Kapò – Gillo Pontecorvo film completo ; “De l’abjection” del carrello….confronta con Die Welle, 2008

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Kapò – Gillo Pontecorvo

Kapò – Gillo Pontecorvo – 1960 –

Kapò è di quei film che hanno segnato, visto o non visto, un passaggio nella storia del cinema. La trama è quella che trovate su wikipedia, anzi no, stavolta Wikipedia secondo me dà già un’interpretazione critica nella trama!
E allora, per la prima volta in questo blog, dove di solito della trama ne facciamo molto volentieri a meno, ma aggiungerei che ne facciamo a meno volentieri anche nella vita della trama; per la prima volta la trama provo a raccontarvela io. Se non avete visto il film passate direttamente al paragrafo dopo la prima foto.
Edith, giovane ragazza ebrea, vede da lontano i suoi genitori caricati su un camion dai nazisti. Invece di prendere un fugone, decide di salire con loro. Arrivati al campo, capisce di essere destinata, insieme agli altri bambini e agli anziani, direttamente alle camere a gas. Con l’aiuto di un prigioniero politico, un compagno medico intelligentissimo, assume l’identità di Nicole, ladra. La nuova identità le salva la vita, mentre vede i genitori avviarsi con gli altri prigionieri anziani alla camera a gas.
Al campo la novella Nicole viene accolta bene dalle compagne e soprattutto ha l’opportunità di stringere amicizia con un’altra prigioniera politica e un altro paio di prigioniere in gamba, dotate di coscienza civile e degli strumenti culturali per sopravvivere alle condizioni di vita disastrose del campo. Non sfrutta questa possibilità, perché regge troppo poco agli sforzi del lavoro e alla fame. In seguito a un incidente, provocato essenzialmente dalla mancanza di lucidità che gli sforzi e la fame le hanno causato, non è più in condizioni di lavorare come le altre. Un’ispezione la condannerebbe a morte sicura. Decide, pur di sopravvivere, di prostituirsi. Inizia il declino morale di Nicolle, che gode di condizioni sempre più favorevoli e finisce per approfittare dell’offerta di una compagna legata ai nazisti che le propone un posto vacante da kapò. Nel ruolo di kapò, Nicolle, persa ormai ogni speranza morale per sé stessa, si fa riconoscere per cattiveria.
E poi arrivano i sovietici, tutto il pubblico esulta. Sta per arrivare l’Armata Rossa. Prima di farsi sorprendere i tedeschi organizzano la carneficina finale. Nicolle, che nel frattempo si è innamorata, ricambiata, di un prigioniero sovietico, organizza insieme a loro una fuga di massa strategicamente folle. Per far sì che la fuga riesca, bisogna staccare la corrente che alimenta il filo spinato. Nicolle è incaricata di questo compito perché come kapò è l’unica che può avvicinarsi alla centralina. Non pensano che il gesto prevede l’automatica dipartita dell’eroina. Sascha, il prigioniero sovietico innamorato di Nicolle, all’ultimo momento le svela che è destinata a morire. Nicolle si sacrifica lo stesso, e in punto di morte si fa strappare i simboli nazisti dalla giubba che porta, chiede perdono a Dio, al pubblico e a sé stessa, infine muore ritrovando le sue origini ebraiche, comunicando agli spettatori che sono stati presi tutti in giro, ebrei, tedeschi, partigiani, Armata Rossa. I prigionieri sopravvissuti al primitivo piano ideato, effettivamente fuggono, tranne Sascha che resta inebetito a vagare nel campo ormai pieno solo di cadaveri.

Premessa n.1 – Pontecorvo è un compagno serissimo, che ha fatto il partigiano davvero, che si è sempre documentato moltissimo prima di girare e che ha una storia in grado di difenderlo praticamente da tutte le accuse. Qui c’è una breve scheda che ripercorre alcuni passaggi della sua vita e della sua carriera.
Premessa n.2 – Questo film oltre che ambiguo, è piuttosto brutto. Pontecorvo non ha diretto tanti film, ma La battaglia di Algeri, tanto per dire, è di un altro pianeta.
Premessa n.3 – Il problema, continuo a sostenere, è la struttura produttiva. Poi possiamo continuare a discutere e a scannarci sulle carrelate (e sulla musica che le accompagna), ed è giusto così. Ma il problema è la struttura produttiva e il ciclo che comporta.

