Armiamoci e partite : lo inventò il poeta ravennate Olindo Guerrini? ovvero ARGIA SBOLENFI & Co

Agli Eroissimi

« Ah, siete voi? Salute o ben pensanti,

In cui l’onor s’imbotta e si travasa;

Ma dite un po’, perché gridate “avanti!”

E poi restate a casa?

Perché, lungi dai colpi e dai conflitti,

Comodamente d’ingrassar soffrite,

Baritonando ai poveri coscritti

“Armiamoci e partite?”

Partite voi, se generoso il core

Sotto al pingue torace il ciel vi diede.

O Baiardi, è laggiù dove si muore

Che il coraggio si vede,

Non qui, tra le balorde zitellone,

Madri spartane di robuste prose,

Che chieggon morti per compor corone

D’alloro, ahi, non di rose! »

Rime di Argia Sbolenfi

Olindo Guerrini Le Rime di Lorenzo Stecchetti – Liber Liber

OLINDO GUERRINI ovvero ARGIA SBOLENFI & Co.

CONFIDA LE SUE PENE ALLA BEATA VERGINE

SONETTO SBOLENFIO

O pia Maria, ve’ della mia terribile

Pena terrena la catena ignobile!

Vien manco il fianco stanco ed è impossibile

Ch’io resti a questi mal molesti immobile!

Dura sciagura, arsura inestinguibile,

Ricetto eletto han nel mio petto e, mobile

La mente, sente un serpente invisibile

Che ha vinto, estinto, in lei l’istinto nobile!

O Bella Stella, o Verginella amabile,

Ascolta, volta a me stolta e volubile,

La preghiera sincera e vera e stabile.

Odo che un nodo sodo e indissolubile

Fa fiorita ogni vita attrita e labile….

Mia pia Maria, fa ch’io non sia più nubile!!

IN BICICLETTA

Giammai, scoccata da una man feroce

Dall’arco teso non fuggì saetta

Come sul suo sentier corre veloce

La bicicletta.

Volan le rote e mentre sulla via

Nessun rumor presso di lei si sente,

Qualche imbecille al corridore invia

Un accidente.

A me che importa se della canaglia

M’insegue il riso o il mormorar d’alcuni,

Se l’iniqua parola altri mi scaglia

O il molla Buni?

Io corro, io volo sulla bicicletta,

Questo ideal della cavalcature:

Chi soffre d’emorroidi o di bolletta,

M’insulti pure.

Ch’io son beata e un fremito m’assale,

Mi avvolge un’onda di piacer sovrano,

Quando vengo stringendo il trionfale

Manubrio in mano.

Io son beata allor che fra le gambe

Sento il rigido ordigno e in quegli istanti

Tendo le coscie e l’agitar d’entrambe

Lo spinge avanti.

“Molla Buni!” fu nel 1894, all’Arena di Milano, il grido del pubblico, stupefatto perché il ciclista Romolo Buni, “il piccolo diavolo nero”, rimasto solo in pista dopo il ritiro degli avversari (i francesi Médinger e Cassignard), non smetteva di pedalare forsennatamente per battere il record di velocità, anziché prendersela comoda. Divenne un modo di dire per spronare i pigri e calmare i troppo zelanti.

FAVOLETTE MORALI

VIII.

Un tonno innamorato

Lesse i Promessi Sposi

E tutto riscaldato

Da sensi religiosi,

Andò pianin pianino

A farsi cappuccino.

Morale

Fai bene se t’astieni

Dal legger libri osceni.

POBRE CARLOS (*)

¿Habla: se pueda ser mas desdichada?

Quiereba Carlos el toreadores,

Ma un toro viense in la plaza mayores

Y per matarlos al sfrodò la espada.

El toro escapò vias por la contrada

¡Mo Carlos, dietros, fagando romores!

Cuando el toro ¡ahi de mi, caros señores!

Per de dietros ce apogia una cornada.

Carlos cascò cridando ¡ahi, porco mundo!

Viense il medico y hablò: ¡mo bozaradas,

El corno ha penetrado ensino al fundo!

