Metello Vasco Pratolini : CAPITOLO 2. 7 . 16

Il pane del povero è duro, e non è giusto dire che dove cè poca roba c’è poco pensiero. Al contrario. Stare a questo mondo è una fatica, soprattutto saperci stare.

 

CAPITOLO 2.

Non gli fecero festa, i suoi colleghi. «Da dove sei uscito? Perché hai accettato un centesimo di meno?» gli chiesero. E siccome lui non rispondeva, anche perché aveva il fiato grosso per via del caldo e della fatica, gli si velava lo sguardo, uno di costoro, un giovane dai grossi baffi e una verruca sulla guancia, che il padrone aveva chiamato Linari, trovò il modo di urtarlo e di farlo cadere lungo disteso. Il padrone gli voltava le spalle, e Metello poté rialzare la cassa e raccogliere i limoni che si erano sparpagliati sul marciapiede.
«Ce ne ho di bisogno» borbottò mentre ammucchiava le gabbie, poco dopo, e costui gli era nuovamente vicino.
Un altro, un uomo dai capelli bianchi e il viso pieno di rughe, gli ossi gli bucavano la camiciola, disse: «Se accetti quattro centesimi tu, a me che secondo loro “son per l’oche” e non reggo più di mezzo quintale, cosa dovrebbero dare?».
«Si meriterebbe ma un ceffone» disse Linari passando. Aveva solino e cravatta, portava in spalla una cassa di mezzo quintale come fosse vuota.
«Ma lasciatelo campare» intervenne il terzo.
Era un uomo di mezza età, coi baffi anche lui, e tutto calvo, col cranio bruciato dal sole, e gli occhi che gli ridevano. Sembrava una persona di riguardo, piuttosto che uno scaricatore, malgrado sudasse come gli altri e fosse trasandato. «Non lo vedete com’è giovanino?».
«Per questo deve imparare» disse quello dalla verruca. «Hanno ancora la bocca di latte e ci vengono a togliere il pane».
«Si vede che non gli manca l’appetito» disse il calvo.
Metello li ascoltava, cercando di non guardarli in viso.
«Ce ne ho di bisogno» ripete.
«Si è capito» disse il vecchio. «Non lo farai spero per una poltrona al Pagliano».
Suonò mezzogiorno, e gli fecero la paga; la giornata per loro era finita. Metello si trovò in mano tre soldi: un diecione e metà centesimi. Di fronte al Mercato c’era un’osteria la cui presenza, scoperta fin dal suo arrivo, lo aveva aiutato a mantenersi in piedi quelle cinque ore, e a sostenere la fatica: un piatto di pasta dipinto sull’insegna, da un lato, in mezzo una scritta, e dall’altro lato un fiasco di vino.
I suoi compagni di lavoro, entrarono ch’egli mangiava la pastasciutta aiutandosi col pane; si sedettero al suo tavolo; chiesero, per prima cosa, il vino: lo versarono anche a lui che non l’aveva ordinato. Sembravano meno astiosi, ora; il giovane dalla verruca gli riempì il bicchiere.
«Quanti anni hai?» gli chiese il calvo.
Metello stava col viso sul piatto, e masticava.
«Dì la verità, sei proprio di Firenze?».
«Non sappiamo nemmeno come ti chiami».
«Avanti» insisté il calvo. «Io mi chiamo Betto».
«Ossia, il Maestro. Anzi, il Troncia» disse Linari.
«Per caso, stamani, non eri appena uscito di carbonaja, quando sei arrivato?».
Metello non conosceva quella parola, carbonaja, usata, era evidente, per dir tutt’altra cosa; né sapeva che dietro il Mercato c’era la prigione, ma capì che se non entrava nelle grazie di costoro, i Carabinieri l’avrebbero riportato alla Fattoria; e nello stesso tempo, fu come se intuisse che solo facendosi amici cotesti uomini egli poteva conquistare per sempre la libertà incontro alla quale aveva marciato una notte intera. Lo sguardo era sempre più velato, via via che mangiava gli sembrava di perdere le forze invece di riacquistarle. Bevve d’un fiato il suo bicchiere di vino, e disse – era pur sempre, anche se cascante dal sonno, un ragazzo cresciuto contadino:
«Ce ne ho di bisogno. Sono solo al mondo. Mio padre è morto in Arno».
«Quando?» gli chiese qualcuno, forse il Maestro, lui nemmeno più li distingueva l’uno dall’altro. «Una quindicina d’anni fa?».
Metello annuì, e spostato il piatto, appoggiò la fronte sul braccio. Sentì ancora bestemmiare e vibrare un pugno sul tavolino, che tremò.
«Ma allora è vero».
Il Maestro disse: «E’ il suo ritratto».
«Il figliolo di Caco».
«32 l’orfano, 26 il renaiolo»: questo era il vecchio che parlava, Pestelli.
Metello già dormiva, il sonno greve di un ragazzo di quindici anni che aveva camminato la notte intera, faticato tutta una mattina, a digiuno, vinto ora dalla stanchezza, dal cibo rapidamente ingojato, e dalle emozioni. Per quanto lo scuotessero, non riuscirono a svegliarlo. Betto dové prenderselo sulle spalle e trasportarlo così, attraverso Santa Croce, Ponte alle Grazie, Giardino Serristori, fino nella sua camera di San Niccolò, sottostante la camera dove Metello era nato.