Pontecorvo, e in questo caso Wikipedia conferma (il link è sempre lo stesso), avrebbe voluto girare un film più sporco, più realistico; la struttura narrativa melodrammatica sarebbe rimasta, ma supportata da una fotografia e da uno stile più vicino alle intenzioni del regista. I film spesso sono fatti di compromessi, succede, non è il caso di scandalizzarsi. Detto questo, e separando l’opera dall’autore, che soprattutto in questo caso, non merita il disprezzo che Rivette gli augura, il film è pieno di cadute di stile, di inesattezze, di romanticismi assolutamente fuori luogo. Il problema principale non è la famosa carrellata, orribile, ma che nel 2012 passa veramente inosservata (questo dà ragione a Rivette? Almeno in parte probabilmente sì, ma non è una gran vittoria ); il problema è il film. Se proprio vogliamo individuare un momento pessimo, è il riscatto di Nicolle. Il giudizio umano lo lasciamo da parte, scegliere di sopravvivere in qualsiasi modo in un campo di concentramento rientra tra le possibilità umane, e va bene così. Il giudizio storico però non può prevedere riscatti, eroismi finali, ultime parole. La Storia ci ha detto che Nicolle era dalla parte sbagliata. Non c’è possibilità di redenzione storica, né tantomeno politica. Lo spettatore è dalla sua parte quando si prostituisce per fame, soffre quando dà l’ultima spinta al suicidio di Therese. Nicolle è la parte di noi che cede, e nessuno è in grado di condannare sé stesso. Lo spettatore l’abbandona quando la sua psicologia segue strade incomprensibili. E la redenzione che ci viene proposta, in definitiva è incredibile.
Tutto il film in ogni caso è discutibile; a una prima parte che pur con qualche debolezza, descrive con durezza il campo, segue una seconda parte completamente sballata, da cinema italiano anteguerra, che non t’aspetti da Pontecorvo, piena di errori, di inquadrature formali, addirittura con una scena d’amore improbabile, che grida vendetta. La critica comunista non l’ha presa benissimo e pur riconoscendo le buone intenzioni di Pontecorvo, ha bocciato il film. Sul blog elcineitaliano viene riportata la critica di Guido Aristarco apparsa sulla rivista Cinema Nuovo, che può rendere l’idea della critica marxista italiana. Questo blog è fedele alla linea. Scherzi a parte, la posizione di Aristarco sembra oggi la più lucida e onesta possibile nei confronti di un film ambizioso e fallito.

Su Kapò esiste una questione critica, aperta da Rivette e mai conclusa. Su questo blog (talkischeap) ho trovato la trascrizione dell’articolo di Rivette. Il Corsera in archivio ha invece la contro critica di Kezich, apparsa appunto sul Corriere della Sera trentacinque anni dopo, a cercare di chiudere la questione, senza peraltro riuscirci.
Kezich scrive nel 1995, nel 2012 l’accusa di Rivette, che si sia d’accordo o meno, fonda ancora l’analisi popolare sul film. Il dvd in copertina, giusto per rendere l’idea, ha esattamente il fotogramma finale della carrellata famosa. Vuol dire che c’è stato un momento in cui la critica ha potuto creare dei momenti di sapere collettivo, in cui i film venivano fatti con coraggio e affrontavano il giudizio del pubblico e degli intellettuali come qualsiasi altra opera d’arte. La Nouvelle Vague, nei suoi giudizi critici, anche in quelli ingiusti, ha portato innanzitutto il coraggio; questo atteggiamento verso la vita si ritrova anche nei film migliori. Lo scontro tra un critico particolarmente esigente, coraggioso, morale, e un regista politico, altrettanto coraggioso, altrettanto morale ha regalato al mondo uno scambio dialettico che dura dal 1961.

http://mammuthgiallo.blogspot.it/2012/07/kapo-gillo-pontecorvo.html

Le travelling de Kapo (“De l’abjection”, texte intégral)

