi, buttò il fucile e andò loro incontro.

Finalmente, disse, potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!

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Corrado Alvaro, “L’età breve”

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