Grandi cose canterò, cose mai indagate dall’intelletto
degli avi e rimaste nell’ombra. Giusto è spaziare fra gli astri
sublimi, giusto sollevarsi da terra, da questi luoghi inerti,
e portati dalle nubi, posarsi sul dorso forte di Atlante,
guardando di lassù gli uomini che in lontananza, senza ragione,
vagano inquieti, intimoriti dalla morte,
e cercare di esortarli, spiegando le regole del destino.
O stirpe sbigottita dal terrore di una morte gelida,
perché temete lo Stige, le tenebre, nomi privi di senso,
nutrimento di poeti, pericoli di un mondo immaginario?
I corpi, dissolti dalle fiamme del rogo o dai guasti del tempo,
non sono più in grado di soffrire, questo è certo.
Le anime invece non muoiono e sempre, lasciata l’antica sede
e accolte in un nuovo corpo, vi si insediano e continuano a vivere.
Io stesso, ricordo, al tempo della guerra di Troia
ero il figlio di Panto, l’Euforbo che un giorno fu trafitto
in pieno petto dall’asta violenta del minore degli Atridi:
nel tempio di Giunone ad Argo, dove regna Abante, tempo fa
ho riconosciuto lo scudo che allora armava il mio braccio.
Tutto si evolve, nulla si distrugge. Lo spirito vaga
dall’uno all’altro e viceversa, impossessandosi del corpo
che capita, e dagli animali passa in corpi umani,
da noi negli animali, senza mai deperire nel tempo.
Come la cera duttile si plasma in nuovi aspetti,
non rimanendo qual era e senza conservare la stessa forma,
ma sempre cera è, così, vi dico, l’anima
è sempre la stessa, ma trasmigra in varie figure.
Dunque, perché la pietà non sia vinta dall’ingordigia del ventre,
vi ammonisco, evitate d’esiliare con strage nefanda l’anima
di chi può esservi parente, e che di sangue si alimenti il sangue.
E poiché ormai mi sono inoltrato su questo vasto mare e al vento
ho spiegato le vele: in tutto il mondo non v’è nulla che persista.
Tutto scorre, ogni apparizione ha forma effimera.
Lo stesso tempo fugge con moto incessante,
non altrimenti del fiume: come il fiume infatti neppure l’ora
può fermarsi nella fuga, ma come dall’onda è sospinta l’onda
e quella che giunge è incalzata e incalza l’onda precedente,
così svanisce e nello stesso istante ricompare il tempo,
rinnovandosi di continuo: ciò che è stato si dissolve,
ciò che non esisteva avviene, e ogni momento si ricrea.
Tu vedi come al termine le notti tendano verso la luce
e come lo splendore del sole succeda al buio della notte.
Anche il colore del cielo non è il medesimo, quando ogni cosa
giace stanca nel sonno e quando sorge splendente Lucifero
sul suo bianco destriero; ed altro è ancora quando, all’alba,
l’Aurora tinge il mondo prima d’affidarlo al Sole.
E anche il disco di questo dio, quando al mattino sorge
rosseggia e rosseggia quando tramonta all’orizzonte;
ma al suo culmine è candido, perché lì più pura è la qualità
dell’aria e lontano può sottrarsi alle esalazioni della terra.
Né mai uguale a sé stessa può essere di notte
la luna: sempre più piccola è oggi di domani
se è in fase crescente, più grande se è in quella calante.
E poi non vedi che l’anno si snoda in quattro stagioni diverse,
come se cercasse d’imitare la nostra vita?
Tenero, come un bambino che succhi ancora il latte,
è l’anno a primavera: allora l’erba fresca e ancora elastica
è turgida, morbida, e incanta di speranze i contadini;
allora tutto fiorisce e del colore dei fiori sorride
la campagna in sboccio, ma nelle fronde ancora non c’è forza.
Dopo primavera, l’anno invigorito si trasforma in estate
crescendo in baldo giovane: non c’è infatti stagione più robusta,
stagione più feconda o ardente dell’estate.
E viene l’autunno che, perduto il fervore della giovinezza,
è maturo e mite, giusto in equilibrio fra un giovane
e un vecchio, con qualche capello bianco sparso sulle tempie.
Infine con passo incerto, senile e squallido, giunge l’inverno,
spoglio dei suoi capelli o, se qualcuno gliene rimane, canuto.
Anche il nostro corpo si modifica senza sosta,
continuamente, e domani più non saremo ciò che siamo stati
o che siamo. Passato è il tempo in cui, come semplice seme,
germe di nuova vita, alloggiavamo nel grembo materno.
La natura intervenne con mani sapienti: non permise
che il corpo racchiuso nel ventre teso della madre
soffocasse e da quella dimora lo fece uscire all’aria aperta.
Venuto alla luce, il bambino giace senza forze;
poi, come un animale, trascina il suo corpo a quattro zampe;
e a poco a poco, barcollando sulle gambe ancora un po’ malferme,
riesce a drizzarsi, aiutando i muscoli con qualche sostegno.
Diventato agile e vigoroso, trascorre la giovinezza,
e quindi, passati anche gli anni della mezza età,
si avvia al tramonto lungo il cammino in declino della vecchiaia.
Questa corrode e distrugge il vigore dell’età
precedente: e Milone invecchiato piange al vedere flaccide
e cadenti le proprie braccia, che un tempo per la solidità
della massa muscolare assomigliavano a quelle d’Ercole.
E piange Elena, quando nello specchio scorge i segni del tempo,
chiedendosi come abbiano potuto rapirla due volte.