Cet article, éloquemment intitulé “De l’abjection”, est publié en juin 1961 dans le numéro 120 des “Cahiers du cinéma”: Jacques Rivette y condamne sans ambages le film “Kapo”, réalisé par Gillo Pontecorvo, première fiction cinématographique traitant des camps de concentration nazis. Ce texte devait faire date en rendant célèbre le mot de Godard selon lequel “les travellings sont affaire de morale” et en donnant à Serge Daney ce que, trente ans plus tard, il nommera sa “première certitude de futur critique”. Il est de bon ton aujourd’hui de trouver excessif l’article de Rivette, voire de le renvoyer à une morale de censeur. Mais s’il est vrai que Pontecorvo était animé des meilleures intentions et que les ridicules obscénités d’un mélodrame dans les camps sont imputables à son scénariste Franco Solinas, on oublie trop souvent que Rivette ne s’en prend pas qu’au fameux travelling et que c’est bien le parti-pris “réaliste” de Pontecorvo qui est l’objet premier de sa condamnation.

Le travelling de Kapo ("De l'abjection", texte intégral)

« Le moins que l’on puisse dire, c’est qu’il est difficile, lorsqu’on entreprend un film sur un tel sujet (les camps de concentration), de ne pas se poser certaines questions préalables ; mais tout se passe comme si, par incohérence, sottises ou lâcheté, Pontecorvo avait résolument négligé de se les poser.

Par exemple, celle du réalisme : pour de multiples raisons, faciles à comprendre, le réalisme absolu, ou ce qui peut en tenir lieu au cinéma, est ici impossible ; toute tentative dans cette direction est nécessairement inachevée (« donc immorale »), tout essai de reconstitution ou de maquillage dérisoire et grotesque, toute approche traditionnelle du « spectacle » relève du voyeurisme et de la pornographie. Le metteur en scène est tenu d’affadir, pour que ce qu’il ose présenter comme la « réalité » soit physiquement supportable par le spectateur, qui ne peut ensuite que conclure, peut-être inconsciemment, que, bien sûr, c’était pénible, ces Allemands quels sauvages, mais somme toute pas intolérable, et qu’en étant bien sage, avec un peu d’astuce ou de patience, on devait pouvoir s’en tirer. En même temps chacun s’habitue sournoisement à l’horreur, cela rentre peu à peu dans les mœurs, et fera partie bientôt du paysage mental de l’homme moderne ; qui pourra, la prochaine fois, s’étonner ou s’indigner de ce qui aura cessé en effet d’être choquant ?

C’est ici que l’on comprend que la force de Nuit et Brouillard venait moins des documents que du montage, de la science avec laquelle les faits bruts, réels, hélas ! étaient offerts au regard, dans un mouvement qui est justement celui de la conscience lucide, et quasi impersonnelle, qui ne peut accepter de comprendre et d’admettre le phénomène. On a pu voir ailleurs des documents plus atroces que ceux retenus par Resnais ; mais à quoi l’homme ne peut-il s’habituer ? Or on ne s’habitue pas à Nuit et Brouillard ; c’est que le cinéaste juge ce qu’il montre, et il est jugé par la façon dont il le montre.

Autre chose : on a beaucoup cité, à gauche et à droite, et le plus souvent assez sottement, une phrase de Moullet : la morale est affaire de travellings (ou la version de Godard : les travellings sont affaire de morale) ; on a voulu y voir le comble du formalisme, alors qu’on en pourrait plutôt critiquer l’excès « terroriste », pour reprendre la terminologie paulhanienne. Voyez cependant, dans Kapo, le plan où Riva se suicide, en se jetant sur les barbelés électrifiés ; l’homme qui décide, à ce moment, de faire un travelling-avant pour recadrer le cadavre en contre-plongée, en prenant soin d’inscrire exactement la main levée dans un angle de son cadrage final, cet homme n’a droit qu’au plus profond mépris. On nous les casse depuis quelques mois avec les faux problèmes de la forme et du fond, du réalisme et de la féerie, du scénario et de la « misenscène », de l’acteur libre ou dominé et autres balançoires ; disons qu’il se pourrait que tous les sujets naissent libres et égaux en droit ; ce qui compte, c’est le ton, ou l’accent, la nuance, comme on voudra l’appeler – c’est-à-dire le point de vue d’un homme, l’auteur, mal nécessaire, et l’attitude que prend cet homme par rapport à ce qu’il filme, et donc par rapport au monde et à toutes choses : ce qui peut s’exprimer par le choix des situations, la construction de l’intrigue, les dialogues, le jeu des acteurs, ou la pure et simple technique, « indifféremment mais autant ». Il est des choses qui ne doivent être abordées que dans la crainte et le tremblement, la mort en est une, sans doute ; et comment, au moment de filmer une chose aussi mystérieuse ne pas se sentir un imposteur ? Mieux vaudrait en tout cas se poser la question, et inclure cette interrogation, de quelque façon, dans ce que l’on filme ; mais le doute est bien ce dont Pontecorvo et ses pareils sont le plus dépourvus.

