Zibaldone di pensieri : da 905 a 926 – da 946 a 950 by Giacomo Leopardi

[905] Ma da che il progresso dell’incivilimento o sia corruzione, e le altre cause che ho tante volte esposte, hanno estinto affatto il popolo e la moltitudine, fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni voce, ogni forza, ogni senso di se stesse, e per conseguenza concentrato il potere intierissimamente nel monarca, e messo tutti i sudditi e ciascuno di essi, e tutto quello che loro in qualunque modo appartiene, in piena disposizione del principe; allora e le guerre son divenute più arbitrarie, e le armate immediatamente cresciute. Ed è cosa ben naturale, e non già casuale, ma conseguenza immancabile e diretta della natura delle cose e dell’uomo. Perchè quanto un uomo può adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il principe può adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e tutto quanto può la nazione, segue ch’egli l’adopri effettivamente senz’altri limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze. Il fatto lo prova. Luigi 14. o primo, o uno de’ primi di quei regnanti che appartengono all’epoca della perfezione del dispotismo, diede subito l’esempio al mondo, della moltitudine delle armate. Dato che sia questo esempio il seguirlo è necessario. Perchè siccome oggi la grandezza di un’armata è arbitraria bensì, ma dipende, e deve corrispondere quanto si possa a quella del nemico, [906] così se quella del nemico è grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè non voleste, facciate che la vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza la nemica; nello stesso modo che la potreste far piccola, anzi menomissima per le stesse ragioni, nel caso opposto, come ho detto p. 902. Infatti l’esempio di Luigi 14. fu seguito sì da’ principi suoi nemici, sì da Federico secondo, il filosofo despota, e l’autore di molti nuovi progressi del despotismo, da lui felicemente coltivato e promosso. Ed egli parimente obbligò alla stessa cosa i suoi nemici. Finalmente la cosa è stata portata all’eccesso da Napoleone, per ciò appunto ch’egli è stato l’esemplare della forse ultima perfezione del despotismo. Non però quest’eccesso è l’ultimo a cui vedremo naturalmente e inevitabilmente arrivare la cosa.

Dico inevitabilmente, supposti i progressi o la durata del dispotismo, e del presente stato delle nazioni, le quali due cose, secondo l’andamento dei tempi, il sapere che regna ec. non pare che per ora, possano far altro che nuovi progressi, o pigliar nuove radici. E in questo caso, dico inevitabilmente, sì per l’egoismo naturale dell’uomo, e conseguentemente del principe, egoismo il cui effetto è sempre necessariamente proporzionato al potere dell’egoista; sì ancora perchè dato che sia l’esempio, e preso il costume questo andamento, la cosa si rende necessaria anche a chi non la volesse. E [907] che ciò sia vero, osservate. Come si potrebbe rimediare a questo costume, ancorchè egli sia in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla volontà? Con un accordo generale dei principi, di tutti coloro che possono mai guerreggiare? Non ignoro che questo accordo si tentò, o si suppose che si tentasse o proponesse al Congresso di Vienna. E certo l’occasione era l’ottima che potesse mai darsi, ed altra migliore non si darà mai. So però che nulla se n’è fatto. Forse avranno conosciuta l’impossibilità, che realmente vi si oppone. Primo, qual è oggi la guarentia de’ trattati, se non la forza o l’interesse? Qual forza dunque o quale interesse vi può costringere a non cercare il vostro interesse con tutte le forze che potete? Secondo, (e questo prova più immediatamente che, anche volendo, non si può rimediare) chi si fida di un trattato precedente, in tempo di guerra? Chi non conosce quello che ho detto qui sopra nel primo luogo? e generalmente, chi non conosce la natura universale e immutabile dell’uomo? Se dunque il principe conosce tutto ciò, dunque sospetta del suo nemico; dunque anche non volendo, è obbligato a tenersi e provvedersi in modo ch’egli sappia resistere quanto più si può, a qualunque forza che il nemico voglia impiegare per attaccarlo. Chi è colui che possa levar mille uomini, e ne levi cento, non sapendo se il nemico l’assalterà [908] con cento o con mille, anzi avendo più da creder questo che quello? E quando si fosse fatto l’accordo generale, e osservatolo per lungo tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio proposto a chi improvvisamente rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo tale non mancherebbe. Ciò lo metterebbe in pieno possesso del suo nemico, e dopo un esempio solo di questa sorta, ognuno diffiderebbe, nessuno vorrebbe sull’incertezza arrischiare il tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume. E ciò si deve intendere non meno in tempo di guerra che di pace, essendo sempre continuo il pericolo che i governi portano l’uno dall’altro. E ciò ancora è manifesto dal fatto, e dalle grandi forze che si tengono ora in tempo di pace, così che non c’è ora un tempo dove un paese resti disarmato, anzi non bene armato, a differenza sì de’ tempi antichi, sì de’ secoli cristiani anteriori a questi ultimi.