O tempo divoratore e tu, vecchiaia invidiosa,
tutto distruggete: dopo averla intaccata coi morsi degli anni,
a poco a poco ogni cosa consumate di morte lenta.
Neppure quelli che chiamiamo elementi rimangono immutati:
prestatemi attenzione, vi insegnerò per quali vicende passino.
Di quattro sostanze generatrici consta l’universo eterno:
di queste, due sono pesanti, terra ed acqua,
e per il loro peso sono trascinate in basso;
le altre due sono prive di peso e, se nulla le tiene premute,
tendono ad elevarsi, l’aria e, più puro dell’aria, il fuoco.
Questi elementi sono separati nello spazio, e tuttavia
da loro nasce ogni cosa e in loro ritorna. La terra fondendosi
si liquefa in acqua, il liquido al tepore del vento
evapora in aria, e l’aria a sua volta, privata del peso,
balza verso l’alto e, rarefatta com’è, sprigiona fiamme.
Poi il percorso s’inverte e il processo si ripete in senso opposto:
il fuoco condensandosi si muta nell’aria che è più compatta,
questa in acqua, e l’acqua coagulandosi forma la terra.
Nulla conserva il proprio aspetto e la natura,
che tutto rinnova, forgia da una struttura altre strutture;
e nulla, credetemi, in tutto l’universo si dissolve,
ma cambia assumendo nuovo aspetto; e noi nascere chiamiamo
l’avvio ad essere ciò che non si era e morire
cessare d’esserlo. E malgrado questo si trasformi in quello
e quello in questo, l’insieme rimane sempre uguale.
Ed io propendo a credere che nulla conservi lo stesso aspetto
a lungo. E come dall’età dell’oro a quella del ferro è passato
il tempo, così dei luoghi è mutato più volte il destino.
Io ho visto farsi mare ciò che un tempo era terraferma
ho visto terre nascere dal mare, ho visto che lontano
dai flutti vengono alla luce conchiglie marine
e che si trovano antiche àncore in cima ai monti.
Cascate d’acqua hanno trasformato pianure in valli,
alluvioni hanno trascinato monti al mare,
e luoghi prima paludosi sono deserti di sabbia,
altri un tempo riarsi sono bagnati dal ristagno di paludi.
Qui la natura ha fatto scaturire nuove fonti,
là le ha chiuse, e quanti terremoti scotendo il cuore della terra
han fatto sgorgare fiumi, altrettanti li hanno interrati seccandoli.
Così il Lico, inghiottito da una voragine del terreno,
rispunta più lontano, rinascendo da un’altra sorgente;
così il grande Erasino che, risucchiato dal suolo,
scorre impetuoso sottoterra, riappare poi nella piana d’Argo.
E in Misia il Caìco, pentitosi, sembra, della sua fonte
e delle sponde che aveva, oggi segue diverso percorso.
E l’Amenano, che trascina sabbie di Sicilia,
a volte scorre, a volte, inaridita la sorgente, si prosciuga.
L’Anigro, un tempo potabile, oggi riversa un’acqua
che farai bene a non toccare, da quando i Centauri
(se non si deve negare fede ai poeti) in quel fiume lavarono
le ferite a loro inferte dall’arco di Ercole, armato di clava.
E ancora: l’Ípani, che nasce dai monti di Scizia,
ora dal sale amaro non ha forse guaste le sue acque dolci?
Antissa, Faro e Tiro in Fenicia erano un tempo lambite
tutte intorno dai flutti: di queste nessuna è oggi un’isola.
Gli abitanti di Leucade vivevano sul continente,
ora son circondati dal mare. Anche Zancle era unita all’Italia,
si dice, finché il mare non ne invase i margini
e, insinuandosi coi flutti, non ne isolò la terra.
Se tu cercassi le città dell’Acaia Èlice e Buri,
le troveresti sott’acqua: ancor oggi i marinai
sogliono mostrare le città diroccate e le mura sommerse.
Vicino a Trezene, città di Pitteo, si leva altissimo un colle
senza neppure un albero, un tempo pianura di campagna
e ora appunto colle: questo perché (e incute terrore raccontarlo)
la violenza selvaggia dei venti, chiusa in cieche caverne,
volendo erompere da qualche parte, dopo aver lottato invano
per godere di maggior libertà nel cielo, visto che non c’era
in tutti quei sotterranei una fessura per dar sfogo alle raffiche,
tendendola gonfiò la terra, come il fiato della bocca
gonfia una vescica o un sacco fatto con pelle
di caprone: gonfiato è rimasto questo luogo e ha l’aspetto
di un’alta collina consolidatasi col passare del tempo.
Benché moltissimi esempi visti o sentiti mi vengano in mente,
ne citerò solo qualcuno. Che forse anche l’acqua
non mostra e assume nuovi aspetti? A mezzogiorno, Ammone,
la tua corrente è gelida, all’alba e al tramonto invece si riscalda.
Gli Atamani si racconta che accendano la legna fradicia
d’acqua, quando il disco della luna è ridotto al minimo.
I Cìconi hanno un fiume che, attinto per bere, rende i visceri
di sasso, e riveste di marmo le cose con cui viene a contatto.
Il Crati e il Sibari, che delimita i nostri campi,
rendono i capelli simili all’ambra e all’oro.
E, cosa ancor più stupefacente, vi sono acque in grado
di trasformare non soltanto i corpi, ma persino gli animi.
Chi non ha udito parlare della sinistra fonte di Salmàcide
e dei laghi d’Etiopia? Se qualcuno vi si abbevera,
o impazzisce o cade in un sonno incredibilmente profondo.
“πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός”
“tutto scorre come un fiume“