Harding Paul L’ultimo inverno , Scibona Salvatore La fine

Harding Paul

L’ultimo inverno

Mar, 26/04/2011 – 15:45 — michele lupo

L’ultimo inverno (Neri Pozza, la traduzione è di Luca Briasco), romanzo di Paul Harding, per un bel po’ non ha avuto vita facile. Ha collezionato decine di rifiuti editoriali. Poi è stato  scoperto da una piccola etichetta no profit, la Bellevue Literary Press. In seguito alla pubblicazione è nato un passaparola di quelli rari, fortunato fino al punto di far conoscere l’autore a qualcuno che lo ha proposto per il Premio Pulitzer. E Paul Harding, nel 2010 il premio Pulitzer lo ha vinto.

Il sapore di favola della storia non insinua il dubbio che il mondo sia migliore di quanto pensiamo, ma piuttosto conferma la regola che per lo più si va avanti a fatica e molti ce li perdiamo per strada. Perché si dà il caso che stiamo parlando di uno dei maggiori premi letterari del mondo; quanti sono quelli che avrebbero potuto meritarlo almeno quanto L’ultimo inverno?

Oziose considerazioni parafilosofiche a parte, resta che questo è un buon libro con un ottimo avvio, un andamento misurato e costante sul piano del ritmo e degli accadimenti narrativi e un punto di forza indubitabile: uno straordinario trattato, con esempi doviziosi, dell’arte della descrizione. Di ciò che convince meno, dirò alla fine.

Siamo nel Maine, a qualche centinaio di chilometri a nord di Boston. Washington Crosby sta per morire e soffre di allucinazioni. Steso sul letto, vede la sua stanza crollare, i vetri disintegrarsi, il soffitto creparsi, le suppellettili rotolare una sull’altra, i parenti precipitarsi fuori, gli animali del bosco invadere la casa, gli insetti occupare le pareti, il letto, il suo corpo. Raramente vediamo gli oggetti con una tale definitezza e precisione di dettagli, di forme, colori; raramente ne percepiamo in un romanzo una tale consistenza materiale fuori da una poetica banalmente oggettuale: qui la mappatura delle cose non si esaurisce in un campionario di materiali inerti cui contrapporre lo sguardo nitido ma in fondo inutile dell’uomo occidentale perso in una realtà straniante. Perché gli oggetti nel romanzo di Harding sono presenze vive, anche merci come vedremo, ma come piccole divinità che accompagnano la vita di molte persone semplici in una quotidiana lotta per la sopravvivenza.

Il padre di George, Howard, di mestiere venditore ambulante, ha trascorso la vita passando di villaggio in villaggio sopra un carro pieno zeppo di oggetti di tutti i tipi, appunto, “spazzole, olio di legno, polvere dentifricia, calze di nylon, creama da barba e rasoi, lacci per stivali, manici di scopa e spazzoloni”… E curiosi rimedi contro i malanni degli avventori… La bravura di Harding sta nel consegnare a questi oggetti un valore ben superiore a quello effettivo della merce di scambio; ce ne fa sentire il tramestio, e sa farne risaltare una sorta di magico potere evocativo. Oggetti che attraggono e respingono, dando colore alla vita.

Epperò quest’uomo fragile e silenzioso, falotico, non sembra giovarsene più di tanto. Ha dovuto lottare non solo per tenere in vita quattro figli sperando ogni giorno di vendere un po’ della sua mercanzia, ma soprattutto si è dovuto arrendere a un male beffardo e sinistro: l’epilessia. Un male che in famiglia è stato sottaciuto, quasi nascosto per la vergogna.