Da tutto ciò segue che le armate non solo non iscemeranno più, ma cresceranno sempre, cercando naturalmente ciascuno di superare l’altro con tutte le sue forze, e le sue forze stendendosi quanto quelle della nazione: che quindi le nazioni intiere, come fra gli antichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli antichi, spontaneamente, e di piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate per marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi essendo in piena indifferenza, e forse anche bramando di esser vinte (perchè, ed anche questo è notabile, perduto l’amor di patria, e l’indipendenza interna, la novità del padrone, e delle leggi, governo ec. non solo non è odiata nè temuta, ma spesso desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per l’altrui; non per il ben comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno più di qualunque altro, [909] e più assai di chi combatteranno; insomma non secondo natura, nè per effetto naturale, ma contro natura assolutamente. E lo stesso dite di tutte le altre conseguenze del dispotismo, sì rispetto alla guerra, come indipendentemente da essa. Cioè i popoli, sì per causa delle proprie e delle altrui armate, sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti, disanguati, privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l’agricoltura, collo strapparle i coltivatori, e collo spogliarla del prodotto delle sue fatiche; inceppato e scoraggiato il commercio e l’industria, collo impadronirsi che farà del loro frutto, il sempre crescente dispotismo ec. ec. ec. In somma le nazioni, senza odiarsi come anticamente, saranno però come anticamente desolate, benchè senza tumulto, e senza violenza straordinaria; lo saranno dall’interno più che dall’estero, e da questo ancora, secondo le circostanze ec. ec. E tutto ciò non già verisimilmente, o senza una stabile e necessaria cagione, ma per conseguenza immancabile della natura umana, la quale non perchè sia diversa e peggiore ne’ principi, ma semplicemente come natura umana, li porterà inevitabilmente a tutto questo; e il fatto già lo dimostra in moltissime e grandissime parti. E tutto ciò senza ricavarne quell’entusiasmo, quel movimento, quelle virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza dei mali e delle fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica e individuale, che derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi per lo contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità, [910] il torpore, la freddezza, l’inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il tedio, lo stato di morte individuale, e generale delle nazioni. Ecco i vantaggi dell’incivilimento, dello spirito filosofico e di umanità, del diritto delle genti creato, dell’amore universale immaginato, dell’odio scambievole delle nazioni distrutto, dell’antica barbarie abolita.

Queste mie osservazioni sono in senso tutto contrario a quello dell’Essai ec. loc. cit. da me p. 888 il quale fa derivare la moltitudine delle armate moderne dallo spirito ed odio nazionale, ed egoismo delle nazioni, ed io (credo molto più giustamente) dalla totale ed ultima estinzione di questo spirito, e quindi di quest’odio, e di questo egoismo.

6. Non solamente le virtù pubbliche, come ho dimostrato, ma anche le private, e la morale e i costumi delle nazioni, sono distrutti dal loro stato presente. Dovunque ha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più, cioè ne’ popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni d’integrità. Quest’è una conseguenza naturale dell’amor patrio, del sentimento che le nazioni, e quindi gl’individui hanno di se stessi, della libertà, del valore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù non ha fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la virtù, e regna il vizio, nello stesso modo che la dappocaggine e la viltà. Queste son cose evidenti nelle storie, ed osservate da tutti i filosofi, e politici. Ed è tanto vero; che le virtù private si trovano sempre in proporzione coll’amor patrio, e colla forza e magnanimità di una nazione; e l’indebolimento di queste [911] cose, colla corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre compagna della perdita dell’amor patrio, della indipendenza, delle nazioni, della libertà interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo sommamente e con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull’amor patrio, e l’amor patrio sulle illusioni e sulla morale. È cosa troppo nota qual fosse la depravazione interna de’ costumi in Francia da Luigi 14. il cui secolo, come ho detto, fu la prima epoca vera della perfezione del dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino alla rivoluzione. La quale tutti notano che ha molto giovato alla perduta morale francese, quanto era possibile 1. in questo secolo così illuminato, e munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2. in tanta, e tanto radicata e vecchia depravazione, a cui la Francia era assuefatta: 3. in una nazione particolarmente ch’è centro dell’incivilimento, e quindi del vizio: 4. col mezzo di una rivoluzione operata in gran parte dalla filosofia, che volere o non volere, in ultima analisi è nemica mortale della virtù, perch’è amica anzi quasi la stessa cosa colla ragione, ch’è nemica della natura, sola sorgente della virtù. (30. Marzo-4. Aprile 1821).

