Gesualdo Bufalino : Diceria dell’untore – l’amaro miele ; Bufalino e Sciascia

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Gesualdo Bufalino – Diceria dell’untore – Bompiani, 2007

Il registro alto, lo scialo degli aggettivi,

l’oltranza dei colori, mi pareva, e pare, il modo che ci

resta per contrastare l’ossificazione del mondo

in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi

ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti.

G. BUFALINO

Diceria dell’untore 1: un’opera, questa di Bufalino, che si autodefinisce, giacché non si può escogitare migliore definizione critica di quella che reciti il bufaliniano «tresca d’amore e di morte»2 . Quanto ad una sommaria descrizione del romanzo, Bufalino dice: «si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in un sanatorio della Conca d’Oro, nel ’46. Fra il protagonista e una paziente dagli ambigui trascorsi (Marta) nasce un amore, puerile e condannato in partenza, più di parole che d’atti, il cui sbocco è una fuga a due senza senso, e, subito dopo, la morte di lei in un alberghetto sul mare. Egli, invece, guarisce, inaspettatamente, e rientrando nella vita di tutti, vi porta un’educazione alla catastrofe di cui probabilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre». E così la letteratura italiana torna a sussumere l’ormai veterano binomio di eros/thanatos, con Marta (l’amante dell’io narrante) che condivide le consonanti con la meno seducente ‘morte’.

Ciò che traspare dalle densissime pagine del breve romanzo è in primo luogo un culto appassionato e acuto per il verbum, ch’egli peraltro non ha mai nascosto: si consideri che in un’intervista3  a Leonardo Sciascia del 1981 egli asseriva di avere scelto preliminarmente cinquanta vocaboli allettanti per timbro, cadenza, musicalità e di avervi poi tramato sopra il primo capitolo. Inclinazione che trova una suggestiva motivazione nel desiderio, che cito in epigrafe, di restituire «ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti». E questa è l’impressione che se ne riporta: le parole, è noto, sono segmenti, che talora oppongono resistenze alle sollecitazioni di chi scrive, con la loro irridente, impassibile rigidezza. Bufalino vive però in un universo lessicale tanto ponderosamente variegato – e fuori dall’ordinario, da sollevare di quando in quando il sospetto di un sotteso e ironico gusto per l’erudizione, peculiarmente postmoderno – che nello scrivere è come se le riducesse a minuscole briciole, tali poi da dar vita, aggregandosi, a un affresco immensamente policromo. La vocazione immaginosa – e la vena lirica – del suo linguaggio è come se vantasse un potere dinamizzante: egli riesce a far parlare l’inconversevole, a smuovere l’immoto. Non solo: come è stato osservato4 , la parola prima che cifra stilistica è cifra esistenziale. Tutti i personaggi – com’è vero che Bufalino per principio non stabilisce differenze fra i loro linguaggi, percorsi da un fecondante afflato lirico persino in quelli più inopinati – nuotano in laghi di parole, nell’intenzionale sperpero di aggettivi, in grondanti e rarefatti arzigogoli. Don Vittorio, personaggio dallo spirito cupamente e ambiguamente lacerato, rivolge al protagonista queste parole: «[…] vivi in una ragnatela di parole e ti ci avvoltoli dentro, quando una ne basterebbe, pronunziata in silenzio, qui in ginocchio, accanto a me»5.

Il ricorso, non infrequente, al simbolo fa dell’opera un frutto (molto) tardivo del Decadentismo. Merita almeno ricordare la splendida immagine dell’agave, che i due amanti incontrano durante la fuga, che fiorisce ogni dieci anni e immediatamente muore, che assurge ad inequivocabile simbolo di una condizione umana pascalianamente antinomica, dove una promettente fioritura si accompagna ad una frustrante – nel caso di Marta precoce – seccatura, la vita salda il suo debito con la morte, in perenne moto ciclico. Di un certo interesse è anche l’incontro dei due, sempre durante la fuga, col corteo di contadine e contadini in marcia, circostanza che dà adito ad un secco botta e risposta, con la voce narrante che li addita come effigie della realtà storica e sociale contrapponendoli alla dimensione astratta, evanescente, di coartata evasione dal mondo propria del sanatorio (quella «cacca di vacca sulla collina»6 ), e Marta che protesta la preminenza della realtà esistenziale, tuonandogli contro: «nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte»7 .

I pazienti del sanatorio sono tutti pressoché giovanissimi. Si prenda Marta: anche al di là della fuga senza speranza come ultimo anelito e fiotto di vitalità-libertà, ella non si è rassegnata alla morte: il suo immaginario si popola di infinite proiezioni – orizzontali, non trascendenti, e ciò è sintomatico – di vita, immaginario che non rimane esperito nella sua mente, ma viene espresso, proferito, sempre in ossequio al principio secondo cui il verbo precede la vita, o ne è comunque l’unico possibile e pensabile sembiante, il luogo in cui l’esistenza, altrimenti intangibile, prende forma.