Il romanzo si scrive letteralmente nel travaso di precedenti omissioni che ora hanno bisogno di uscire dalla testa sbalestrata di George. Con un montaggio alternato ma fluido, osmotico più che cinematografico, si affollano nella mente ormai i ricordi del padre con quelli della sua vita, anch’essa legata a oggetti precisi(ssimi): gli orologi. La sua casa ne è piena, perché è con essi che George si è dato da vivere, con qualche patema d’animo in meno rispetto a Howard. Ricordarlo non è una passeggiata. Man mano che la storia si avvicina al suo cuore nascosto, dal ricordo del primo vecchio orologio acquistato assieme a un manuale per orologiai del settecento, passando attraverso episodi tremendi come quello in cui il bambino viene accidentalmente morso dal padre durante un attacco, fino al momento in cui la madre si appresta a far rinchiudere il marito, sondare quei dolori nascosti e quasi rimossi negli anni passati, gli fa male. Tutto questo mentre il tempo trascorre inclemente, la morte si avvicina, i meccanismi meravigliosi che fanno funzionare gli orologi, la maestria in virtù della quale aveva trasformato il lavoro di restauratore in un’arte, non possono salvarlo. Anzi. La fine arriva ineluttabile, il dolore si può solo attraversarlo, raccontarlo. In mezzo a una natura che sembra a sua volta “parlare” da ogni recesso. E può sembrar strano, ma l’eccesso di sapienza linguistica nuoce in parte al romanzo, così come certe venature romantiche: i pensieri che Harding mette nella testa dei suoi personaggi sono a volte troppo sofisticati per essere credibili, le parole eccessivamente eleganti. Quando è lo scrittore a “parlare” e non i personaggi, sono i secondi a perderci qualcosa. Quindi il romanzo stesso. Vale la pena però di essere letto, perché il piacere è ben maggiore della prima.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Paul Harding (1967), scrittore e musicista americano. Vive dalle parti di Boston.

Paul Harding, “L’ultimo inverno”, Neri Pozza, 2011. Traduzione di Luca Briasco. pagg. 185, 15,50 euro. Titolo originale: “Tinkers”.

http://www.lankelot.eu/letteratura/harding-paul-lultimo-inverno.html

Scibona Salvatore

La fine

Mer, 28/09/2011 – 15:34 — andrea brancolini

“La fine” – romanzo d’esordio dello scrittore italo-americano Salvatore Scibona, che ha impiegato 10 anni per portarlo a compimento, nominato al National Book Award (2008) statunitense, vincitore di vari altri premi letterari, per cui il suo autore è stato indicato come uno tra i 20 migliori scrittori under 40 degli U.S.A. dalla rivista New Yorker – cerca di narrare un luogo spazio-temporale di passaggio, poiché la fine del titolo si riferisce ad una mutazione, e se definisce lo fa per portare altrove, in un altro tempo. “La fine” è quel momento in cui il film finisce, le luci del cinema si accendono, e ti alzi e te ne vai; è il momento in cui hai letto l’ultimo punto del libro e lo richiudi, e vai; è il momento – ma individua anche lo spazio di quel momento – in cui torni. Torni a fare ciò che facevi prima, ma con una consapevolezza diversa. Da cui agisci in maniera diversa, o almeno dovresti. Ma non sempre succede così, perché non si vuole tornare, perché il cambiamento è insopportabile da accettare, perché la fine non si accetta, quando ci tocca, quando tocca qualcosa/qualcuno cui siamo legati. Perché della fine non vediamo ciò che porta ma ciò che sembra togliere, o questa seconda cosa ci appare come immensamente più grande della prima.

“La fine” è, come dice Romagnoli su Repubblica, un romanzo sull’accettazione e non è facile accettarne (appunto) la sfida. È un romanzo cerebrale, intellettuale, costruito, che non cela tutto questo, gioca a carte scoperte, per cui può piacere, oppure no, ma non fa giochetti con il lettore.

Una storia costruita ad incastri di più storie, con una stessa scena vista da più angolazioni, anche a distanza di pagine e pagine, poiché Scibona segue i suoi personaggi uno ad uno, dedicando loro, a rotazione, quell’attenzione che a suo avviso meritano. Certo ci sono protagonisti e comprimari, ma tutti condividono qualcosa, in modo diverso perché sono persone diverse. Persone che fanno i conti con la mancanza, con quanto questa ci permetta, anche, di identificarci come noi. È forte, in questi uomini, donne, ragazzi, la presenza dell’assenza. La mancanza. Di un figlio che è morto, di una madre che è andata via, di un padre che muore, di un marito…e così via.