Analogo al pensiero precedente è questo che segue. [912] È cosa osservata dai filosofi e da’ pubblicisti che la libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l’uso della schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l. 3. ch. 15. ed altri. Puoi vedere anche l’Essai sur l’indifférence en matière de Religion, ch. 10. nel passo dove cita in nota il detto luogo di Rousseau insieme con due righe di questo autore.) Dal che deducono che l’abolizione della libertà è derivata dall’abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi, questo accade perchè non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è falsa, perchè la libertà s’è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e che ha toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che l’abolizione della schiavitù è provenuta dall’abolizione della libertà; o vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.

La conseguenza, dico, è falsa: ma il principio della necessità della schiavitù ne’ popoli precisamente liberi, è verissimo. Ecco in ristretto il fondamento e la sostanza di questa proposizione.

L’uomo nasce libero ed uguale agli altri, e tale egli è per natura, e nella stato primitivo. Non così nello [913] stato di società. Perchè in quello di natura, ciascuno provvede a ciascuno de’ suoi bisogni e presta a se medesimo quegli ufficii che gli occorrono, ma nella società ch’è fatta pel ben comune, o ella non sussiste se non di nome, ed è al tutto inutile che gli uomini si trovano insieme, ovvero conviene ch’essi si prestino uffizi scambievoli, e provvedano mutuamente a’ loro bisogni. Ma ciascuno a ciascun bisogno degli altri non può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola, e inutile, che io per esempio pensassi intieramente a te, tu intieramente a me, potendo nello stesso modo viver separati, e far ciascuno per noi. Dunque segue la necessità delle diverse professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente, ovvero tali quali li avrebbe esercitati l’individuo anche nella condizione naturale; altri non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e conducenti ai comodi e vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita sociale, e intendo anche quei comodi primi primi, che ora passano per necessità; altri finalmente resi effettivamente necessari dalla stessa società come sono i mestieri che provvedono a cose divenuteci indispensabili per l’assuefazione, quello di chi insegna, quello massimamente di chi provvede alle cose pubbliche e veglia al bene e all’esistenza precisa di essa società; quello delle persone che difendono il buono dal cattivo (giacchè nata [914] la società nasce il pericolo del debole rispetto al forte) e la società istessa dalle altre società ec. ec. ec. In somma, o la società non esiste assolutamente, o in essa esiste necessariamente la differenza dei mestieri e dei gradi.

Questo porterebbe le nazioni alle gerarchie, e così accadde infatti da principio, e accade ne’ popoli ancora non inciviliti, siccome ne’ civili. Ma corrotta appoco appoco la società, e introdotto l’abuso del potere; e quindi i popoli avendo scosso il giogo e ripigliata la libertà naturale, ripigliarono con ciò anche l’uguaglianza. Ed oltre che questa naturalmente vien dietro alla libertà, ho dimostrato altrove che la vera e precisa libertà non può mantenersi in una repubblica, senza tutta quella uguaglianza di cui mai possa esser capace la società.

Ma la libertà ed uguaglianza dell’uomo gli è bensì naturale nello stato primitivo; ma non conviene nè si compatisce, massime nella sua stretta nazione, collo stato di società, per le ragioni sopraddette. Restava dunque, che richiedendosi nella società che l’uomo serva all’uomo, e questo opponendosi alla uguaglianza, l’uomo di una tal società fosse servito da uomini di un’altra, o di più altre società o nazioni, ovvero da una parte di quella medesima società, posta fuori de’ diritti, de’ vantaggi, delle proprietà, della uguaglianza, della libertà di questa, insomma considerata come estranea alla [915] nazione, e quasi come un’altra razza e natura di uomini dipendente, subalterna, e subordinata alla razza libera e uguale. Ecco l’uso della schiavitù interna ne’ popoli liberi e uguali; uso tanto più inerente alla costituzione di un popolo, quanto egli è più intollerante della propria servitù, come si è veduto negli antichi. In questo modo la disuguaglianza in quel tal popolo libero veniva ad esser minore che fosse possibile, essendo le fatiche giornaliere, i servigi bassi, che avrebbero degradata l’uguaglianza dell’uomo libero, la coltura della terra ec. destinata agli schiavi: e l’uomo libero, chiunque si fosse, e per povero che fosse, restando padrone di se, per non essere obbligato ai quotidiani servigi mercenarii, che vengono necessariamente a togliere in sostanza la sua indipendenza e libertà; e non partecipando quasi, in benefizio comune della società, se non della cura delle cose pubbliche, e del suo proprio governo, della conservazione o accrescimento della patria col mezzo della guerra ec. colle sole differenze che nascevano dal merito individuale ec.