Betto lo ospitò quella notte e finché poté. Era stato amico di suo padre, viveva solo, e gli piaceva il vino. La sera, ciò che gli restava, lo beveva. Allora, gli occhi celesti spiritati, usciva in strada e provocava chiunque si prestasse al suo scherno; se era la ronda che incontrava, lui digià ammonito, le si avventava contro. Sortiva di prigione ogni volta, «deciso a ricominciare, ma sul serio». «C’è scritto» diceva «in un opuscolo di Cafiero…». Sapeva parlare, aveva studiato; un suo fratello era funzionario al Genio Civile; suo padre, avvocato, era stato con Giuseppe Montanelli a Curtatone. «Quello che faccio quando bevo» egli diceva «è contro tutte le mie idee»; ma non resisteva a lungo: si ubriacava e usciva a gridare per le strade:
«Ladri! Umberto boja! Metteremo le bombe a Pitti! A San Pietro, al Quirinale! La faremo noi la Comune! Viva Cafiero!».
Lo raccoglievano, se non incontrava i poliziotti, tra le aiuole di Giardino Serristori, vicino casa, preda delle convulsioni: sempre lì andava, come una bestia che istintivamente cercasse la tana dove nascondersi e dove riparare.
«Non credere che tutti gli anarchici si comportino come mi comporto io» diceva a Metello, quand’era in sé. «I veri anarchici non sono né come me né come tuo padre, buonuomo ma che mi assomigliava in queste cose, non lo imitare. L’anarchia è una grande idea. E’ la libertà delle libertà, non soltanto la libertà di bere. Non sono gli uomini come me che la possono insudiciare. C’è Cafiero, c’è Kropotkin, c’è stato Bakunin, c’è stato Godwin, c’è stato Stirner, questi due un po’ meno. C’è stato Proudhon, tieniti a mente questi nomi, li devi studiare. C’è stato, qui in San Niccolò, Remigio Benvenuti, faceva il calzolajo e stava accanto alla Porta. Io e tuo padre non gli si legava le scarpe».
«E mia madre?» chiedeva Metello.
«Tua madre» diceva Betto, gli si addolcivano gli occhi un istante, questo al ragazzo non sfuggiva, «se fosse stata una donna di chiesa, l’avrebbero messa sull’altare. Invece era atea, le piaceva la libertà, le piaceva la vita, qualunque fosse. Era una bella donna, alta, come stai venendo su te che per il resto sei il ritratto di tuo padre». E taceva. Una delle prime sere, gli aveva detto: «Devi sapere che lei era anche la più forte, non tuo padre. Quando tu nascesti e lei morì, io ero in prigione. Ci rimasi un anno quella volta. E un altro ne feci a Lipari. Tornai che anche tuo padre non c’era più da un pezzo. Te, non sapevo che esistevi».
Della famiglia da cui proveniva, dei suoi genitori e di suo fratello ancora vivo, non parlava mai: si diceva che l’avessero diseredato. E se Metello gli chiedeva: «Perché lavori in piazza, dal momento che hai un’istruzione?», Betto rispondeva: «Lavoro in piazza perché è il più bel lavoro. Scarico, a giornata, quando mi piace, non ho padroni. E anche perché in piazza c’è la sola gente con cui vado d’accordo e con cui merita parlare».
Egli fu per Metello il padre che Metello non aveva conosciuto, ma che poteva immaginarsi uguale, certo meno istruito di Betto, non meno generoso, non meno amico. Gli proibì di tornare in Mercato e di scaricare. «E il più bel lavoro del mondo, ma non fa per te. Devi darti un mestiere». Andò a Rincine per parlare con quella gente della Fattoria, casomai fosse ricorsa ai Carabinieri, e per prendergli almeno l’altra camicia e la giacchetta che mamma Isolina gli aveva lasciato. Tornò e disse: «Si erano già messi l’animo in pace e senza essere stati dai Carabinieri. La vecchia, la nonna, ti manda a dire: «Dio t’aiuti». Dice che non avevi altra roba che quella che indossavi quando sei scappato».
Ma se non in Mercato, lo stesso bisognava lavorare. «Scegliti un mestiere» gli disse Betto. «Ma sceglitelo da te, se ce n’è uno che ti piace. Il cappio al collo mettitelo con le tue mani. Cosa sai fare?». Niente egli sapeva fare, se non zappare la terra, badare alle pecore e portare dei pesi. «Che mestiere ti garberebbe, sentiamo?». Metello lo guardò e gli rispose – era soltanto un ricordo della sua fanciullezza contadina che la presenza delle impalancate nel centro della città e sui lungarni, gli aveva ravvivato:
«Il muratore».
Non gli fu difficile occuparsi; bastava si contentasse della paga più bassa, e dimostrasse di reggere alla fatica: entrò come manovale sotto l’Impresa Badolati che aveva in appalto la costruzione di un’ala dei nuovi portici e dell’arco trionfale in Piazza Vittorio. Lavorava dieci ore al giorno e guadagnava sette centesimi l’ora, più di uno scaricatore. E la fatica non era maggiore e la sorveglianza del caporale non diversa da quella del Guardia. Ma egli era giovane, felice di vivere, ormai e per sempre cittadino. Dall’alto dei ponti, dove saliva con i cofani di calcina sulla spalla, non era più la luna ma la Cupola di S. Maria del Fiore che gli sembrava di toccare. A sera, si appartava con Betto al tavolo dell’osteria dove avrebbero cenato, o seduti cavalcioni, l’uno di fronte all’altro, sulla spalletta dell’Amo, su una panchina di Giardino Serristori, mai in casa, sarebbero occorsi i denari per la candela, e Betto gli insegnava a leggere e a scrivere: presto Metello seppe fare la sua firma, combinare una lettera da spedire in Belgio, e ripetere a memoria lunghi brani del libro di Francesco Pezzi sui fatti del 1879, che gli era servito da sillabario. E a notte, se Betto non era rientrato, quando la Chiesa davanti casa batteva le due, Metello si vestiva, andava al Giardino Serristori: raccoglieva il suo amico folgorato dall’alcool e spesso contuso per via delle convulsioni in cui si era dibattuto: ora era lui che lo portava in spalla fino a casa.
Ma una notte, sul finire del settembre 1890, Metello non lo trovò bocconi tra le aiuole del Giardino, né altrove; nemmeno le guardie lo avevano preso, nessuno. Betto scomparve così, e per sempre.

Dall’indomani della scomparsa di Betto, Metello diventò vero italiano e vero uomo: prima ancora di essere elencato nei registri del Comune, si trovò registrato negli elenchi della Polizia. Egli era stato contadino, viveva da qualche tempo in città, in un Quartiere di operaj e di artigiani, era quindi in grado di capire, e soccorreva la sua giovane età un’ancestrale esperienza, il pericolo che correva presentandosi sulla porta del Commissariato a chiedere notizie del suo amico. Ma nessuno si era mosso per aiutare Betto, né al Mercato né tra la gente del Quartiere. Dicevano:
«Ubriaco com’era, “tutto in cesta” secondo il solito, sarà cascato in Arno. E se non è affogato, è alle Murate, non sarebbe la prima volta. Presto o tardi ritorna».
«In ogni caso non lascia a piangere nessuno».
Nemmeno Metello aveva pianto: mai, anche se si faceva male, o ne buscava picchiandosi per delle rivalità tra pastori, anche sotto le frustate del Guardia, le lacrime non gli uscivano: sentiva soltanto, sempre, un gran rancore, di cui presto si dimenticava, come qualcosa gli si fosse conficcato in petto e un respiro dopo l’altro se ne liberasse. Ma ora, questo groppo durava. Betto lo aveva ospitato e nutrito, gli aveva insegnato a leggere e scrivere, era suo amico. Metello gli voleva bene; e diversamente da come diceva di volere bene ai Tinaj, a mamma Isolina e Olindo in specie: nel voler bene ad essi, non aveva mai sofferto, nemmeno quando li aveva visti partire; ora invece, pensando a Betto, pativa. Se si trovava in carcere, gli avrebbe portato da mangiare. Teneva il berretto in mano, aveva le scarpe pulite, la giacca abbottonata e i capelli ravviati quando, non aveva ancora oltrepassato la soglia, gli venne incontro il piantone.
«Sono un amico del (***) Betto».
«Di chi?».
«Del Maestro».
«Vieni, passa».
Lo tennero due giorni in carbonaia; gli usarono il riguardo, siccome era minorenne e incensurato, di non mandarlo alle Murate, mentre erano in corso gli accertamenti. Ma già durante il primo interrogatorio, dopo avergli fatto ripetere la propria storia e in che rapporti fosse e perché cercasse Betto, il Delegato gli disse:
«Il Maestro non è alle Murate e non è da nessuna parte. Se è affogato come dicono, lo ripescheranno. E se non lo ripescano, lo ripeschiamo noi. Tu, dimènticatelo. Chiaro?».
Perché? Sembrava che il Delegato ne sapesse molto di più, e non glielo volesse dire.
«Piuttosto, parliamo un altro poco di te. Chi era tuo padre, lo sai?».
«Faceva il renajolo, e anche lui è affogato. Lui davvero».
«Ecco» disse il Delegato. «Ci siamo capiti».
Capiti? Egli aveva detto una verità sotto la quale non c’era nessun sottinteso.
«Tu sei giovane, e ancora in tempo sei. La strada di tuo padre, del Maestro e di gente come loro, sai dove ti porta, oltre che in Arno? Qui, ti porta, e poi alle Murate e poi a Portolongone. Alza il viso» gli ordinò. «Rendo l’idea?».
Era un uomo più che bruno, nero, aveva i capelli divisi a metà, lustri e ondulati. Gli parlava con un tono in apparenza paterno, ma con l’intenzione di mettergli paura; e proprio per questo, siccome si capiva che cercava di impaurirlo, Metello non aveva paura. Nondimeno, era meglio se non lo guardava: gli occhi, che aveva ugualmente neri e sembrava vibrassero mentre lo fissavano, al contrario delle sue parole, lo intimorivano. Sopra la sua testa, c’erano due ritratti che Metello aveva imparato a conoscere: re Vittorio, che era morto, e re Umberto, che non aveva il pizzo ma aveva i baffi più lunghi, i capelli ritti, e di lui in San Niccolò, si diceva: «Volta la carta e pèggiora». Tra i due ritratti, sulla parete tutta scura, con grande chiazze d’umido, c’era il segno di un crocefisso, come se l’avessero tolto o come se fosse stato dipinto di giallo, senza il Cristo, sul muro, e piano piano si fosse stinto. Il Delegato aveva seguìto lo sguardo di Metello, puntò l’indice all’indietro, e gli chiese:
«Gli vuoi bene?».
Metello annuì.
«Saresti disposto al sacrificio della vita per difendere il suo Regno?».
Erano le stesse domande che gli rivolgeva il priore di Rincine, facendogli baciare i santini. Ripeté di sì.
«Proprio?».
Poi con Olindo ne ridevano, siccome babbo Eugenio, appena il prete voltava le spalle, diceva: «Quelli si son messi la sottana e hanno risolto il problema, beati loro!». Ma mamma Isolina voleva si rispondesse: «Sia fatta la Sua volontà». Trattenne un sorriso, e rispose:
«Sia fatta la Sua volontà».
«Tu a Portolongone finisci» disse il Delegato.
Chiamò il piantone e lo fece condurre in guardina.