Faire un film, c’est donc montrer certaines choses, c’est en même temps, et par la même opération, les montrer par un certain biais ; ces deux actes étant rigoureusement indissociables. De même qu’il ne peut y avoir d’absolu de la mise en scène, car il n’y a pas de mise en scène dans l’absolu, de même le cinéma ne sera jamais un “langage” : les rapports du signe au signifié n’ont aucun cours ici, et n’aboutissent qu’à d’aussi tristes hérésies que la petite Zazie. Toute approche du fait cinématographique qui entreprend de substituer l’addition à la synthèse, l’analyse à l’unité, nous renvoie aussitôt à une rhétorique d’images qui n’a pas plus à voir avec le fait cinématographique que le dessin industriel avec le fait pictural ; pourquoi cette rhétorique reste-t-elle si chère à ceux qui s’intitulent eux-mêmes “critiques de gauche”? – peut-être, somme toute, ceux-ci sont-ils avant tout d’irréductibles professeurs ; mais si nous avons toujours détesté, par exemple, Poudovkine, De Sica, Wyler, Lizzani, et les anciens combattants de l’Idhec, c’est parce que l’aboutissement logique de ce formalisme s’appelle Pontecorvo. Quoiqu’en pensent les journalistes express, l’histoire du cinéma n’entre pas en révolution tous les huit jours. La mécanique d’un Losey, l’expérimentation new-yorkaise ne l’émeuvent pas plus que les vagues de la grève la paix des profondeurs. Pourquoi ? C’est que les uns ne se posent que des problèmes formels, et que les autres les résolvent tous à l’avance en n’en posant aucun. Mais que disent plutôt ceux qui font vraiment l’histoire, et que l’on appelle aussi « hommes de l’art »? Resnais avouera que, si tel film de la semaine intéresse en lui le spectateur, c’est cependant devant Antonioni qu’il a le sentiment de n’être qu’un amateur ; ainsi Truffaut parlerait-il sans doute de Renoir, Godard de Rossellini, Demy de Visconti ; et comme Cézanne, contre tous les journalistes et chroniqueurs, fut peu à peu imposé par les peintres, ainsi les cinéastes imposent-ils à l’histoire Murnau ou Mizoguchi… »

Texte commenté lors de la séance du 27 mai 2010 de l’atelier “l’art est-il politique?”

http://www.univ-conventionnelle.com/Le-travelling-de-Kapo-De-l-abjection–texte-integral_a200.html

A Parigi si vivono i terribili e oscuri giorni dell’occupazione nazista; gli ebrei vengono quotidianamente prelevati dalle loro abitazioni nel ghetto e caricati sui lugubri treni della morte, diretti verso la Germania e i campi di concentramento. A questa drammatica sorte non sfuggono nemmeno la giovane Nicole (Susan Strasberg) e i suoi amati genitori. Catapultata d’improvviso nella realtà apocalittica del lager, la timida e graziosa fanciulla riuscirà a sopravvivere grazie all’aiuto di un medico del campo che le fornirà la divisa con il triangolo nero, quello dei “ladri”, decisamente meno sconveniente del distintivo portato dagli ebrei, destinati a morte sicura.

La vita nel campo è dura e sopravvivere è l’unica preoccupazione di ogni giorno, per farlo, spesso, bisogna sopraffare il prossimo, le normali regole della convivenza civile non valgono più. Nicole comprende questo al punto di accettare l’incarico di Kapo, le terribili sorveglianti, aguzzine delle loro stesse compagne. Il degrado morale oltre che fisico a cui la ragazza si abbandona verrà riabilitato in uno straziante finale nel quale la giovane troverà la forza di un estremo sacrificio nell’amore verso Sasha (Laurent Terzieff), un giovane soldato russo prigioniero nel campo.