Tale infatti era la schiavitù nelle antiche repubbliche. Tale in Grecia, tale quella degl’Iloti, stirpe tutta schiava presso i Lacedemoni, oriunda di Elos (῞Eλος) terra (oppidum) o città (casi Strabone presso il Cellar. 1.967.) del Peloponneso, presa a forza da’ Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache, e ridottane tutta la popolazione in ischiavitù, sì essa come i suoi discendenti in perpetuo. Vedi l’Encyclopédie, Antiquités, art. Ilotes, e il Cellario 1.973. Tale la schiavitù presso i Romani, della quale vedi fra gli altri il Montesquieu, [916] Grandeur etc. ch.17. innanzi alla metà. Floro 3. 19. Terra frugum ferax, (Sicilia) et quodammodo suburbana provincia, latifundiis civium Romanorum tenebatur. Hic ad cultum agri frequentia ergastula, catenatique cultores, materiam bello praebuere. E quanta fosse la moltitudine degli schiavi presso ai Romani si può congetturare dalla guerra servile, e dal pericolo che ne risultò. Ne avevano i Romani, cred’io, d’ogni genere di nazioni; e Floro l.c. nomina un servo Siro cagione e capo della guerra servile; Frontone nell’ultima epist. greca, una serva Sira ec. ec. cose che si possono vedere in tutti gli scrittori delle antichità Romane. Vedi il Pignorio De Servis, e, se vuoi, l’articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di Milano 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p. 244. fine-245. principio, dove si tocca questo argomento della gran moltitudine de’ servi romani, e se ne adducono alcuni esempi e prove, e si cita il detto Pignorio che dovrebbe trovarsi nel Grevio ec. Cibale schiava Affricana è nominata nel Moretum.

E qual fosse l’idea morale che gli antichi avevano degli schiavi, si può dedurre da cento altri scrittori e luoghi, e fatti, e costumi degli antichi, ma segnatamente da questo luogo di Floro 3. 20. Enimvero servilium armorum dedecus feras. Nam et ipsi per fortunam in omnia obnoxii (scil. nobis) tamen quasi secundum hominum genus sunt, et in bona libertatis nostrae adoptantur.

Questa seconda razza di uomini serviva dunque alla uguaglianza e libertà de’ popoli antichi, in proporzione di essa libertà ed uguaglianza, e delle forze rispettive di questo o quel popolo, guerriere o pecunarie ec. [917] per fare o comperare degli schiavi. E l’antica uguaglianza e libertà, si manteneva effettivamente coll’aiuto e l’appoggio della schiavitù, ma della schiavitù di persone, che non avevano nulla di comune col corpo e la repubblica e la società di quelli che formavano la nazione libera ed uguale. Così che la libertà ed uguaglianza di una nazione, aveva bisogno, e supponeva la disuguaglianza delle nazioni, e l’una non era indipendente neppure al di dentro, se non per la soggezione di altre, o parti di altre ec.