Era una stanza quadra, alta di soffitto, e con l’inferriata che dava su un cortile, a un pianterreno. C’era una ragazza che cantava da mattina a sera:

“La donna è mobile,
qual piuma al vento,
muta d’accento…”

e non la si poteva mai vedere siccome la sua finestra era d’angolo e sovrastava la rimessa. Questa, con l’ingresso, era evidente, dall’altra parte dell’isolato, appestava il cortile di sterco e di orina di cavallo: era autunno e tuttavia, in certe ore, per grande che fosse, dentro il camerone non si respirava. Ora Metello sapeva di persona cos’era una carbonaja: non ancora il carcere, ma digià gli bastava. Gli fecero compagnia, durante le quarantotto ore che vi rimase, dapprima due borseggiatori e un magnaccia che aveva ferito la sua amante e non era valso a nulla che costei giurasse d’esser caduta. Gli insegnarono a fumare il toscano, e come si trattano le donne e si estrae un orologio dal panciotto, occorreva andare a scuola.
«Quando esci» gli disse il più anziano dei borseggiatori: un bruno sui trent’anni, alto e magro che sbagliava l’occhio a momenti: «vai da Ilarione in Malborghetto. Digli che ti ho mandato io. Digli:
‘mi manda il Lunghino’. In poche lezioni diventi professore».
Gli parlarono dei mille modi di far l’amore; e i due borseggiatori gli dimostrarono come ci si può trastullare a vicenda. Erano arrivati uno a distanza di poche ore dall’altro, e speravano, dissero, di venire destinati nella stessa cella, alle Murate. Mentre così si divertivano, il Lunghino diceva all’altro, un biondo che sembrava più giovane di età, malgrado i baffi e il riporto sulla fronte: «Di’ la verità: ti sei fatta pigliare perché sapevi che mi avevano pizzicato». Quello che si vantava di aver ferito la propria donna, disgustato dallo spettacolo intervenne, e si azzuffarono. Entrò il piantone e li trovò che giocavano alla morra. Quando imbrunì vennero a prenderli per portarli alle Murate, così per la prima volta nella sua vita Metello vide più uomini legati a una stessa catena. Sull’alba ebbe due nuovi amici che gli tennero compagnia per tutta la seconda giornata, la ragazza sempre cantava.
«E’ Michela, la conosco» disse uno dei due. «Abita dall’altra parte della strada». Era anche lui un ladruncolo, colto in fragrante, ammise, sull’omnibus che da Porta alla Croce conduceva a Piazza della Signoria. «Povera figliola, è più in galera di noi. Sta sempre a letto, non fa che pettinarsi e cantare. E’ inferma, non può camminare. Le gambe è come non le avesse, le ha come le aveva a cinque o sei anni. Le tiene dentro delle calze nere di lana. Ma se non gliele guardi, il resto è uno splendore. Di giorno non vuole che si salga, nemmeno per cento lire. E’ tutta bionda, ha due occhi, e un petto! Comincia a lavorare la sera. C’è sempre la fila».
L’altro, Metello non l’avrebbe più scordato. Si chiamava Sante Chellini ed era nato, fu lui a dirlo siccome venne il discorso: «nemmeno a farlo apposta, il giorno che cacciarono il Granduca». Faceva il muratore, era un collega, lavorava sui Lungarni, ed era stato arrestato perché aveva preso a pugni, e segnato, il caporale.
«Me le ha strappate dalle mani» disse. «Bevevo al fiasco dell’acqua, e mi volle sentire il fiato. Diceva che avevo nascosto l’altro fiasco del vino, e che ero ubriaco sul lavoro. Ce l’aveva con me da un pezzo, non perché non rendo, lo sa quanto me se rendo e come conosco il mio mestiere, ma perché secondo lui metto su gli altri, per via della paga». Ora si pentiva del proprio gesto, pensando a sua madre che restava senza aiuto, e alla sua ragazza che faceva la sarta ed era di una famiglia perbene: già i suoi parenti vedevano di malocchio che si fossero fidanzati. «Gli chiederò scusa in Tribunale, a quel farabutto» aggiunse. «Farò di tutto per uscire prima possibile. Ma ormai, è andata. Gli ci voleva una lezione. Mi era salito il sangue alla testa. Se non me lo levano dalle mani, lo disfò».
E da lui, per la prima volta, Metello sentì parlare di socialismo, di uguaglianza, di lavoro che andava pagato «secondo il sudore». Cose che nemmeno Betto gli aveva saputo dire, e che «gli stavano più a mano». La ragazza sempre cantava, era di nuovo sera, il ladruncolo era andato e tornato dall’interrogatorio, il Chellini diceva:
«Ora che si è fondato questo nuovo Partito, gli resterà sempre più difficile farci del male. Siamo tutti riuniti, e con uomini come Costa e come Turati, ma che manovale sei se non li hai mai sentiti nominare? con loro a capo, si sa dove si va. Ma ti sembra giusto?» commentò «che un filone di pane ci costi due ore di lavoro? L’importante è non lasciarsi trascinare alle vie di fatto personali, com’è successo a me qualche ora fa. Ma quando te le levano dalle mani» ripeté. «Perché, non ti credere, in certi casi i caporali, sono più carogne loro degli Impresari. E’ gente come noi, che s’è venduta».
Entrò il piantone, che forse stava ad origliare, disse:
«Già vi conoscete».
«Facciamo lo stesso mestiere» Metello disse.
«Ma non ci si era mai visti prima d’ora» aggiunse Chellini.
«Via» disse la guardia. «C’è il cellulare».
Il muratore e il ladruncolo si avviarono.
«Ciao Chellini» disse Metello.
«Ciao figliolo».
La guardia lo sospinse.
Non poterono nemmeno darsi la mano.
Metello uscì di guardina la stessa sera, dopo che l’ebbero schedato come figlio di Caco, discepolo del Maestro e amico del Chellini muratore. Congedandolo, il Delegato gli disse: «Ora, giovanotto, dipende da te. Ricórdati che ti teniamo gli occhi addosso». Egli tornò al lavoro, ed aveva preso la sua decisione: togliersi quegli occhi di dosso il più presto possibile. Intanto, ragazzo di diciotto anni, soggiacendo ad un pensiero, il più costante tra quelli che l’avevano accompagnato l’intera settimana, il sabato dipoi, riscosso il salario, salì le scale della casa di Michela. Le gambe della ragazza non gli fecero impressione, non le guardò. O non le vide.

CAPITOLO 7.