¡Parece un nido carico de vrespas;

Las pobras chiapas miranse sfondadas,

Todo està roto y buena noche crespas!

(*) Lo Spagnuolo non beve… certo l’onda del Manzanares.

(Poesie tratte da: Aria Sbolenfi, Rime, 1897)

«GRILLÒ ABBRAGIATO. – La volaglia spennata si abbrustia, non si sboglienta, ma la longia di bue piccata di trifola cesellata e di giambone, si ruola a forma di valigia in una braciera con butirro. Umiditela soventemente con grassa e sgorgate e imbianchite due animelle e fatene una farcia da chenelle grosse un turacciolo, da bordare la longia. Cotta che sia, giusta di sale, verniciatela con salsa di tomatiche ridotta spessa da velare e fate per guarnitura una macedonia di mellonetti e zuccotti e servite in terrina ben caldo».

(Lettera a Pellegrino Artusi, citata in La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene)

Ecco come andò la cosa.

Nell’inverno del 1868 io davo ad intendere alla mia famiglia di studiar legge; anzi, per confermarla vie più nell’errore, alla fine di quell’anno mi laureai.

(Parentesi. Mi ricordo che ci chiusero nell’Aula Magna dell’Università. Eravamo otto o dieci candidati, e, allegri come quelli non se ne trovano più. Venne il professore di Diritto Canonico, munito di una borsa gigantesca che conteneva la bellezza di sessanta palle. Ognuno di noi immerse la mano nel venerando borsone ed estrasse una palla sola, il cui numero corrispondeva a quello di una tesi da svolgere in iscritto. A me toccò una tesi laconica: Del Comune; una tesi che non conoscevo nemmeno di saluto. Il professore se ne andò e noi ordinammo la colazione. Pensammo che il vino (era buono!) dovesse rischiararci le idee, e ne bevemmo…. si sa…. ne bevemmo…. con molto piacere. Mi ricordo anche, un po’ confusamente, di aver ballato con molta energia, insieme ai colleghi, intorno ad un mappamondo in mezzo all’aula, e di aver riscossi unanimi applausi per l’esecuzione brillante dell’esercizio ginnastico detto l’albero forcuto. Sul tardi ci decidemmo a lavorare, ed io comunicai i miei bollenti spiriti all’opera della mia sapienza giuridica. Cominciai coprendo di vituperi il cranio di papa Clemente VII perchè distrusse la repubblica fiorentina, e finii rimproverando il ministro Menabrea perchè dopo Mentana non era andato a Roma. Domando io che cosa c’entrava questa borra in una tesi di diritto amministrativo? E tra il principio e la fine, era una tempesta di punti ammirativi, di apostrofi, di sarcasmi, d’esclamazioni; c’erano dentro tutte le più calde figure rettoriche possibili. Era insomma una tesi un poco brilla.

Cinque o sei giorni dopo, la mattina a digiuno, coll’abito a coda di rondine e la cravatta bianca, dovetti recarmi all’Università per leggere e sostenere pubblicamente la tesi davanti alla Facoltà ed agli ascoltatori. Lessi, ma in parola d’onore, avrei preferito di non leggere. Mi vergognavo. Tutto quel lirismo bacchico recitato a bassa voce da un giovine a digiuno, in soggezione e colla voce spaurita, doveva fare un bell’effetto! Alle interrogazioni dei professori m’impaperai, dissi degli spropositi cavallini, feci una figura nefanda, e forse mossa da un delicato senso di compassione, la Facoltà mi approvò a pieni voti. Vorrei esprimere la mia gratitudine ai benefattori, ma credo che sia tempo di chiudere la parentesi). (Brani di vita, 1908)

Poteva un tipo del genere fare l’avvocato? No, e infatti Olindo Guerrini fu poeta e giornalista e, per garantirsi la sicurezza economica, impiegato presso la Biblioteca Universitaria di Bologna, di cui divenne in seguito direttore.

Aveva ambizioni letterarie, il Guerrini, ma era una persona di buon senso: era materialista, ma irrideva gli eccessi del positivismo lombrosiano; era socialista, ma conduceva una vita da buon borghese.