‘Diceria’ alluderebbe al lungo racconto retrospettivo della voce narrante. ‘Untore’, di ascendenza manzoniana, è termine più complesso. Alcuni vi riconoscono la condizione del protagonista destinato a contagiare, per riprendere ancora le belle parole di Bufalino, “un noviziato indimenticabile nel regno delle ombre”. Ma va osservato, a mio avviso, come esso esibisca un corredo semantico abbastanza ampio da contenere la confluenza di eros e thanatos, cui accennavo all’inizio, binari sui quali corre il messaggio narrativo. Pur tenendo presente l’immediato suggerimento dell’idea di malattia (mortale) si consideri che in una significativa pagina, Bufalino richiama l’equivalente siciliano di ‘contagiare’: ‘ammiscare’, alludente ad una mescolanza che è anche “travaso di sé nell’altro”, peculiare peraltro della «confusione, su un letto, di due corpi amici»8 .

Sontuosità linguistica baroccheggiante, contagio reciproco di amore e morte, sensibilità simbolica tardo-decadente: questi i tratti precipui dell’opera bufaliniana a cui si conviene, per spessore e per lirismo, un posto di prim’ordine nel mondo letterario contemporaneo.

Fabio Furnari

http://www.lafrusta.net/rec_bufalino_diceria.html





Da “Espresso” del 1-3-81. Intervista di Leonardo Sciascia.
Traduttore di raffinati poeti, lettore accanito di letteratura francese, questo eccezionale “dilettante” siciliano debutta nella narrativa con un romanzo, “Diceria dell’untore”. Sarà un nuovo caso? I critici lo attendono al varco.

Gesualdo Bufalino

Palermo. L’introduzione a un libro di vecchie fotografie (“Comiso ieri”) lo ha tradito. Piacquero a tutti, quelle pagine; molti chiesero notizia di chi le aveva scritte; qualcuno ebbe il sospetto che dietro quelle pagine altre ce ne fossero chiuse nei cassetti, segrete. Gesualdo Bufalino tentò di difendersi: offri, a schermo, una preziosa traduzione delle preziose “Contrerimes” di Toulet, poi un’antologia che Acutamente raccontava vita, passione e morte del personaggio nella letteratura occidentale. Ma si insistette (e chi insisteva era Elvira Sellerio: e non c’è schermo o riparo quando lei vuole qualcosa): e Gesualdo Bufalino tirò finalmente fuori la “Diceria dell’untore”: con esitazione e in tutti i modi sconsigliandone la pubblicazione. Ma tra qualche giorno, pubblicato dall’editore Sellerio, la “Diceria” sarà in tutte le librerie: e si può immaginare lo stato d’animo di Bufalino.

Questo stato d’animo lui lo analizza, lo spiega, lo racconta.

“Parto da un punto fermo: che vi siano scritture morali che è un debito rendere pubbliche… Non è il mio caso, temo; e dunque perché esibirmi? In quello che scrivo sospetto sempre 1’abbandono a un’operazione di bassa lussuria, una sorta di interminabile, falsificato pettegolezzo su di me, da destinare dunque a un uso strettamente privato. E’ una presunzione, lo ammetto: e forse messa avanti per non confessare una rara vigliaccheria: quella di patire la pubblicità come fosse un redde rationem, una gogna, un sentirsi nudi e umiliati come di fronte a una vestita commissione medica di leva. Chiamo questa mia sindrome col nome di Wakefield, quel personaggio di Hawthorne, un vicario, che lascio la propria casa per andare ad abitare in quella di fronte: per spiare, invisibile e suppongo felice, la vita della propria. “Sindrome di Wakefield”. Cui è da aggiungere un totale rifiuto del sentimento di agonismo. Perdere mi è sempre piaciuto. Perfino a scacchi (ero assai bravo da ragazzo) preferivo giocare un tipo d’impegno che si chiama automatto, e consiste nel costringere l’avversario a vincere suo malgrado… Ma a questo punto mi chiedo: sto dicendo la verità? In un mio copialettere ce ne sono una diecina dirette ad editori, a critici.