E la verità di tutte queste cose, e come l’uso o la necessità della schiavitù in un popolo libero abbia la sua ragione immediata non nella libertà, ma precisamente nella uguaglianza interna di esso popolo, si può vedere manifestamente per questa osservazione, la quale dà molta luce a questo discorso. Arriano (Historia Indica, cap.10. sect. 8-9. edit. Wetsten. cum Expedit. Alexand., Amstelaed. 1757. cura Georg. Raphelii, p.571.) dice fra le cose che si raccontavano degl’Indiani: Eἶναι δὲ (λέγεται) χαὶ τόδε μέγα ἐν τῇ ᾽Iνδῶν γῇ, πάντας ᾽Iνδους  εἶναι ἐλευϑέρους, οὐδέ τινα δοῦλον εἶναι ᾽Iνδόν∙ τοῦτο  μὲν Λαχεδαιμονίοισιν ἐς ταυτὸ συμβαίνει χαὶ ᾽Iνδοῖσιν∙ (qua quidem in re Indis cum Lacedaemoniis convenit. Interpres.)  Λαχεδαιμονίοις μὲν γε οἰ εἵλωτες δοῦλοί εἰσιν …  χαὶ τὰ δοῦλων ἐγράζονται∙ ᾽Iνδοῖσι δὲ, οὐδὲ ἄλλος δοῦλός ἐστι, τή τι γε ᾽Iνδῶν τις (μήτοιγε nedum. Index vocum.) [918] Osservate subito che questa cosa pare ad Arriano maravigliosa e singolare. Poi osservate, che gl’indiani erano liberi, cioè parte avevano monarchie, ma somiglianti a quella primitiva di Roma ch’era una specie di Repubblica e alle antichissime monarchie greche; parte erano πόλιες αὐτόνομοι città libere e indipendenti assolutamente. (Id. ibid. c. 12. sect. 6. et 5. p. 574.) Qual era dunque la cagione di questa singolarità? Sebbene Arriano non l’osserva, ella si trova però in quello ch’egli soggiunge immediatamente. Ed è questo: Nενέμενται  δὲ οἱ πάντες ᾽Iνδοὶ ἐς ἑπτὰ μάλιστα γενεάς (Distinguuntur autem Indi omnes in septem potissimum genera hominum Interpres.), ossia, caste. (Id. ib. c. 11. sect. 1. p. 571.) La prima de’ sofisti (σοϕισταί), la seconda degli agricoltori (γεωργοί), la terza de’ pastori e bifolchi (νομέες οἱ ποιμένες τε χαὶ βουχόλοι), la quarta opificum et negotiatorum (δημιουργιχόν τε χαὶ χατηλιχὸν γένος), la quinta dei militari (οἱ πολεμισταί) i quali non avevano che a far la guerra quando bisognava, pensando gli altri a fornirli di armi, mantenerli, pagarli (tanto in tempo di guerra che di pace) e prestar loro tutti quanti gli uffizi castrensi, come custodire i cavalli, condurre gli elefanti, nettare le armi, fornire e guidare i cocchi, sicchè non restava loro che le pure funzioni guerriere; la sesta episcoporum sive inquisitorum (οἱ ἐπίσχοποι χαλεόμενοι), specie d’ispettori di polizia, i quali non potevano [919] riferir niente di falso, e nessun indiano fu incolpato mai di menzogna οὐδὲ τις ᾽Iνδῶν αἰτίην ἔσχε ψεύσασϑαι (c. 12. sect. 5. p. 574. fine); la settima finalmente οἱ . ὑπὲρ τῶν χοινῶν βουλευόμενοι ὁμοῦ τῷ βασιλεῖ, ἢ χατὰ πόλιας ὅσαι αὐτόνομοι (liberae interpres) σὺν τῇσιν ἀρχῇσιν: casta per sapienza e giustizia (σοϕίῃ χαὶ διχαιότητι) sopra tutti prestante, dalla quale si sceglievano i magistrati, i regionum praesides (νομάρχαι), i prefetti (ὕπαρχοι), i quaestores (ϑησαυροϕύλαχες), i στρατοϕύλαχες (copiarum duces), ναύαρχοί τε χαὶ ταμίαι χαὶ τῶν χατὰ γεωργίην ἔργων ἐπιστάται. (ib. c. 12. sect. 6-7.) Ecco dunque la ragione perchè gl’indiani non usavano schiavitù. Perchè sebben liberi, non avevano l’uguaglianza.

Ma come dunque senza l’uguaglianza conservavano la libertà? Neppur questo l’osserva Arriano, ma la cagione si deduce da quello ch’egli immediatamente soggiunge: (ib. sect. 8-9) Гαμέειν δέ ἐξ ἑτέρου γένεος οὐ ϑέμις. οἷον τοῖσι γεωργοῖσιν ἐχ τοῦ δημιουργιχοῦ, ἢ ἔμπαλιν: οὐδὲ δύο τέχνας ἐπιτηδεύειν τὸν αύτόν, οὐδὲ τοῦτο ϑέμις. οὐδὲ ἀμείβειν ἐξ ἑτέρου γένεος εἰς ἕτερον, οἷον γεωργιχὸν ἐχ νομέως γενέσϑαι, ἢ νομέα ἐχ δημιουργιχοῦ. Mοῦνόν σϕισιν ἀνεῖται, σοϕιστὴν ἐχ παντὸς γένεος γενέσϑαι∙ ὅτι οὐ μαλϑαχὰ τοῖσι σοϕιστῇσίν είσι τὰ πρήγματα, ἀλλὰ πάντων ταλαιπωρότατα (non mollis vita sed omnium laboriosissima. interpres.)