Né durò molto il tempo spensierato. Nemmeno un anno, e ora si profilava la disoccupazione. Già nel cantiere si incominciava a licenziare. Certi badilanti e manovali, come alcuni muratori specializzati nelle fondamenta e negli scalini, non servivano più. I lavori assunti in appalto dall’Ingegner Badolati per conto della Fondiaria, quattordici mesi prima, stavano, almeno riguardo la parte in muratura, per essere ultimati. Era un lotto di sei case di quattro piani e si era proceduto a edificare due immobili alla volta, a turni pieni, squadre al completo e ritmo accelerato. Nei primi due, consegnati in ottobre, c’erano digià gli inquilini, erano state aperte una macelleria e una canova. E i due ultimi avevano raggiunto il terzo piano, percui tra un mese, coperti che fossero, non sarebbe restato che spolverarsi le mani. Il resto era compito di falegnami, di decoratori e di trombaj, che ora stavano rifinendo il quarto fabbricato. Quel sabato sera, era novembre e il sole non si finiva di scendere dai «ponti» ch’era tramontato, l’Ingegnere li aveva riuniti, e fatte le paghe, gli aveva detto che chi pensava di potersi occupare altrove, non si lasciasse sfuggire l’occasione. «Non voglio sacrificare nessuno» aveva detto. «Nell’altro cantiere che ho alle Cure, posti non ce n’è, sono al completo. E per il momento, non ho in vista altri lavori».
Sedeva al tavolo, tra le cataste d’assi e di mattoni, fuori lo sgabuzzino della Direzione; aveva il cappello all’indietro come al solito e il tre quarti col bavero di pelliccia. Sul tavolo c’era acceso l’acetillene, tirava un po’ di vento e la fiammella sfriggeva. Loro stavano a semicerchio davanti al tavolo, con le mani in tasca o le braccia conserte; erano una trentina, due o tre manovali non ancora di leva e il più vecchio di tutti, Renzoni, aveva lavorato sotto Giuseppe Poggi, alla Mattonaia, quarant’anni prima. In piedi, a fianco dell’Ingegnere, c’era Madii, il caporale che faceva cenni d’assenso, via via che il padrone parlava. Ora l’Ingegnere diceva:
«Non avrei nessun dovere, ma siccome con la maggior parte di voi ci si conosce da un pezzo, vi voglio spiegare come sta la situazione. Lavori in vista non me ne mancano, ma col vento che tira, vedi» s’interruppe accennando l’acetilene «tra poco si spenge anche il carburo».
Sollevò appena un mormorio che avrebbe dovuto essere d’ilarità. Appoggiò i gomiti sul tavolo, congiunse le mani, e riprese:
«E’ una situazione complicata, ragazzi. Quando vado per stringere un contratto, sia la Fondiaria, sia la Magona, sia l’Immobiliare, mi dicono che è meglio rimandare. Anche il nuovo Stabilimento per Passigli, a cui si doveva metter mano finito qui, è rimandato. Era tutto pronto: progetti, visti, bolli, le forniture di materiale assicurate, senonché Passigli ci vuol pensar su altri sei mesi, me l’ha fatto sapere l’altra mattina. Giudichiamoli come vogliamo, è gente che non vuol correre dei rischi. Sono rimasti scottati con Crispi, anche se ci hanno trovato il tornaconto, e ora vogliono vedere in faccia questi Di Rudinì e questi “Pellù”. Li hanno messi su loro e prima li vogliono pesare. Ma anche vojaltri» esclamò. «Dico vojaltri per dire i socialisti, tanto più o meno siete tutti della stessa tinta. Quelli che vi comandano, fanno certe bischerate! Turati minaccia, Pescetti poi!».
Qualcuno mormorò, non si capì cosa, né chi fosse stato. Egli s’interruppe, poi chiese:
«Cosa c’è, sentiamo?».
«Fuori chi ha parlato» gridò Madii.
L’Ingegnere lo riprese: «Calma, Madii, calma. Hanno bene il diritto di parlare. Non gli sto mica dando la notizia di un aumento di salario».
Tirò fuori di tasca mezzo toscano e l’accese sporgendosi sulla fiamma dell’acetilene.
«Allora, ragazzi, avanti» ripeté.
Ma intervenne Renzoni, coi suoi capelli bianchi, la sua giacchetta corta, il fagottino sotto il braccio e la cicca spenta in mezzo alle labbra: «Vada avanti lei, Ingegnere. Vuoti il nappo».
Ora sì, si levò dal gruppo una distinta risata che nondimeno subito si spense. L’Ingegnere continuò, ma dimenticandosi della digressione e tornando in argomento.
«La mia opinione è che si tratti di una cosa passeggera. Malgrado il momento sia un po’ scuro, c’è troppo risveglio per potersi fermare. Si va verso uno sviluppo industriale che non ne abbiamo nemmeno l’idea. E l’edilizia, per forza di cose, dovrà avere la sua parte. Forse è soltanto questione di mesi, superato questo strizzone le fornaci non ripareranno a cuocere mattoni. Ragion percui, ragazzi, tra cinque o sei settimane, magari pochi alla volta, vedrò di fare il possibile, ma vi dovrò licenziare. Se nel frattempo le cose si sistemano, meglio per tutti. Ho voluto avvisarvi in tempo, perché ci avete delle famiglie sulle spalle e io la notte voglio dormire tranquillo. Ci si vede lunedì» concluse. E si alzò in piedi.
Ma come si alzò lui, si alzò una voce dal gruppo dei muratori, distinta questa, appena un po’ arrochita, e precisa, che disse: «Bravo Ingegnere! La dovrebbero fare Deputato, lei, con cotesta parlantina».
Colui che aveva parlato, Quinto Pallesi, venne avanti qualche passo verso il tavolo:
«Ingegnere, non si è mica offeso?».
«L’avrei a sapere di che panni vesti! Se tu non fossi l’anarchico che sei, a quest’ora, con la tua capacità, invece di averti come muratore ti avrei come concorrente. E forse ti chiederei di far tutta una Ditta».
L’aveva preso a braccetto, erano adesso nel gruppo dei muratori, e in questa atmosfera creata dalla condiscendenza del padrone, le frasi aggressive, feroci, ch’essi si scambiarono, sembravano perdere la loro sanguinosità e acquistare il senso di una reciproca, amichevole presa in giro.
«La capacità» diceva Pallesi «io l’ho tutta nelle mani».
«E nella zucca no? Soltanto, la spendi male, anche se da un po’ di tempo ti sei calmato».
«Già, ma mentre a lei basta un discorsino per andare a letto tranquillo, io non so come dormirci, se fossi uno sfruttatore e un ladro pari suo».
I muratori attorno ridevano, Metello rideva, Renzoni rideva, lo stesso Madii rideva, ma proprio per questo, le parole in apparenza svelenite, risuonavano nell’intimo di ciascuno di quegli uomini cariche del loro più esatto significato.
«Sii buono, Pallesi. Se non esistesse la gente come me, morireste tutti di fame. Escluso te e qualche altra mosca bianca, il resto cosa siete, cosa sapete fare? Tolti dal vostro lavoro, avete bisogno del poppatojo, non vi sapete togliere un dito dal sedere».
«Dica culo, che lo sa dire. Quando durante il giorno lei sale sui ponti e le sembra che non si coli abbastanza sudore o che il freddo non ci abbia rotto le mani, perché non parla allora pulito?».
«O bella! perché vi pago per sudare, e non voglio essere messo in mezzo».
«Eh, quanto vi durerà!» esclamò Pallesi.
«Lo so che tu ci vorresti mettere tutti al muro, o meglio una bomba sotto i piedi. Ma bada, perfino a Capo del Governo c’è un Generale! E del resto, un tempo, a Parigi, stavano per mettere te al muro».
Ora Pallesi cambiò voce, disse: «Questo è un tasto che non si deve toccare».
Si erano tutti zittiti, e siccome passo passo erano arrivati dinnanzi alla macelleria e alla canova, a quella poca luce si potevano vedere i visi. Metello stava di fronte a Pallesi, e lo guardava: era come lo scoprisse soltanto allora, questo anarchico sul cinquant’anni, di cui tutti avevano grande considerazione e con il quale, non appartenendo alla sua squadra, i suoi rapporti si erano limitati al saluto: bruno, dalle tempie brizzolate, ma forse era calcina, il viso segnato, il corpo esile, e uno sguardo di bontà e di fuoco insieme dentro gli occhi neri. Gli ricordò Betto, ma un Betto giovanile, saldo, non ottenebrato dal vino. E attese, guardandolo, un attimo: da quell’improvviso silenzio poteva nascere una rissa, una ben diversa discussione. Parlò Madii e disse:

«Sei stato tu, Pallesi, a incominciare e a mancar di rispetto all’Ingegnere».
«Sta’ zitto tu, talpa» lo incenerì Pallesi. «Lascia parlare il padrone».
E subito, l’Ingegnere intervenne, disse: «Ragazzi, è sabato, sapete che si fa? Vi offro da bere».
Era una canova, poteva vendere vino soltanto a fiaschi, ma appunto dei fiaschi ne occorreva; e lo stesso si rimediarono cinque o sei bicchieri, sufficienti a fare il giro. L’Ingegnere offerse per primo a Renzoni, siccome era il più vecchio: «Tieni il nappo» gli disse; e queste parole bastarono a finir di disperdere la caligine. Poi, alzò il bicchiere verso Pallesi che ricambiò il suo gesto, si sorridevano, ancora cordiali, ironici, a loro modo sfidandosi e portandosi stima, uomini entrambi naturalmente più forti, e intelligenti e iniziati rispetto agli altri che li circondavano:
«Alla tua Comune, Pallesi».
«Al suo Generale, Ingegnere. Ma a chi fa la guerra? Al macinato?».

E c’è un’alba, simile a mille altre che hai visto nel corso della tua vita, con la luce che è grigia e lentamente si schiara, e si colora, e dapprima è celeste, non rosa, è poi rosa, quindi in un baleno, da dietro i poggi, sbuca il sole, e il cielo, investito da tanta luce, sembra scattare più in alto. Tutto quanto accade cotesto giorno non potrà mai trapassare dalla memoria. E’ il giorno in cui, a nostra insaputa, la nostra vita si volta come si volta sul palmo il dorso della mano. Quel lunedì, Metello si avviava verso il cantiere, era l’alba e attraversava il ponte sul Mugnone, all’altezza del Romito; istintivamente si voltò, e questa fu la sua impressione: come se, spuntando il sole, qualcosa che fino allora tratteneva il cielo ne lo avesse liberato e precipitasse, zavorra di luce diciamo, sulla terra. Un istante, riprese il cammino e dopo qualche passo se n’era dimenticato. Ma era un sole d’inverno, presto lo seppellirono le nubi, dalle cime di Monte Senario e dell’Incontro gli corsero addosso grandi nuvole nere. E prima che i muratori potessero salire sui «ponti», si scatenò il temporale. Durò forse mezz’ora, e il sole non riapparve; cessata la pioggia, il cielo era adesso tutto bianco, compatto. Essi, via via che erano arrivati, avevano trovato riparo sotto la tettoja dove erano conservati i sacchi di cemento, i telai delle finestre, i carielli, le stoje; e in mezzo avevano acceso un fuoco. Così, gli uomini delle diverse squadre che lavoravano ai due edifici ancora in costruzione, si erano trovati tutti riuniti, come il sabato precedente. Non potevano non riprendere il discorso, anche se non c’era il padrone; anzi, a maggior ragione.
Il vecchio Renzoni disse: «Qui, figlioli, se qualcuno non ci mette riparo, sa Dio come va a finire. Pescetti ha ragione, a certa gente sembra non sia andata mai bene come ora, nemmeno durante Firenze Capitale c’era tanto lusso. Per dirne una: ieri ero sui Lungarni, e durante la passeggiata delle Cascine non ho mai visto tanti “landò”. Come va allora dico io, che il pane aumenta un giorno dopo l’altro: che aumenta tutto, e le nostre paghe restano le medesime di dieci anni fa? Se è per via del Dazio, lo levino; o diano un po’ del loro per risolvere la situazione. O vogliono che questi giovani che hanno famiglia, vadano alla disperazione, come quei poveri contadi i giù nel Tacco? “Loro” gli mandano i soldati e i Carabinieri, sparano, legano, buttano in galera, e credono d’aver tutto bello e sistemato. Qui è question di fame, è questione. Eppure, una maniera per farglielo capire, bisogna ci sia. O non s’accorgono che è nel loro interesse? Come quando si trattò di rizzare la statua della bilancia in Piazza Santa Trinità, anzi la colonna, ora mi sbagliavo, come gli disse quello? ‘Più vino agli uomini e meno acqua alle corde’. Cosa bisogna fare per metterglielo nella zucca? Turati alla Camera non gliele manda a dir dietro queste cose; noi, presi alla gola, si cerca a volte di scioperare, macché! “noee!” non la intendono. Cosa gli si deve fare? Eh, Quinto?».
Pallesi tritava tra pollice e indice la spuntatura di tabacco, e caricava la pipa. «Io lo so, e da un pezzo. E tu la mia opinione la conosci. Siete voi che non lo volete capire, come “loro”. Ma almeno “loro” fanno i loro interessi».
«Sarebbe a dire?» chiese Renzoni.
Gli altri, zitti, in cerchio attorno al fuoco, di fronte o di spalle, li ascoltavano.
Quinto accese la pipa e disse: «Stammi a sentire. Dianzi, appena sveglio, la mia donna ha preso a rappresentarmi il problema dei topi. Ci si aveva un topo in casa che secondo lei non ci lasciava dormire. Aveva messo la trappola e tutte le volte il topo s’era mangiato anche il cacio. Mentre lei me ne parlava, la mia figliola le ha detto: ‘Mamma, l’ho sentito muovere, sposta il cassettone’. Hanno spostato il cassettone, il topo è venuto fuori e la mia figliola con la granata lo ha fatto secco».
«Sarebbe a dire?» ripeté Renzoni.
Quinto sorrise, aveva uno sguardo di bontà e di fuoco dentro gli occhi, era un uomo già anziano e tuttavia sembrava un giovanotto che si burlasse, con non celata soddisfazione, di una persona in là con gli anni e lenta di cervello. Disse:
«E’ una parabola, no? Non sei mai stato a messa? Tra poco, non dubitare, legalitario oggi, legalitario domani, il tuo Turati ti consiglierà anche questo».
Ma né Renzoni né nessuno degli altri poté interloquire. Era arrivato l’Ingegnere e con lui era cessata la pioggia. «Su ragazzi, su, è finito, forza».
«Ricordatevi» gridò Madii perché la sua voce arrivasse in ogni angolo della tettoia e del cantiere «è scaduta mezz’ora».
«No» intervenne l’Ingegnere. «Consideriamola come lavorata. Cerchiamo di cominciare bene la settimana. Piuttosto, ricordatevi che sabato si deve essere arrivati a coprire il tetto».
«Tempo permettendo» disse Renzoni. «Non ci si capisce più nulla nemmeno con lui. Viene una bufera e poi schiarisce subito, come d’estate; sembra marzo e fa un gelo!».
Metello si avviò con la sua squadra; vide Pallesi che dava una spinta, ma affettuosa, al vecchio Renzoni; lo vide di spalle mentre saliva a sua volta per la scala del fabbricato dirimpetto. Trascorsero così due ore, saranno state le dieci, le dieci e un quarto, Metello affondava la cazzuola nella calcina, quando sentì un urlo, che durò un baleno e fu sepolto dal tonfo di un corpo andato a schiacciarsi sulla massicciata. Quinto Pallesi era precipitato dall’impalcatura.
Qualche minuto dopo, l’avevano sollevato e portato sotto la tettoia, disteso su una porta, lo sorreggevano alla nuca; il sangue gli colava di sotto l’attaccatura dei capelli e gli si spandeva sul viso, non riparavano a tamponarlo. Il suo sguardo era sempre vivo, balenante, più che di dolore di collera sembrava; respirava a fatica, gli riunirono le gambe e dette un grido; ansimava, diceva:
«Mi è venuta a mancare la ringhiera. Non ho fatto in tempo a riprendermi».
Adesso era Metello che stando in ginocchio, gli teneva la testa e gli tamponava il sangue. Dall’altro lato c’era l’Ingegnere.
«No, non ce l’ho con lei» ansimava Quinto. «Non ce l’ho con nessuno. Il legno si era infradiciato, o la giuntura ha ceduto. Ero io che ci dovevo badare. La pelle è la mia».
Digrignò i denti per il dolore, volse la testa e incontrò lo sguardo di Metello, sembrò abbozzargli un sorriso: «Hai visto?» gli disse. «Non ci siamo mai conosciuti bene, come mai?». Ansimava, e le sue parole eran già diverse: «Se non avesse piovuto! Sono anche scivolato. Con l’asciutto mi sarei agganciato». Si agitava: «Portatemi all’Ospedale, fate presto».
«Sono andati a chiamare la Misericordia, stai calmo» gli ripeteva l’Ingegnere che aveva la faccia color fango e pareva gli si inumidissero gli occhi.
«Andate anche a casa mia, subito. Subito. Fateli venire tutti all’Ospedale. Anche i ragazzi, mi raccomando. Armanda, Ersilia e anche il bambino, fate venire anche Carlo. Tutti e tre, la mamma e i due ragazzi… Armanda, Ersilia, Carlo… Armanda, Ersilia… “Merde les généraux…”».
Ora già delirava.