Non spedite, si capisce, ma… Ecco: anche con la signora Sellerio e con lei non sono stato, io a muovere, sia pure pudicamente, le cose? D’altra parte, quando lei mi chiese notizie dei miei cassetti, ammisi le traduzioni ma tacqui del romanzo, che svelai mesi dopo, e non spontaneamente… Curioso ingorgo! Da un lato gli stimoli di un’onesta ambizione, dall’altro, con segno più forte, il presentimento che un eventuale destino di scrittore contenesse non so che semi di sinistra avventura…”

A questo punto della vita, dopo aver pubblicato una ventina di libri e aver conseguito un certo successo, una certa notorietà, posso dirle che la mia esperienza conferma i1 suo presentimento: si tratta di un’avventura davvero sinistra. Ma il fatto è che non si può non correrla. E’ statisticamente impossibile sfuggire a un simile destino; e il suo caso stesso è di incremento alla statistica. Tutto è accaduto, nei primi dieci anni della nostra vita: per quanto si temporeggi, si rimandi, si allontani, quel destino sta in agguato, pronto a coglierci al primo abbandono, alla prima distrazione; e, in certi casi, anche oltre la vita. Vero è che si può dire di ogni uomo, che tutto è avvenuto nei primi dieci anni di vita; ma di uno scrittore particolarmente.

“Sì, penso che i primi dieci o dodici anni di vita ci prefigurino interi, e ho qualche ricordo per confortare l’ipotesi: un giorno, a sie anni, trascino mia madre da una strada all’altra del mio pases per farmene leggere le targhette, imparare i nomi e abbozzare con essi un mio primo rudimentale Pantheon mnemonico. Una pulsione al censimento dell’universo assai forte sin da allora. Più tardi, tra i 35 e i 45 anni, lavorerò per mio semplice utile e gusto a un interminabile libro dei libri, una specie di summa di citazioni alla Bouvard e Pècuchet. Altro ricordo: rubo in una bottega di pescivendolo un fascio di giornali da avvolgere. Sono scoperto, svergognato. Soprattutto perchè avrei potuto averli tranquillamente in regalo. Devo concludere che il mondo della scrittura m’appariva precocemente appetibile e proibito, connesso comunque a un’infrazione, a una pratica furtiva.”

Lei è nato a Comiso nel ’20 e vi ha passato quasi tutta la vita, fino ad ora. Io sono nato a Racalmuto un anno dopo e ve ne ho passato mezza. Penso che la sua condizione e la mia, negli Anni Trenta in cui abbiamo cominciato a leggere il mondo attraverso i libri, sia stata la stessa. I pochi libri che si – trovavano in caso, vecchie riviste, vecchi giornali. la “Domenica del Corriere”; e. gli scrittori russi in edizione Barion o Bietti.

“Mio padre, fabbro ferraio, coltivava assai la lettura: possedeva un Dante- Dorè, ’un “Ortis”, un Melzi 1909, un “Fabbro del convento”, un “Guerino”, “Il mistero del poeta” di Fogazzaro; e “I miserabili”. Lo lessi non so quante volte, “I miserabili”: stranamente – ma forse no – ero affascinato dalle divagazioni epicoliriche, dagli sproloqui a tavola di certi personaggi, dai calembours sulle barricate… Poi ci fu “Guerra e pace”, Natascia in slitta sulla neve mi rapì…”

– Perfetto. Una sola variante, per me: di Fogazzaro c’era, tra i pochi libri di casa, “Malombra”… A scrivere, immagino, cominciò con dei versi.

“Con un sonetto, a undici anni… Lo conservo, ho conservato qualunque inezia, della mia vita… Poi, fino a vent’ anni, scrissi poesie a centinaia: a rileggerle parrebbero di cinquant’anni prima. Ma nessuno in quegli anni mi parlò di Ungaretti, di Montale…”

– E c’era il fascismo.

“Il fascismo a chi vi era nato dentro e non aveva la fortuna di un incontro eretico, appariva naturale come la famiglia a un bambino. Credo fosse, questo, uno dei suoi veleni più neri. Io lo accettavo col solo blando astio che poteva nascermi dalla renitenza ai salti e alle arti marziali. Solo quando mi occorse di vincere per la Sicilia (era il ’39) un premio di prosa latina e mi recai a Roma per essere ricevuto, assieme ad altri vincitori, da Mussolini solo allora, mentre per la posa di rito tutti si precipitavano a mettersi in vista, un istinto e un ribrezzo mi spinsero a ritrarmi alle spalle di tutti. Aggiungo che mi sentii confusamente oggetto di una scaltra tecnica di persuasione, se non di un bluff, quando lui disse, a lode dell’universale Roma, che quella stessa mattina aveva conversato in latino con I’ambasciatore ungherese. Il quale, aggiunse per un di più di naturalezza, aveva però sbagliato una concordanza: nos, quae… Altro premio, sempre al liceo, lo vinsi per un tema sull’ E42: all’inaugurazione dell’Esposiziurie, mi avrebbero fatto soggiornare a Roma per due settimane. Ma I’Esposizione non ci fu, ci fu la guerra .”