Kapo è un film del 1959 diretto mirabilmente da Gillo Pontecorvo che qui si presentava con il suo secondo lungometraggio in carriera. Sceneggiato insieme all’amico Franco Solinas, il regista prese lo spunto per raccontare questa storia dalla lettura di Se questo è un uomo di Primo Levi. Infatti il tema dominante del film è proprio quell’assuefazione all’orrore di cui lo scrittore piemontese parla e descrive nel suo celeberrimo libro.

Pontecorvo narra la storia della giovane Nicole come fosse una sorta di parabola, in cui la giovane ed innocente fanciulla buona e  generosa tanto da cedere il suo misero rancio alle compagne più anziane, cede alla paura e all’orrore dilagante corrompendo la propria anima e perdendo ogni rimasuglio di umanità. Una degradazione morale che inizia rubando una semplice patata ad una compagna e che continua gradualmente sino ad accettare l’incarico più infame, quello di Kapò, le temute e ignobili sorveglianti del campo.

Il regista pisano ci racconta questa storia con il suo abituale tratto documentaristico, fedele strumento per fare quel cinema-verità a cui rimarrà legato per tutta la sua carriera. Come lui stesso racconta, per raggiungere un livello di realismo simile a quello dei cine-giornali del tempo, venne usata una particolarissima tecnica conosciuta come “fotografia controtipata” adatta a rendere un’immagine più granulosa ed un effetto meno cinematografico.

Nel cast artistico spiccano le interpretazioni di Didi Perego ed Emanuelle Riva, quest’ultima reduce dal successo di Hiroshima mon amour, così come di Laurent Terzieff nel ruolo del protagonista maschile Sasha, colui che ridarà amore e dignità a Nicole. Susan Strasberg, figlia di Lee Strasberg fondatore dell’Actor Studio, fu invece una scelta difficile per Pontecorvo e anche sul set non mancarono momenti di difficoltà legati ad una capacità interpretativa non sempre naturale e immediata. Il risultato è comunque notevole in quanto la giovane Susan riesce a trasmettere quel senso di innocente candore che progressivamente lascia il posto all’insensibilità e al maligno opportunismo necessario per sopravvivere nel campo.

Da buon compositore mancato (i genitori non gli fecero concludere gli studi al conservatorio) Gillo Pontecorvo riserba un ruolo fondamentale alla musica che scandisce la varie sequenze narrative in modo estremamente efficacie, accompagnando con note prima dolci e melanconiche e poi grevi e drammatiche la degradazione morale della protagonista.

Convintosi solo dopo lunghe discussioni con il suo co-sceneggiatore, Pontecorvo introduce nell’ultima parte del film la storia d’amore tra Nicole ed il bel soldato russo Sasha, una scelta narrativa inizialmente osteggiata dal regista poco propenso a mescolare l’amore tra due giovani nel contesto drammatico del film.

L’amore per il prigioniero russo sarà la leva per riabilitarsi come essere umano in quanto grazie e per lui Nicole deciderà di sacrificarsi ed aiutare così la fuga dal campo. Pontecorvo avrebbe preferito un altro finale, con la protagonista ancora viva e “sola” in mezzo alle compagne festanti per la liberazione, accentuandone così l’alienazione morale.

Forse convinto da una produzione più orientata ad un finale più spettacolare e ad effetto, il regista ha in fine optato per la morte di Nicole e l’intima disperazione di Sasha che dimentica il successo di tutti e soffre per la donna amata.

Ma è evidente che la relazione tra i due giovani sia estremamente marginale nel contesto di un film che ha ben altri scopi e finalità; una delle più fedeli e crude testimonianze cinematografiche riguardo il tema dell’Olocausto, in cui Gillo Pontecorvo tocca uno dei punti più alti, se non il più alto, della sua importante carriera. Un realismo forte e non sempre compreso dalla critica del tempo, il critico e regista francese Jacques Rivette definì “un’abiezione” la carrellata in avanti sul cadavere imprigionato nei fili dell’alta tensione, ma che in realtà rimane ad oggi uno delle migliori testimonianze su un tema tanto battuto ma sempre attuale come quello dell’Olocausto. Un film da vedere e rivedere periodicamente per non dimenticare l’orrore a cui la follia dell’uomo può portare, per mantenere vigile l’attenzione verso ogni rigurgito di odio e intolleranza.

http://www.cinefilos.it/rubriche/cinema-e-storia/kapo-il-capolavoro-di-gillo-pontecorvo-sugli-orrori-dellolocausto-15330