CAPITOLO 16.

Ora, quanto avrebbero resistito? Uno sciopero è come un assedio: si tratta di durare, inerti e vigili, fino ai giorni che preludono la sortita. O la capitolazione. Trascorse altre due settimane, si era vicini a luglio e la situazione non era mutata, se non in peggio. Quello che per i muratori continuava ad essere uno sciopero, il più lungo ch’essi avessero mai affrontato, i Padroni lo consideravano adesso una serrata. La sera che Lippi aveva aggredito Crispi, incidenti simili erano accaduti anche altrove. Madii, al solito, si era dimostrato il più arrogante degli Impresari, e quel sasso che Aminta aveva minacciato di tirare su Badolati, altri l’avevano raccolto ed era volato a sfiorare il berretto dell’ex caporale. Gli Appaltatori erano ricorsi alle Autorità, che avevano fatto presidiare i cantieri. Ovunque, accanto al guardiano, c’erano ora un sottufficiale e tre soldati. Se i muratori si aggiravano d’intorno alle impalcature, nemmeno più portativi dalla speranza d’incontrarsi coi Padroni, ma come da un impulso amoroso, e perché era il luogo della città a loro inconsciamente più familiare, i soldatini, intimoriti dalla consegna ricevuta, imbracciavano il moschetto e gridavano: «Indietro».
«”Jatevenne”. Fatelo per Dio».
Erano ragazzi di vent’anni, e malgrado si sentissero spalleggiati dal graduato e dal guardiano armati di pistola, tanta era la loro decisione che gli tremava la voce. Davvero, a trattenersi qualche minuto di più, uno di quei fucili avrebbe potuto sparare da solo. Così, ciò che era successo a Bari, si ripeteva a Firenze. Non si vedeva una via d’uscita. Badolati, stando alle voci, combattuto tra il suo desiderio di iniziare delle trattative e la solidarietà che gli era richiesta, «di non fare il crumiro dei Padroni», si era ritirato nella sua tenuta in Casentino dove «dimagriva a vista d’occhio» al pensiero dei lavori lasciati in tronco e non essendo abituato a restarsene inoperoso, durante la trebbiatura aveva preso il forcone e dato una mano ad innalzar pagliaj. Costì, dove ugualmente era il padrone, si era ritrovato accanto un pajo dei suoi muratori che per rimediare la giornata andavano ad opra di aja in aja: avrebbe potuto farli allontanare, invece aveva finto di ignorarli.
Ma i più anziani, o coloro che non trovavano da arrangiarsi altrimenti, un giorno sì e due no, venivano a Firenze, a piedi e partendo all’alba per non lasciarsi cogliere dal solleone; gareggiavano con gli scioperanti di città, nel «reggere i muri» della Camera del Lavoro. E siccome non c’era mai nulla di nuovo, passavano la giornata sulle panchine di Piazza Santa Croce, cambiando di panchina via via che il sole girava, e non veniva sera. Allora tornavano in Corso de’ Tintori, e Del Buono li rimandava con delle belle parole, speranze poche e distribuendo semmai qualche diecino che aveva messo insieme, come un frate cercatore, durante le riunioni di stipettai o di parrucchieri. Lo stesso, a fine settimana, si era riusciti «a far le finte di spartire dei salari». Quegli operaj delle Officine avevano portato altre centotré lire, sessanta le sigaraje, e più consistente era stato, al venticinquesimo giorno, l’aiuto dei lavoratori di Doccia. Era venuto il sindaco di Sesto in persona, Fortunato Bietoletti, del resto anche lui ceramista della Richard-Ginori, a consegnare le 296 lire.
“Il Muratore”, infine, che si stampava a Torino, aveva annunciato una sottoscrizione, per loro di Firenze e per quelli di Livorno e di Bari. Ora si sarebbe visto se Borghesio e Tian e Cortiello e Salvatori si ricordavano coi fatti di Firenze e di Gemignani, essi che avevano riscosso netti cinque salari durante l’ultimo mese.

Il denaro dei ceramisti e delle sigaraje era stato distribuito il quarto sabato sera. Ciascuno aveva denunciato il proprio stato di famiglia, e senza badare alle qualifiche di mestiere, si era divisa la somma «secondo le bocche». E come in casa di Olindo o di Duili erano in sei, e Aminta aveva la moglie e due ragazzi, Aminta aveva avuto quattro parti e Duili e Olindo sei. E Lippi due, poiché aveva a carico la sua vecchia; e una Renzoni nipote che contava per sé solo. Questo, che era sembrato il miglior modo di operare secondo giustizia, ora aveva sollevato i primi malumori.
Un neonato, si cominciò a dire, con che criterio lo si può considerare alla pari di un ragazzo di sette o otto anni che vuoterebbe la dispensa se la dispensa fosse da vuotare? E poi, chi aveva la moglie che faceva i bucati, o la treccia, o teneva baliatico addirittura, non si trovava sicuramente nelle stesse condizioni di coloro la cui donna, impegnata tutta la giornata dalla casa e dai figlioli, non era in grado di portare alcun aiuto. Quando poi il piccolo Renzoni rinnovò la sua richiesta per le spuntature da regalare al nonno, un ex primomuratore dopotutto, ch’era stato quaranta anni sui «ponti» e doveva appoggiarsi al bastone, venne messo a tacere da una manata tra collo e cervelletto, che mezzo lo stordì e della quale non seppe mai chi ringraziare. Com’era stata anonima cotesta pacca, anonime, borbottate, si levavano le proteste. «La Giustizia morì vergine, e non c’è socialismo capace di farla rinvivire» era la mormorazione più bonaria. Che non ancora investiva i capi, ma in certo senso vi alludeva.
Ed ora, giunti al martedì della sesta settimana, tutti sapevano che il prossimo sabato non ci sarebbe stato nemmeno una o due lire a testa da dividersi. Neanche la manifestazione ch’essi avevano inscenato, non sui cantieri né davanti alla Prefettura, tra sotto le finestre dell’Associazione, era valsa a qualcosa. Si erano mantenuti calmi, bastando la loro presenza e i loro visi a rendere eloquente il significato di cotesto assembramento, ma ugualmente avevano trovato un sergente e tre fanti che gli avevano spianato contro i fucili; e dinanzi alla loro immobilità e al loro silenzio, erano indietreggiati e avevano chiuso il portone. Poco dopo, chissà come avvisata, era apparsa una compagnia intera, in assetto di guerra, e li aveva dispersi.
Quel che c’era da spremere era stato spremuto. Gli operaj di fabbrica e le sigaraje, e i ceramisti non erano più in grado di aiutarli. La solidarietà di classe è l’undicesimo comandamento ma poi, all’entusiasmo subentra l’assuefazione. E’ come quando si ha un parente moribondo, e la sua malattia non trova un esito, ma si protrae in una lunga agonia. La sua presenza, a cui ci è sempre più difficile prestar soccorso, finisce per esserci, anche moralmente, di peso. La sua sopravvivenza è ora unicamente affidata al suo resto d’energie, al suo sangue. Di città o di campagna che fossero, avevano convenuto di aspettare fino al prossimo giovedì, dopodiché si dichiaravano «decisi a tutto». Ma già, come la loro disperazione, la loro ira, si coloravano di rassegnazione, così il loro cibo si era ridotto alla «panzanella» che di solito serve da merenda ai ragazzi, e aiuta la mescita e stimola l’appetito: pane ammollato nell’acqua e sbriciolato, aceto e sale, un pizzico di basilico. Era un miracolo poterne riempire la zuppiera una volta al giorno, per cena.
Decisi a tutto, se entro giovedì non arrivassero i denari della sottoscrizione aperta dal “Muratore”.