Questa costituzione, che si vede ancora sussistere fra [920] gl’indiani quanto alla distinzione in caste, e al divieto di passare dall’una all’altra o per matrimonii, o comunque; (1) a questa costituzione che sussiste, credo, in parte anche nella Cina, dove il figlio è obbligato ad esercitare la professione del padre, e dove i ranghi sono con molta precisione distinti; questa costituzione, di cui, se ben ricordo, si trova qualche traccia fra gli antichi Persiani nel primo o ne’ primi libri della Ciropedia; questa costituzione, di cui si trova pure qualche indizio nel popolo Ebreo, dove una sola tribù era destinata esclusivamente al Sacerdozio; questa costituzione che pare che in tutto o in parte, fosse comune, fino dagli antichissimi tempi, ai popoli dell’Asia, e si vede, se non erro, anche oggidì, in alcune nazioni delle coste dell’Affrica; questa costituzione di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche nelle altre conosciute, e massime nelle più antiche, come nell’antica costituzione di Roma ec.; questa costituzione, dico, è forse la migliore, forse l’unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà senza l’uguaglianza.

Perocchè, ponendo un freno e un limite all’ambizione, e alla cupidigia degl’individui, e togliendo [921] loro la facoltà di cangiare, e di avanzare più che tanto la loro condizione, viene a togliere in gran parte la collisione dei poteri, e le discordie interne; viene a conservare l’equilibrio, a mantenere lo stato primitivo della repubblica (che dev’essere il principale scopo degl’istituti politici), a perpetuare l’ordine stabilito ec. ec.

Vero è però, anzi troppo vero, che in questa costituzione io dubito che si possano trovare i grandi vantaggi della libertà. Si troverà la quiete, e la detta costituzione sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità è sempre nemico del bene. Ma l’entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione. Tolte le due molle dell’ambizione e della cupidigia, vale a dire dell’interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l’inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec. L’interesse proprio non essendo legato con quello della patria, o per lo meno, con quello del di lei avanzamento, giacchè questo avanzamento non sarebbe [922] legato, o certo poco legato, coll’avanzamento individuale, e di quello stesso che avesse procurato l’avanzamento della patria; di più non partecipando, se non pochissimi al governo, e quindi la moltitudine, non sentendo intimamente di far parte della patria, e d’esser compatriota de’ suoi capi; l’amor patrio in questo tal popolo, o non deve formalmente e sensibilmente esistere, o certo non dev’esser molto forte, nè cagione di grandi effetti, nè capace di spingere l’individuo a grandi sacrifizi.

Il fatto dimostra queste mie osservazioni. Perchè una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev’essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo, ancorchè libero, e quanto all’interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore. Ora ecco appunto che Arriano ci dice, come gl’indiani non solo non furono mai conquistatori, ma per una parte, da Bacco e da Ercole in poi era opinione οὐδένα ἐμβαλεῖν ἐς γῆν τῶν ᾽Iνδῶν ἐπὶ πολέμῳ, fino ad Alessandro (l. c. c. 9. sect. 10. p. 569); ed ecco la cagione per cui anche senza troppa forza nazionale, ed interna, il loro stato potè durare lungamente: per l’altra parte era pure opinione (sect. 12. p. cit.) οὐ μὲν δὴ οὐδὲ ᾽Iνδῶν τινα ἔξω τῆς οἰχείης σταλῆναι ἐπὶ πολέμῳ, διὰ διχαιότητα (ad bellum missum [923] esse. interpres). E altrove più brevemente: (c. 5. sect. 4. p. 558.) Oὖτος ὦν ὁ Mεγασϑένης λέγει, οὔτε ᾽Iνδοὺς ἐπιστρατεῦσαι οὐδαμοῖσιν ἀνϑρώποισιν, οὔτε ᾽Iνδοῖσιν ἄλλους ἀνϑρώπους.  Cioè fino ad Alessandro. Conseguenza naturale della detta costituzione, sebbene Arriano lo riferisce staccatamente, e come indipendente, e non vede la relazione che hanno queste cose tra loro. Vedi p. 943. capoverso 2.