Anticlericale, non sopportava i poeti cattolici: L’eterno Iddio del Manzoni era l’oggetto del mio odio accanito; e tutto quel cristianesimo nè carne nè pesce degli scrittori che adorano San Pietro e vituperano il suo successore, mi dava delle ore di bile iraconda. Il mio vangelo filosofico era la Filosofia della rivoluzione del povero e grande Ferrari; e in questo forse ho cambiato poco. Potete dunque immaginare il gusto che mi dettero poi le lodi prodigate all’abate Zanella! (Brani di vita, 1908).

Ma non amava nemmeno le novità della poesia simbolista: E come sono noiose le sciarade del simbolismo! Pensare che ci sono dei superuomini che invidiano gli allori di Oscar Wilde; pensare che tutto questo è un regresso, un ritorno al Medio Evo, proprio quando sta per cominciare il secolo ventesimo! Ma dunque sarà proprio vero che l’intero genere umano sia malato di nervi, poichè in tutti questi libri non si trovano che squilibrati e mattoidi? Non ci sono più donne sane in terra che da ogni pagina vaporano le aure dell’isterismo? È possibile che non si trovi più un cuore buono, un cervello equilibrato, un utero normale? L’epilessia e l’allucinazione sono dunque la regola e la sanità l’eccezione?

Se i disturbi dell’innervazione sono così generali, come sembra a questa letteratura psicopatica, non sarebbe egli più utile raccomandare ai sofferenti, non la morfina, ma le docciature e la bicicletta? Se l’esaurimento nervoso è il male che affligge la presenti generazioni, non sarebbe meglio leggere l’Ariosto all’aria aperta, piuttosto che inghiottire l’Ibsen nell’afa del teatro? Ma no; l’Ariosto non è più di moda e l’aria aperta sciupa il candore della pelle clorotica; e così sia!  (Prefazione di Lorenzo Stecchetti alle Rime di Argia Sbolenfi)

Difficile fare il poeta maledetto, quando si preferisce la bicicletta alla morfina (Guerrini era un appassionato di ciclismo)!

Nascondeva la sua timidezza assumendo una doppia personalità; l’amico Corrado Ricci lo ricorda così: […] non usciva mai di sera […] e se ne rimaneva in casa a leggere e a studiare, impacciato davanti a tutte le donne e fuggitivo dinanzi a quelle che gli dimostravano una provocante simpatia […]. Era un uomo soggetto a un singolarissimo sdoppiamento, un uomo a due anime: l’una sensata e mite, l’altra sprezzante di ogni riguardo […]. Sembrava quasi che volesse nascondere ciò che egli era in effetti, che temesse da certi suoi amici spregiudicati l’accusa di timido e di casto e cercasse di difendersene col mostrarsi impronto e dissoluto. Vi sono ipocriti della castità, egli era un ipocrita della corruzione; voleva parere un audace, un ghermitore

di donne, un libertino, mentre di fronte ad esse non era che un pavido… Di questa finzione si compiaceva anche perché alimentava la sua passione romagnola e bolognese delle burle.

Ma soprattutto, come abbiamo visto, Guerrini aveva il senso dell’umorismo, il che implica una presa di distanza dall’oggetto della propria scrittura.

Come procedere allora? Creandosi delle identità alternative, diverse e in contraddizione l’una dall’altra, sperimentando per procura umori propri e altrui, spaziando dal patetico e drammatico all’umoristico e non di rado triviale. Lo scrittore e il bibliotecario si uniscono, creando una biblioteca personale di autori immaginari. C’è chi ambisce a essere unico; Guerrini no: voleva essere tanti.

Nascono così:

–  Lorenzo Stecchetti, fantomatico poeta cugino del Guerrini – che finge di curarne il manoscritto pubblicato postumo – morto di tisi all’età di trent’anni (l’avrà letto Gozzano?)

e– Argia Sbolenfi, cuoca bolognese dagli appetiti sessuali robusti ed espliciti, sempre frustrati e inappagati, le cui Rime sono precedute dalla prefazione di un riluttante Lorenzo Stecchetti (per cui il cambio di identità risulta doppio!)

e una serie di identità minori:

– Marco Balossardi, Pulinera, Mercutio, Odino Linguerri, Giovanni Dareni.