Mancavano due giorni, ci sarebbe stato in mezzo, l’indomani, la Festa di San Giovanni, a cui in altre circostanze avrebbero reso onore, chiudendo un occhio se il figlio più piccolo o la bambina entravano nella processione col vestito azzurro e le alucce dietro la schiena; a sera, si usciva con la famiglia, sui lungarni o in collina, a vedere i fuochi artificiali. O si risaliva il fiume sui barconi dei renajoli, costava due centesimi a persona, e a poppa strimpellava un mandolino; quelli di campagna restavano in città: c’era la musica in piazza, c’erano i fuochi, ed estraevano la tombola, sotto Palazzo Vecchio tutto illuminato. Questa volta, la ricorrenza di San Giovanni, cadeva male, li contrariava. Oltretutto, non ci sarebbe stato motivo di ritrovarsi, essendo un giorno di festa, nei paraggi della Camera del Lavoro, in attesa che Bastiano recasse una buona notizia, magari gli spiccioli di una colletta fatta durante una riunione di stipettai.
Essi guardavano alle due finestre dell’ufficio di Del Buono, come nelle giornate di pioggia si guarda il cielo per veder sbucare una striscia d’azzurro che permetta di risalire sui «ponti». Ma erano sei settimane che grandinava piuttosto che schiarire. Finita la mietitura e i lavori occasionali che potevano aver trovato, era per tutti la disperazione a cacciarli dalle case e dai paesi. Dall’alba al tramonto, nessuno più mancava «a reggere i muri» di Corso de’ Tintori; e in ciascuno di essi, anche nei più persuasi e che per primi avevano alzato il braccio il giorno in cui si era deciso lo sciopero, forse proprio per questo, c’era la sensazione di essersi come imprigionati con le proprie mani. Indugiavano fino a sera sulle panchine di Santa Croce, in Piazza Cavalleggeri e dirimpetto la Caserma, tra via de’ Malcontenti che ora si poteva ben dire la loro strada, e via de’ Macci, via delle Conce e de’ Conciatori. Cercavano di distrarsi guardando il fiume; c’era sempre chi faceva il bagno e chi pescava; o interessando ai casi loro quei tintori e quei marmisti che venivano sulle porte dei Laboratori. Si spingevano a conversare coi conciatori, nelle due viuzze strette dove l’odore delle pelli stagnava nell’aria e bisognava farci l’abitudine. Tutti gli davano ragione: e una cicca di toscano, una mescita, un pezzo di pane: non erano delle elemosine, erano delle offerte da pari a pari. Adesso, anche costoro avevano incominciato a giudicarli.
«Non vi verrà a costare un po’ caro?».
«Se continuate a perdere lavoro nella buona stagione, quest’inverno davvero vi troverete con le pezze al sedere».
Parlavano bene, c’erano dei socialisti tra di loro.
«Vi siete ricoperti d’onore. Se ora sventolate il fazzoletto, nessuno vi potrà rimproverare di aver mancato di carattere».
Di carattere, d’onore? Di debiti, si ricoprivano, e nemmeno, le donne non trovavano più un fornajo o un pizzicagnolo che gli aprisse un conto nuovo. Scappare di casa, al mattino, significava sottrarsi a una vergogna, e al pericolo, per chi ci riusciva, di alzar le mani sulla moglie e i figlioli: col cuore stretto, e la testa in fiamme, era il solo modo che gli restava di imporre un’autorità, una ragione.
Quando nel cortile della Caserma suonava la tromba del rancio, i più sfacciati, che poi erano sempre quelli che avevano più fame, tornavano sul Lungarno, dove a filo del marciapiede c’erano le finestre che davano sulle stalle: in ginocchio, sotto il sole, allungavano il braccio tra le sbarre delle inferriate. Quei soldatini si arrampicavano sulle mangiatoje e ritti sulle groppe dei cavalli, gli mettevano in mano delle pagnotte, delle gavette piene di rancio. Ne contentavano dieci, quindici, gli altri restavano a guardare. Erano ragazzi simpatici, parlavano veneto, piemontese, siciliano, ce n’era un pajo che avevano il padre e il fratello muratori, altri ch’erano loro stessi dei manovali. Gli sembravano diversi dai fanti che montavano di sentinella nei cantieri.
«Italiani siamo».
«”Lavoremo” tutti con le mani, “lavoremo”».
«”Magna ma’”».
«Fra qualche mese sarò anch’io di leva» diceva il piccolo Renzoni.
Egli era il solo a cui lo sciopero avesse recato un’autentica distrazione. A furia di restar giornate sui Lungarni e pei Viali, era entrato in confidenza con una bambinaja; lei che era della sua medesima età, educazione e statura, lasciava che il padroncino corresse avanti e tirasse sassi nel fiume. Era una ragazza delle Marche, una contadina, parlavano delle loro famiglie e della terra e di cosa ci si coltiva, non cambia molto tra la campagna fiorentina e quella di Macerata; presto, ebbero sempre meno cose da dirsi, e non si erano né fidanzati né dati un bacio; si guardavano e dondolavano la testa. Ella gli portava la merenda e mezzo pacchetto di spuntature per il nonno. Salutata l’amica, egli scendeva sull’Arno e vi si tuffava: se ci fossero state novità da parte di Del Buono, qualcuno gli avrebbe dato una voce affacciandosi dalla spalletta.
Gli altri, tutti, era come se quel sole li finisse di prosciugare, e sudassero veleno. Anche al decano s’era spenta l’ironia. «Ho finito di mettere gli ultimi capelli bianchi» aveva detto, si era tolto il berretto e aveva abbassato la testa: «Guardate se non è vero?». Passavano ore senza scambiarsi una parola; disegnavano sezioni di pareti sullo sterrato, coi fuscelli, tornavano ragazzi loro malgrado: scrivevano “W Io” e “W il Socialismo” e “abbasso l’Associazione”, e ci strisciavano sopra col piede; oppure, giocavano a filotto cavalcioni sulle panchine. D’improvviso scoppiava una discussione. Era quasi sempre Aminta che andando di gruppo in gruppo, la provocava.
Magro da far paura, gli occhi spiritati, la barba lunga due dita gli aveva pareggiato la mosca sotto il labbro. Aveva avuto una lite col suocero e coi cognati, messi su dal prete, non c’era da dubitarne: gli avevano rimproverato, al solito, la sua pochezza e fannullaggine, come se lo sciopero fosse una sua invenzione. Erano venuti alle mani; ne aveva buscate e l’avevano fatto arrestare. Un giorno e mezzo in guardina, questa volta senza ragione. C’era stato il confronto, nell’ufficio del Brigadiere. «Tu che dici?» Aminta aveva chiesto alla moglie. Semira gli era andata vicino: «Io ho sposato te, non i miei». I parenti avevano recitato la scena del ripudio, ma né lui né lei si erano lasciati persuadere: proprio ora che più tragica la situazione non si poteva dare, Aminta si era preso il maggiore dei ragazzi per la mano, e Semira dietro, col più piccino in braccio, avevano lasciato Ponte a Ema. Lippi, come ospitava lui aveva ospitato la sua famiglia, nella stanzuccia a terreno, con una sola branda che bastava appena pei ragazzi. Si poteva durare? La moglie del decano badava ai bambini, e Semira andava a far erba e a spigolare. Era ancora giovane, le gravidanze non l’avevano abbattuta, e non che fosse debole per natura, ma aveva bisogno d’essere guardata. Lasciata a sé si poteva perdere con un sorriso, siccome alla fatica, sì, c’era abituata, ma non alle privazioni. Ora andava a giornata da uno di quei grossi ortolani di Collina che in paese tutti rispettavano per la sua posizione ma che si conosceva come un donnajolo: «Mi raccomando, Semira, non si lasci conquidere»le aveva detto Lippi, così, tanto per dire, ma certamente sapendo ciò che diceva. Ella portava a casa venti e trenta soldi per sera: quando Aminta rientrava c’era la panzanella. C’erano un piatto di pomodori e un bicchier di vino. Tanto veleno, che gli serrava il cuore. Stava per delle ore accoccolato da una parte, sulla scalinata di via de’ Malcontenti, sulla base d’un lampione, e d’un tratto esplodeva. Non per incitare alla resa, al contrario: gli sembrava che tornare ai Cantieri e rendere evidente coi fatti l’inutilità dello sciopero, non fosse neanche da pensare. Come non si pensa di sedersi sul ciglio di una strada, anche se siamo stanchi morti, allorché s’intravedono le prime case.
«Così non può durare. Badolati, Madii, Tajuti, preferiscono pagare le penali piuttosto di scendere a patti. Si sono nascosti. Ci vogliono pigliare per disperazione. Li dobbiamo andar noi a scovare. E’ che siamo guidati male. Del Buono è un santo, starebbe bene sugli altari, Cipressino non vede che la politica, Giannotto è un poveruomo, si lascia influenzare. I Padroni bisogna pigliarli noi di petto, bisogna togliergli il pelo, bisogna mettergli paura».
«Ce lo tolgono ma a noi il pelo» mormorava Olindo, tra sé e sé: «Siamo noi che dobbiamo aver paura, qui come in miniera è la stessa storia, sempre allo stesso modo va a finire, quando saremo costretti in ginocchio, come digià siamo, i caporioni se ne lavano le mani» borbottava, e al massimo poteva sentirlo chi gli sedeva vicino.
Non Aminta di certo, ché Aminta ormai lo lasciavano parlare. Se qualcuno si fosse azzardato a contrariarlo, ma anche a dargli ragione, c’era da compromettersi: ti si scagliava addosso, alzava le mani, gridava: «crumiro», ed era lui che prendeva le difese di Metello e di Del Buono. «Vai via di testa, Aminta» gli diceva il decano. «Non ti esaltare». Lippi era la sola persona che Aminta ascoltasse, per la riconoscenza che gli doveva, e per i suoi capelli bianchi. Tornava ad appartarsi, accoccolato sui talloni, e ripeteva: «In galera ci sono già stato per aver segnato un prete, ci posso tornare per aver levato dal mondo un padrone». Da qualche giorno sembrava rinsavito, l’avevano visto sorridere addirittura. «Aspettiamo giovedì, giovedì si decide…. Intanto arriveranno questi quattrini del “Muratore”. Mi toccassero, mettiamo, cinque lire: subito una cena da cristiani, e la sera dico a Semira: ‘fatti bella e pulisci i bambini, vi porto a vedere il Circo Equestre all’Arena Nazionale’. Speriamo mi tocchi qualcosa di più di cinque lire».