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L’Onda (Die Welle, 2008) – Nazisti per una settimana



A Rainer, come il prof Wenger viene chiamato amichevolmente dagli alunni, viene una bella pensata. Perché, al posto di noiose lezioni di storia, non far sperimentare direttamente agli studenti come nasce un sistema autocratico, una dittatura, facendo loro rivivere la storia in prima persona? Come farlo partendo da cose semplici? Come condizionarli ad agire esattamente come i nazisti?
L’Onda (Die Welle) è un film tedesco del 2008,  che mostra come sia possibile trasformare in pochissimi giorni una classe delle medie superiori in un movimento autocratico, i cui membri sono disposti a tutto, pronti anche ad espellere e sacrificare i propri amici. Nato come semplice “simulazione” di una dittatura all’interno della solita noiosa “settimana a tema”, l’esperimento del prof. Wenger,  in passato un punk anarchico a Berlino, ben presto degenera oltre i limiti “didattici” entro i quali egli aveva immaginato di svilupparlo per stimolare la curiosità e il coinvolgimento degli studenti. Gli studenti invece si immedesimano talmente tanto, ad eccezione di un paio di ragazze, da accettare e riprodurre spontaneamente tutti i meccanismi tipici dei movimenti autocratici, dalla cieca obbedienza al Fuhrer (il Capo), identificato nello stesso “signor Wenger” alla delazione, dall’espulsione di chi non si allinea all’aggressione fisica contro gli avversari.

Il film si rifà a un esperimento reale nella Cubberley High School di Palo Alto, California, nel 1967, denominato “La Terza Onda”, da cui è stato tratto anche un romanzo di Morton Rhue, The Wave (1988). . Sia nella realtà che nella fantasia, l’esperimento (o simulazione) viene scandito implacabilmente giorno dopo giorno dai dispositivi di potere che il prof elabora e impartisce, riprendendoli tali e quali dalle sue letture sul regime nazista. Anzitutto nominando un Fuhrer, al quale si deve rispetto incondizionato.

Il secondo passo è l’imposizione di una disciplina, il potere attraverso la disciplina, Macht durch Disziplin. La disciplina può esser imposta in diversi modi: attraverso posizioni fisiche o esercizi collettivi, il modo di star seduti, il controllo del respiro, la concisione, la concentrazione, l’autorizzazione a parlare, la ripetizione del mantra, o l’espulsione di chi non partecipa.

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Dopo la disciplina, è la volta dell’identità di gruppo, il potere attraverso l’unità (o comunità), Macht durch Gemeinschaft. Attraverso la marcia ritmata la classe diventa un corpo unico, la vera forza del gruppo. Da cosa si riconosce l’identità di gruppo ? “Dallo spirito di gruppo, sig. Wenger” risponde prontamente Tim, uno degli studenti più motivati. E dal punto di vista visivo? Dalle uniformi.  Le uniformi eliminano le differenze sociali, per Lisa, o le individualità, per Mona, la più scettica, che poi si trasferirà a un altro corso. Verrà quindi introdotta una specie di divisa, le camicie bianche. Sorpreso egli stesso dal coinvolgimento attivo degli studenti, Wenger riteneva che lo spirito di gruppo, come la disciplina, doveva essere sperimentato direttamente per poter essere compreso. Egli stesso era parte dell’esperimento.

Il terzo giorno, mercoledì, viene scelto il nome e fra i tanti proposti (Squadra, d’assalto, Club dei visionari, Tsunami, etc.) la scelta cade su L’Onda (Die Welle) (nell’esperimento originario il nome derivava dal saluto, che nel film viene inventato dopo; il saluto, creato direttamente dal prof. Jones,  venne chiamato The Third Wave (La Terza Onda) in quanto assomigliava a un’onda, anzi alla “terza onda” che sarebbe quella finale e più grande). Il saluto era un segnale di riconoscimento riservato soltanto ai membri dell’Onda, anche all’esterno della scuola.