Il fatto sta che siccome nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione libera, il che apparisce dal fatto, e da quello che ho ragionato nel pensiero antecedente ec.; così anche è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da’ suoi qualunque ingrandimenti, che distruggono appoco [appoco] l’uguaglianza, senza cui non c’è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l’ordine della repubblica; sicchè finalmente la precipitano nella obbedienza. Cosa anche questa dimostrata dal fatto. (4-6. Aprile 1821).

Siccome l’amor patrio o nazionale non è altro che una illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta la società, com’è naturale l’amor proprio nell’individuo, e posta la famiglia, l’amor di famiglia, che si vede anche ne’ bruti; così esso non si mantiene, e non produce buon frutto senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano, o che anche ne sono il fondamento. L’uomo non è sempre ragionevole, ma sempre conseguente in un modo o nell’altro. Come dunque amerà [924] la sua patria sopra tutte, e come sarà disposto nei fatti, a tutte le conseguenze che derivano da questo amore di preferenza, se effettivamente egli non la crederà degna di essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte; e molto più s’egli crederà le altre, o qualcun’altra, migliore di lei? Come sarà intollerante del giogo straniero, e geloso della nazionalità per tutti i versi, e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi al dominio forestiero, se egli crederà lo straniero uguale al compatriota, e peggio, se lo crederà migliore? Cosa indubitata: da che il nazionale ha potuto o voluto ragionare sulle nazioni, e giudicarle; da che tutti gli uomini sono stati uguali nella sua mente; da che il merito presso lui non ha dipenduto dalla comunanza della patria ec. ec.; da che egli ha cessato di persuadersi che la sua nazione fosse il fiore delle nazioni, la sua razza, la cima delle razze umane; dopo, dico, che questo ha avuto luogo, le nazioni sono finite, e come nella opinione, così nel fatto, si sono confuse insieme; passando inevitabilmente la indifferenza dello spirito e del giudizio e del concetto, alla indifferenza del sentimento, della inclinazione, e dell’azione. E questi pregiudizi che si rimproverano alla Francia, perchè offendono l’amor proprio degli stranieri, sono la somma salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo furono presso gli antichi; [925] la causa di quello spirito nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi che i francesi son pronti a fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione, e per non dipendere dallo straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene così colta ed istruita (cose contrarissime all’amor patrio), tuttavia serba ancora, forse più che qualunque altra, la sembianza di nazione. E non è dubbio che dalla forza di questi pregiudizi, come presso gli antichi, così nella Francia, doveva seguire quella preponderanza sulle altre nazioni d’Europa, ch’ella ebbe finora, e che riacquisterà verisimilmente. (6. Aprile 1821).

Si considera come sola cosa necessaria la vita, la quale anzi è la cosa meno necessaria di tutte le altre. Perchè tutte le necessità o desiderabilità hanno la loro ragione nella vita, la quale, massime priva delle cose o necessarie o desiderabili, non ha la ragione della sua necessità o desiderabilità in nessuna cosa. (6. Aprile 1821).

La superiorità della natura sopra tutte le opere umane, o gli effetti delle azioni dell’uomo, si può vedere anche da questo, che tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo nome, e in genere tutte le persone istruite di questo secolo, che è indubitatamente [926] il più istruito che mai fosse, non hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del sapere umano), e non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva già trovato da se nella società primitiva, cioè rendere all’uomo sociale quella giusta libertà ch’era il cardine di tutte le antiche politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le popolazioni non incivilite, e allo stesso tempo non barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie primitiva, e non di corruzione. (6 Aprile 1821).

……..

[946] 1. Questo è chiaro dal fatto. Qualunque pensatore, e i più grandi massimamente, hanno avuto ciascuno il loro sistema, e sono stati o formatori o sostenitori di qualche sistema, più o meno ardenti e impegnati. Lasciando gli antichi filosofi, considerate i moderni più grandi. Cartesio, Malebranche, Newton, Leibnizio, Locke, Rousseau, Cabanis, Tracy, De Vico, Kant, in somma tutti quanti. Non v’è un solo gran pensatore che non entri in questa lista. E intendo pensatori di tutti i generi: quelli che sono stati pensatori nella morale, nella politica, nella scienza dell’uomo, e in qualunque delle sue parti, nella fisica, nella filosofia d’ogni genere, nella filologia, nell’antiquaria, nell’erudizione critica e filosofica, nella storia filosoficamente considerata ec. ec.