Per avere un’idea della varietà di registri, ecco due poesie del Nostro, magistralmente dette da Paolo Poli (cliccare sui titoli):

Argia Sbolenfi, A un vaso nuovo di porcellana Ginori (Poli recita una versione ridotta e leggermente diversa da quella delle Rime, intitolandola Ode al pitale).

Ma passiamo all’analisi delle Rime sbolenfiane.

La polemica antimanzoniana e anticlericale fa capolino anche qui (Favoletta morale VIII), mentre la passione per la bicicletta diventa l’occasione per una poesia piena di doppi sensi triviali (In bicicletta).

Insieme con le sgrammaticature (oltre a non essere attraente, Argia è anche ignorante, soprattutto all’inizio), non manca la ricerca di soluzioni sperimentali (da un componimento in spagnolo maccheronico a un tipo di sonetto, definito sbolenfio, che consiste soprattutto nell’impiego di parole e rime sdrucciole). (Giuseppe Zaccaria, voce su Olindo Guerrini del Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani editore.)

Guerrini scrisse in italiano, veneto, romagnolo: la passione per la sperimentazione linguistica trova qui un esito umoristico in Pobre Carlos, dove il divertimento non sta tanto nella vicenda – banale – raccontata, quanto nell’invenzione di un esilarante spagnolo maccheronico. Un altro esempio di questa passione è il Grillò abbragiato: ricevuta in omaggio una copia de La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, manda all’amico Artusi una lettera in cui loda l’opera come la migliore, la più pratica, e la più bella e si prende gioco dei barbarismi di manuali come quello del Vialardi che fa testo in Piemonte, facendone una cernita e concentrandoli in questa ricetta immaginaria.

Ma le poesie tecnicamente più impegnative sono i 6 sonetti cosiddetti “sbolenfi”, dei quali qui si riporta Confida le sue pene alla beata vergine. Giuseppe Zaccaria sembra non rendersi conto che in realtà si tratta di “leporeambi”, un tipo di sonetto dalla struttura particolarmente complessa e cogente, creata da Ludovico Leporeo nel XVII secolo. (In realtà non sembra essersene accorto nessuno: possibile che io sia il primo?) Come in Leporeo troviamo:

– rime    – assonanti,

– preferibilmente sdrucciole:

-ibile, -obile, -ubile, -abile,

– anche se, contrariamente a Leporeo,

non sono poste in ordine alfabetico;

– versi con rime interne (in questo caso 3):

O pia Maria, ve’ della mia terribile.

E il bibliotecario Guerrini conosceva senz’altro Leporeo,

perché i libri antichi li studiava: pubblicò, per esempio, il primo

studio serio su Giulio Cesare Croce.

Li studiava e, almeno in un caso, li annotava: una volta

un suo dipendente, Alberto Bacchi della Lega, aveva lasciato

momentaneamente il manuale di ornitologia del Savi aperto sulla

pagina dedicata al Passer Italiae; quando tornò trovò questa

nota a margine, scritta dal Guerrini:

Deh, l’ornitologo

come un corbello

scambia la passera

per un uccello.

NOTE

La citazione di Corrado Ricci si trova in

P. Pancrazi, Stecchetti uomo strano, in Ragguagli di Parnaso, Milano-Napoli,

Ricciardi, 1967, pp. 537-543,

riportata nella tesi di laurea (che consiglio di leggere) di

Valentina Forlivesi, Folklore e dialetto in Olindo Guerrini, Giovanni Pascoli, Tonino Guerra e Libero Riceputi, Università degli Studi di Bologna.

http://www.ibc.regione.emilia-romagna.it/wcm/ibc/eventi/concorsodialetti/esito/tutti/allegati/Tesi_di_Valentina_Forlivesi.pdf

L’aneddoto “ornitologico” è riportato, col n. 59, in

Giuseppe Fumagalli, Aneddoti bibliografici, Milano, Bietti, 1933

http://sebastianozanetello.blogspot.it/2012/07/olindo-guerrini-ovvero-argia-sbolenfi.html



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