Dopo la scelta del nome, viene il logo, disegnato da Sinan. Infine il terzo fondamentale motto, il potere attraverso l’azione, che nel film comprende ogni mezzo di diffusione propagandistica:  un sito myspace, spillette, tatuaggi, cartoline, cappellini, picnic, ma soprattutto il logo dell’Onda graffitato in tutta la città. Quando al quarto giorno viene inventato il saluto dell’Onda, l’identità e l’appartenenza di gruppo è ormai completamente rafforzata. Entrano a far parte del movimento molti nuovi membri, ma allo stesso tempo cresce l’insofferenza di Karo, l’unica studentessa rimasta ad opporsi al folle esperimento del prof Wenger, cui rimprovera di aver perso completamente il totale controllo della situazione. Karo prepara il volantino, Fermate l’Onda!,che verrà diffuso durante la partita di pallanuoto. In una rissa con gli anarchici, Tim estrae la pistola e minaccia il loro capo.

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L’Onda aumenta rapidamente il tasso di aggressività generale contro gli altri, non solo durante la partita di pallanuoto, ma anche nei rapporti sentimentali. Rainer litiga con la moglie, (“In pochi giorni sei diventato il re degli stronzi!”), e di Marco con Karo: “Ti dava fastidio, eh? non ci saresti stata tu sotto i riflettori”. “Idiota!”. Marco va allora a casa di Rainer, “Abbiamo litigato. Tutta questa storia mi ha fatto diventare un altro. Io amo Karo, l’amo eppure l’ho picchiata. Questa pseudo disciplina è soltanto una stronzata fascista, devi fermarla subito, Rainer!”. “M’inventerò qualcosa”.

Ormai anche Wenger capisce che è ora di porre termine all’”esperimento”, all’onda, che sembra essere andata fuori controllo. Fino al tragico epilogo in cui Tim, uno dei ragazzi più coinvolti fino alla totale identificazione, si suicida quando vede crollare il suo sogno, quella nuova comunità in cui aveva creduto con tutto se stesso.

Nell’ultima drammatica riunione a porte chiuse, prima del disvelamento finale, il “signor Wenger” fa l’apologia del movimento. Dopo aver letto i temi svolti da alcuni studenti, entusiasti della loro nuova appartenenza di gruppo, inizia un discorso assai familiare di questi giorni in Italia:

Mi ha colpito l’effetto che ha avuto su di voi l’Onda, ed è per questo che penso che il progetto non debba finire qui. La Germania sta andando di male in peggio. Noi siamo i falliti della globalizzazione. E i politici vogliono farci credere che una maggiore efficienza ci aiuterà ad uscire dalla crisi. Ma i politici sono i burattini dell’economia. Dicono che la disoccupazione è in calo, e la bilancia commerciale in attivo. Ma la verità è un’altra. I poveri sono sempre più poveri, e i ricchi sempre più ricchi. L’unica vera grande minaccia è il terrorismo, un terrorismo che noi stessi abbiamo alimentato  attraverso l’ingiustizia che facciamo finta di non vedere. E così mentre giorno dopo giorno noi distruggiamo il nostro pianeta, i ricchi e i potenti si fregano compiaciuti le mani. E costruiscono satelliti per poter osservare tutto dall’alto!”

Marco: “Non capite che sta facendo? Vi vuole manipolare tutti…E’ l’Onda il vero problema”.

Rainer: “No! L’Onda è l’unica soluzione per uscire da questa grave crisi. Uniti possiamo fare tutto. Noi oggi abbiamo la grande opportunità di scrivere la storia…Non riuscirai a fermarci. Da qui l’Onda travolgerà l’intera Germania, (applausi),  e chiunque tenterà di ostacolarci sarà spazzato via dall’Onda!”…Portate qui, il traditore!”.

Marco viene trascinato sul palco. E a questo punto Wenger, fra la costernazione generale, compie il rovesciamento che distrugge l’incantesimo:

Sono tutte cose che si fanno in una dittatura! Vi siete accorti di quel che è successo? …Vi ricordate ancora di quel che avevo chiesto all’inizio della settimana? Se nel nostro paese sia possibile un’altra dittatura. E’ appena successo, il fascismo! Ci siamo ritenuti esseri speciali, migliori di tutti gli altri, ma la cosa peggiore però, è che abbiamo escluso dal gruppo chi non la pensava come noi, li abbiamo feriti, e non voglio immaginare cos’altro avremmo potuto fare. Io mi scuso con tutti voi, siamo andati oltre. Io sono andato oltre. Deve finire qui”.

http://artobjects.wordpress.com/2013/09/01/londa-die-welle-2008-nazisti-per-una-settimana/

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