La Ricciarda fu composta da Foscolo durante il soggiorno fiorentino, tra il 1812 e il giugno del 1813. Fu rappresentata per la prima volta dalla compagnia di Salvatore Fabbrichesi al Teatro del Corso di Bologna, il 17 settembre 1813, alla presenza dell’autore, che rimase insoddisfatto della rappresentazione e soprattutto dell’interpretazione degli attori. Il testo fu poi stampato solo anni dopo, a Londra, nel 1820, presso l’editore John Murray, riscuotendo un discreto successo.
Dopo le tre tragedie di argomento mitologico, Foscolo scelse per la sua ultima tragedia un argomento medievale e un’ambientazione storica suggerita molto probabilmente dall’interesse per Machiavelli e per gli storiografi toscani del Cinquecento, letti nei primi tempi del soggiorno fiorentino.
L’azione si svolge nel corso di un’unica giornata e in un unico luogo, nel rispetto delle unità classiciste, e racconta l’amore contrastato di Ricciarda e Guido, figli rispettivamente di Guelfo, tiranno di Salerno, e di Averardo, fratellastro di Guelfo, defraudato del regno e cacciato in esilio. Averardo ha posto l’assedio a Salerno, ma vuole portare in salvo il figlio Guido che, per rimanere vicino a Ricciarda, si è nascosto nei sotterranei del palazzo di Guelfo, dove si trovano i sepolcri della famiglia. L’azione procede a ritmo serrato, tra colpi di scena, equivoci e riconoscimenti, con i due giovani divisi tra l’amore e gli affetti familiari, e si conclude con l’uccisione di Ricciarda da parte del padre che si trafigge subito dopo. La Ricciarda è una tragedia di grandi contrasti che ripropone alcuni dei motivi consueti negli scritti di Foscolo: il nesso amore-morte, il rapporto padre e figli, il culto dei sepolcri. Non mancano anche qui contenuti politici nella condanna morale di Guelfo, tiranno di Salerno e rivendicazioni, seppur velate dalla trasposizione storica, alla libertà italiana.
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RICCIARDA
E’ spesso, e con pietà il rammenta.
Quanto amar può chi sè medesmo ha in odio,
M’ama; e ciò tempra i suoi furori. A tutti
Svela sue colpe; ma del cor le angosce,
Fuor che a me sola, a tutti asconde. Io sola,
Quand’anche i sgherri suoi trovano il sonno.
Lo intendo andar per la sua vota casa;
E paventa esser solo: e me sua guida
Appella; e dopo un tacer lungo, invoca
Gli avi e la morte e la consorte e i figli.
– Iddio, di cui mai non favella, Iddio,
Non che conforto come a noi, ma speme
Più non gli è di perdono. Oh di che preghi,
Sovra l’altar delle più arcane stanze,
Di che minacce insieme, e di che pianti
Orribilmente insulta il cielo, e trema -,
E geme, e freme… ahi sciagurato padre!
Ed oggi che a battaglia alto vi sfida,
Io so che disperato a pugnar vola
Sol per fuggire i suoi terror sotterra.
Vedi se pianger nol degg’io? Diffida
Di me, nol niego; ma di tutti, e molto
Di sè medesmo ei trema: ed io…. son rea
No, rea non mi tenni io mai
D’amarti:e innanzi che a te invano il padre
Mi promettesse, il sai, gran tempo innanzi,
Da che prima venisti, ed io ti vidi
Giovenilmente generoso e altero,
T’amai, Guido, t’amai; tacita ognora
Arsi quanto il mio core arder potea;
Piansi per te, nè men dolea; t’amai
Quanto amar sa mesta donzella e sola,
Che sol trova in amore ogni conforto;
Ma non mi tenni io rea. Poi quando infausta
Certezza ebb’io d’esser da te divisa,
Più ognor t’amai. Te sempre amo, e ti sono
D’alto innocente eterno amore avvinta;
Se rea…. – e per farmi del tuo core indegna
Forse.