Sunrise: A Song of Two Humans (1927) Aurora de F. W. Murnau (Sunrise – 1927)

Aurora

di Friedrich Wilhelm Murnau

drammatico, Usa (1927)

 di Matteo De Simei

Forse davvero il cinema ha visto dissolvere la propria essenza con la nascita del sonoro. Toccò ad Al Jolson, professione cantante di jazz, radere al suolo l’imponente torre di Babele su cui il cinema si era elevato sin dalla sua origine. Con essa crollava un’intera istituzione basata su un linguaggio universale e su un potenziale figurativo capace ancora oggi (soprattutto oggi) di suscitare nello spettatore sensazioni uniche, indescrivibili.

Era il 1927. Nello stesso anno, mentre il mondo intero viveva gli ultimi fasti del periodo d’oro del muto, vide la luce “Aurora”, opera di acuto spessore lirico ed intimistico, nonché testamento per antonomasia dell’intera corrente cinematografica degli anni venti.

“Aurora” è inequivocabilmente figlia dell’espressionismo tedesco degli anni precedenti. Non solo perché Murnau è il capostipite insieme ai colleghi Wiene e Lang della scuola di Weimar, ma anche perché la sceneggiatura è guarda caso tra le mani di un certo Carl Mayer, già sceneggiatore di imperiosi capolavori come “Il gabinetto del dottor Caligari“, “La rotaia” e “L’ultima risata”, quest’ultimo diretto dallo stesso Murnau. Nonostante l’opera abbia segnato per la prima volta il passaggio del regista dalla produzione autoctona alla corte hollywoodiana, è impossibile non riuscire a notare tra le sue inquadrature l’impronta espressionista di matrice tedesca. Il marito e padre di famiglia, che urla tutta la sua disperazione verso la mdp pensando di aver perso la sua amata, sembra quasi aver ispirato lo sguardo alienato e sofferente di Renèe Falconetti in “La passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer.
E se in Murnau l’immagine raggiunge il più alto grado di intensità espressiva (ha fatto storia il primo piano del conte Orlok, impersonificato dal grande Max Schreck in “Nosferatu”) , in “Aurora” il regista nativo di Bielefeld arriva a toccare anche molteplici tecniche di ripresa che rendono la pellicola un piccolo gioiello carico di virtuosismo. Oltre alla fluidità della mdp, infatti, si evidenzia un uso smisurato della sovrimpressione (che influenzerà non poco i sperimentalismi di Vertov), delle sfocature, delle dissolvenze e dei flashback. Un’altra caratteristica imprescindibile del muto, qua elevata al quadrato, è rappresentata dalla teatralità dei personaggi, efficacissima nel manifestare apertamente sentimenti e pulsioni e semplicemente perfetta nel riuscire a limitare l’uso della comunicazione verbale, delineata dalla didascalia (altro grande merito del regista).
E come una grande opera di teatro che si rispetti, il libretto di Murnau trasuda romanticismo, poesia nelle immagini, una spiccata liricità dei movimenti, ma soprattutto una capacità di lasciare un’impronta emotiva devastante sullo spettatore.

“Aurora” è la storia di tutte le storie d’amore, un sogno vissuto ad occhi aperti e in bianco e nero (doveroso è il confronto con il tema amore-sogno vissuto in “L’atalante” di Jean Vigo), insomma un’esperienza sensoriale a trecentosessanta gradi.
Un cane che smaniosamente riesce a slegarsi dalle catene e raggiungere i due sposi su una barca. Una scena apparentemente superflua ma che racchiude invece tutta la prima parte del film giocata sul dramma di un amore svanito, di un’attrazione fatale ma a cui il destino è deciso a riproporre una seconda possibilità. Murnau si serve semplicemente di sequenze come questa per mettere in cornice il senso di solitudine e di tragicità che pervade il primo atto della vicenda.
Nella seconda parte la città lascia spazio alla fattoria e comincia un percorso iniziatico sull’amore da antologia: la commovente sequenza del matrimonio ma soprattutto la magnifica scena del bacio in strada tra i clacson delle auto nel traffico (e contornata da una splendida sovrimpressione città/natura).
La città offre distensione, una pace interiore ritrovata nei due protagonisti e il regista sfrutta a pieno la situazione che si viene a creare inserendo simpatiche gag come la sequenza che vede un imperterrito uomo di buon costume sollevare più volte invano la spallina della propria donna, ma anche sequenze notevolmente più profonde come la gioia di vivere che traspira dalla strabiliante sequenza della visita al fotografo e del conseguente incidente con una statuetta.
Il tema del viaggio (e del ricongiungimento matrimoniale) si consolida definitivamente all’interno di una barbieria, (luogo in cui al protagonista viene eliminata la barba, un’allegoria che corrisponde forse all’inizio di una nuova vita) e tra le note della danza contadina del “midsummer” suonata al luna park e ballata con fervore dai due innamorati.
Fino alla tempesta e al tragico finale, che rievoca il quadro di apertura: “la vita è quasi sempre la stessa… A volte amara, a volte dolce”. E questa volta non potrebbe essere più dolce perché Mayer modifica con un happy ending impeccabile (e che raggiunge l’acme dell’esplosione emotiva) la conclusione al soggetto originale di Hermann Sudermann.
L’evoluzione circolare della pellicola (fattoria-città-fattoria) sancisce la vittoria di un ritorno alle origini genuine e contadine. Per contro, Murnau marca con un pietoso primo piano il volto dimesso della sconfitta, quello della donna-amante di città, dichiarando concluse le vacanze evocate con tanto entusiasmo nelle inquadrature iniziali.

Il resto è storia ormai nota. L’interesse per il neonato cinema sonoro, la conseguente crisi del pubblico che investirà soprattutto la distribuzione americana (e dovuta allo sviluppo folgorante della radio, dei fonografi e del telefono), l’emergente società dei fratelli Warner, la stessa che produrrà “Il cantante di jazz”. A fronte di tutto ciò tra il 1929 e il 1930 la proiezione dei film muti si interromperà del tutto.
Di quel triste periodo di transizione non ci rimane che il pathos testamentario di “Aurora”, novanta minuti di pura poesia che la mdp trasfigura in immagini con la stessa magia con cui un prestigiatore farebbe sbucare incessantemente dal suo cilindro decine e decine di conigli: la poesia di un maialino ebbro di vino o quella di una cerchia di angeli che fanno capolino sul capo chino di un innamorato. E ancora la poesia di un uomo che vede addormentarsi fra le sue braccia il corpo inerme della sua donna, la poesia di un ritorno a casa in barca e con il chiaro di luna dopo un’intera giornata passata a cercare di descrivere che cosa sia l’amore…

Vincitore di tre premi Oscar come miglior film e produzione artistica (categoria estinta sin dall’edizione successiva per essere inglobata in quella di miglior film), miglior fotografia della coppia Rosher-Struss e miglior attrice protagonista (Janet Gaynor).
Ma forse il premio più prestigioso coincide con il pensiero di un mostro sacro della Nouvelle Vague e dell’intera cinematografia mondiale che corrisponde al nome di François Truffaut, che su “Les Cahiers du Cinema” definì “Sunrise” semplicemente il più bel film della storia del cinema.

http://www.ondacinema.it/film/recensione/aurora.html



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