«Che cifra ci toccherà?» si chiedevano, seduti attorno a Del Buono, i Delegati di Cantiere. Avevano davanti il numero del giornale che dava conto delle prime offerte: non superavano le mille lire e andavano divise coi colleghi di Livorno e di Bari.
«Spartite per quanti siamo, non serviranno a tappare un buco» disse il Tedesco.
Era intervenuto spontaneamente, siccome tutti ne avevano diritto, e perché, in assenza di Metello (lo si era atteso di minuto in minuto inutilmente) sarebbe altrimenti mancato il rappresentante del Cantiere di Badolati. Anche lui era dimagrito, il Tedesco, come il suo Padrone e come tutti, ma in lui si notava. Gli era calato l’addome e sembrava ora più alto, incuteva maggior rispetto diciamo. Per quindici giorni, non si era fatto vivo, aveva trovato da rintonacare il forno sotto casa, e dare il bianco alle pareti, ci s’era indugiato e dicerto il pane non gli era mai venuto a mancare. Ma il companatico sì, come a tutti, e in ispecie la sua razione di vino, dopocena. «Io fui preciso, ricòrdatelo Del Buono. Dissi, finché si può. Ora siamo andati al di là del sopportabile e del consentito». Era salito, tenendo per mano la figlia di dieci anni: una bambina lunga e secca, dalle ciglia e dai capelli albini, una tedeschina, faceva tenerezza e compassione. «L’ho portata siccome mia moglie sta a letto la più parte della giornata. E’ di sei mesi, e le si gonfiano le gambe» disse. «Non foss’altro, per questo, ho bisogno di tornare presto sul lavoro. Senza tradire nessuno, senza mancare ai patti, sia ben chiaro». La bambina si era seduta in un angolo le mani sui ginocchi, composta e seria, incontrò lo sguardo del padre e si sorrisero.
«jetzt gehen Wir, Lotte».
«Wann du glaubst, babbo».
«Che accechi se sembra la tua figliola» disse Giannotto.
«E’ tutta sua madre» egli disse, gli passò negli occhi qualcosa che poteva essere amarezza o malinconia.
E Del Buono, per cambiare argomento, tornò su quello che più e solo gli interessava.
«Aspettiamo a fasciarci la testa» disse. «Non ce la siamo ancora rotta del tutto. Nella sottoscrizione al “Muratore”, fino a questo momento mancano i versamenti delle città su cui si può contare di più. Milano, Torino, le Romagne. E se Madii e Tajuti sono partiti per Roma, un’intenzione la debbono avere. Pescetti ci terrà informati. Ha digià parlato con Giolitti, hanno fatto un pezzo di strada insieme, c’era anche Quaglino. L’hanno messo a giorno della situazione. Giolitti è quello che è, ma su queste cose ci ferma l’attenzione. E non va dimenticato che siamo sotto le Elezioni. Tajuti e Madii hanno in appalto delle Opere Pubbliche che dipendono dallo Stato e non dal Comune. Basterebbe che il Ministero li minacciasse sul serio di pretendere la consegna alle scadenze fissate, perché la situazione ribaltasse tutta a nostro favore».
Si tolse gli occhiali e chiese: «Chissà perché Metello non è ancora arrivato? Sono diverse sere che viene solo sul tardi, o non viene proprio».
Il Tedesco disse: «Avrà trovato qualche lavoro da fare».
«Non mi resulta» disse Giannotto. «Lo saprei».

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