Tutto si dipana dalla Festa dell’Assunzione, 15 agosto 1953, nel quartiere di Elephant Park, in Cleveland, Ohio. Elephant Park il quartiere italo-americano della città, in corso di trasformazione, con nuove presenze (quelle delle persone di colore) che si affacciano: “Continuava a sentire la parola moolinyans, e per un attimo volle bene a sé stesso, perché sapeva chi era, sapeva perché era legato ad alcune persone e non ad altre, sapeva che quella parola stava per <<melanzane>>, o <<negri>>, e lo sapeva per via del suo cognome, perché: Suo padre era stato chi era stato.” (pag. 344). Così si scopre questo quartiere, e chi lo viveva, come vedeva il paese in cui era, “Si rendeva conto che l’America era diventata grande perché aveva esteso il diritto di fare soldi perfino ai soldi stessi, ma questa nella sua mente era una pratica della più turpe corruzione, giacché da quali tasche il primo denaro tirava fuori il secondo denaro, se non da quelle dell’uomo che l’aveva guadagnato con il sudore della fronte?” (pag. 13-14). Da questo giorno di Festa si viene portati indietro nel tempo, per vedere come quelle persone siano arrivate proprio lì, in quel momento, punto di partenza e di fine. Giorno afoso d’agosto che si chiuderà in tempesta.

Un libro difficile, in cui la mano autoriale si sente, forse anche troppo, un libro che chiede a chi legge uno sforzo, ma a mio avviso è uno sforzo che vale la pena di fare, sarà che sono quel tipo di lettore cui piace avere un confronto con ciò che legge, mi piace sentire che chi scrive crede in ciò che ha scritto e si mette in gioco, rischiando per oltrepassare certi limiti, a volte riuscendoci, altre no. Così, questo libro non sempre riesce a mantenere lo stesso livello, ma in ogni parola se ne avverte la cura, l’attenzione, il portato intellettuale ed emotivo, e questo si trasmette a chi legge e mostra, a mio avviso, al lettore lo sguardo dell’autore, glielo dona, lo condivide. Forse proprio in questo voler condividere da parte di chi scrive con chi legge sta parte della sua forza e debolezza, nel senso che la voce autoriale è sempre molto presente, ma ne colgo più gli aspetti positivi che non quelli negativi. E, d’altronde, rimango un lettore a cui piace questo tipo di scrittura, per cui sono di parte.

Sono di parte anche perché, mentre il romanzo si avvia alla sua conclusione, uno dei personaggi di cui viene narrata la storia ricorda un sogno, un sogno ricorrente, ed in questo sogno ho visto (molto probabilmente aldilà delle intenzioni autoriali) un omaggio ad un racconto che amo, e che si intitola “Per sempre lassù”, di D. F. Wallace.

Riporto il brano di Scibona:

“..il sogno di un bambino che si compie. Una volta che cominciamo a cadere e dimenarci in aria pieni di paura, la nostra volontà ci appare chiara; voltiamo la faccia verso il basso; non diciamo <<cadere>>, ma <<tuffarsi>> ; osserviamo la terra che corre verso di noi a incontrare i nostri occhi. Eccola. Non è uno schianto. Siamo una linea che interseca un piano. Ci passiamo attraverso come proiettili.” (pag. 360)

Tutto qui. E ciao.

Edizione esaminata e brevi note

Salvatore Scibona, La fine, 66thand2nd, Roma, 2011

Salvatore Scibona, nato nel 1975 in una famiglia di origine siciliana a Cleveland, si è laureato all’Università dell’Iowa in scrittura creativa e attualmente lavora presso il Fine Arts Work Center di Provincetown. Dopo gli studi, grazie a una borsa Fulbright, l’autore è venuto in Italia per conoscere il paese dei suoi antenati, imparare l’italiano e fare ricerche per il suo romanzo. L’Italia e la Sicilia sono state sempre presenti nell’immaginario dello scrittore. Nella sua opera d’esordio, Scibona parte dunque da ciò che conosce, la comunità italoamericana, attingendo al patrimonio di storie, persone, luoghi di cui ha tanto sentito parlare in famiglia.
La fine, è stato finalista nel 2008 del National Book Award e vincitore nel 2009 del Young Lions Fiction Award e del Whiting Writers’ Award. Nel giugno del 2010 il «New Yorker» ha incluso Salvatore Scibona nella lista dei 20 under 40.
Dopo il successo dell’edizione americana, La fine è stato pubblicato in Inghilterra e Francia. Sta per uscire in Germania.

Traduzione di Beniamino Ambrosi

http://www.lankelot.eu/letteratura/scibona-salvatore-la-fine.html

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