2. Come dal fatto così è chiaro anche dalla ragione. Chi non pensa da se, chi non cerca il vero co’ suoi propri lumi, potrà forse credere in una cosa a questo, in un’altra a quello, e non curandosi di rapportare le cose insieme, e di considerare come possano esser vere relativamente fra loro, restare affatto senza sistema, e contentarsi delle verità particolari, e staccate, e indipendenti l’una dall’altra. E questo ancora è difficilissimo, perchè il fatto e la ragione dimostra, che anche questi tali si formano sempre un sistema comunque, sebbene possano forse talvolta esser pronti a cangiarlo, secondo le nuove cognizioni, o nuove opinioni che loro sopraggiungano. Ma il pensatore non è così. Egli cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose. È impossibile [947] ch’egli si contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate. E se se ne contentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e non otterrebbe nessun risultato. Lo scopo della filosofia (in tutta l’estensione di questa parola) è il trovar le ragioni delle verità. Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare. Non è ella, cosa notissima che la facoltà di generalizzare costituisce il pensatore? Non è confessato che la filosofia consiste nella speculazione de’ rapporti? Ora chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque cerca il legame delle verità (cosa inseparabile dalla facoltà del pensiero) e i rapporti delle cose; cerca un sistema; e chiunque è passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha trovato o creduto di trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la persuasione di un sistema già prima trovato o proposto: un sistema più o meno esteso, più o meno completo, più o meno legato, armonico, e consentaneo nelle sue parti.

3. Il male è quando dai generali si passa ai particolari, cioè dal sistema alla considerazione delle verità che lo debbono formare. Ovvero quando da pochi ed incerti, e mal connessi, ed infermi particolari, da pochi ed oscuri rapporti, si passa al sistema, ed ai generali. Questi sono i vizi de’ piccoli spiriti, parte per la loro stessa piccolezza, e la facilità che hanno di persuadersi; parte per la pestifera smania di formare sistemi, inventar paradossi, creare ipotesi in qualunque maniera, affine [948] d’imporre alla moltitudine, e parer d’assai. Allora l’amor di sistema, o finto, o vero e derivante da persuasione, è dannosissimo al vero; perchè i particolari si tirano per forza ad accomodarsi al sistema formato prima della considerazione di essi particolari, dalla quale il sistema dovea derivare, ed a cui doveva esso accomodarsi. Allora le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano i particolari in quell’aspetto solo che favorisce il sistema, in somma le cose servono al sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb’essere. Ma che le cose servano ad un sistema, e che la considerazione di esse conduca il filosofo e il pensatore ad un sistema (sia proprio, sia d’altri), è non solamente ragionevole e comune, ma indispensabile, naturale all’uomo, necessario; è inseparabile dalla filosofia; costituisce la sua natura ed il suo scopo: e concludo che non solamente non ci fu, ma non ci può esser filosofo nè pensatore per grande, e spregiudicato, ed amico del puro vero, ch’ei possa essere, il quale non si formi o non segua un sistema (più o meno vasto secondo la materia, e secondo che l’ingegno del filosofo è sublime, e secondo ch’è acuto e penetrante nella investigazione speculazione e ritrovamento de’ rapporti) e ch’egli non sarebbe filosofo nè pensatore, se questo non gli accadesse, ma si confonderebbe con chi non pensa, e si contenta di non avere idea nè concetto chiaro e stabile intorno a veruna cosa. (I quali pure hanno sempre un sistema, più o meno chiaro, anzi più esteso, e per loro più persuasivo e più chiaro e certo, che non l’hanno i pensatori.) Sia [949] pure un sistema il quale consista nell’esclusione di tutti i sistemi, come quello di Pirrone, e quello che fa quasi il carattere del nostro secolo. (16. Aprile 1821). Vedi p. 950. capoverso 2.

Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle. Poniamo per esempio un’opera scientifica. Se non è bella, la scusano perciò ch’è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene. Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch’è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono. Se non è bello, per questo lato è cattivo, e non v’è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l’esser quindi per questa parte cattivo. E ciò che dico dei libri, si deve estendere a tutti [950] gli altri generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto. (16. Aprile 1821).

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