– La guerra, la malattia. E dalla ’ malattia questa “Diceria dell’untore”…

“Ma anche i tanti libri che lessi. A Scandiano, in ospedale, ebbi un colpo di fortuna: il primario, coltissimo uomo, aveva trasferito, a salvarla dalle bombe, la sua enorme biblioteca in un magazzino dell’ospedale. Me ne diede le chiavi. Fu il mio ingresso nell’Europa. Tra I’altro, lessi Proust in francese, braccandone i volumi senz’ordine, di sotto le pile gigantesche…”

– E così, fuori dalla Sicilia e come casualmente, le è accaduto quel che ad ogni siciliano colto accade nell’ordine delle cose: l’ancoraggio alla cultura francese.

“Appunto. Ma già, tra i sedici e i diciotto anni, avevo fatto un’esperienza fondamentale: da una traduzione in prosa italiana avevo ritradotto macaronicamente in francese Boudelaire. Inseguivo l’alito delle cadenze originarie. Più tardi, quando ebbi il testo originale, I’ho tradotto e ritradotto in italiano. Ma non ho soltanto tradotto Baudelaire, dal francese. Sulle “Contrerimes” di Toulet mi sono affilato lungamente. Sempre per il mio piacere, s’intende: anche se quella mia traduzione delle “Conireriincs” sta ora per pubblicarsi.”

– Abbiamo in comune anche Baudelaire nella traduzione in prosa di Decio Cinti, se non ricordo male, e in edizione. Sonzogno. Non mi sono attentato a ritradurlo in francese, ma l’ho tradotto in italiano quando ho avuto tra le mani, nell’immediato dopoguerra, il testo francese curato da Giovanni Macchia. Mi è facile dunque immaginare che anche il cinema francese, tra il ’37 e il ’40…

” E anche oltre. Per molti anni il basco di Michèle Morgan e le calze di Arletty e Louis Jouvet che recita Verlaine mentre lo arrestano (“Dans le vieux parc solitaire et glacè”) oppure scende regalmente tra due infermieri le scale d’un ospizio declamando il “Don Juan”; per molti anni questi mi parvero i culmini d’ogni sentimento d’arte. Solo dopo la guerra entrai nella buccia più vera di una civiltà seducente; e furono allora Montaigne e Pascal, gli illuministi… Mi sento, e sono, un francesista selvaggio, dimezzato. Ma in Francia, purtroppo, non sono stato per più di quindici giorni “.

Questo le varrà l’accusa, da parte di qualche critico, di aver fatto, con la “Diceria dell’untore””, un libro molto francese. Certo, molto italiano non è. Ciò non toglie che sia – almeno io cosi lo sento – molto siciliana.

“Con la Sicilia i miei rapporti sono di qualità schizofrenica. E tuttavia, più mi sforzo di sbucciarmi di dosso la pelle indigena e di promuovermi “totus europeus”, più tendo a raccogliermi e ricucirmi dentro la mia terra e la mia civiltà. Mi ricordo che un giorno, a Colonia, nel ’64, durante un viaggio in macchina con un amico, fui colto da un così straziante crepacuore di fronte a un cielo che parlava una lingua lontana che rifuggii verso il Sud a precipizio, sentendo ad ogni pietra miliare che mi ci avvicinava una vampata di felicità “.

– E il libro: da quale esperienza è nato, per quale necessità?

“L’ho pensato e abbozzato verso il ’50, I’ho scritto nel ’71. Da allora, una revisione ininterrotta: fino alle bozze di stampa. Mi è venuto dall’esperienza di malato in un sanatorio palermitano: negli anni del dopoguerra, quando la tubercolosi uccideva e segnava ancora come nell’Ottocento. Il sentimento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d’incantesimo (ma “La montagna incantala”, è evidente, non ha giocato per nulla). E poi la dimensione religiosa della vita, il riconoscersi invincibilmente cristiano. M’importava esorcizzare quell’esperienza; ma soprattutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro. Confesso che il primo capitolo che scrissi, fu come un gioco serio: e consisteva nel trovare intrecci plausibili fra 50 parole scelte in anticipo per timbro, colore, carica espressiva. Qualcosa di meno maniacale delle scommesse di Roussel, essendo nel mio caso il legame tra le parole scelte non casualmente ritmico, nè esoterico o cabalistico, ma insorgente da una parentela e coalizione espressiva e musicale, così come da un re, da un sol minore premeditato, nasce una sinfonia…”

Leonardo Sciascia

http://www.zam.it/1.php?articolo_id=129&id_autore=141

Pillole d’Autore: le poesie di Gesualdo Bufalino

BRINDISI AL FARO

Prima di te

era un luogo di gogna la mia vita,

fra mura di ferro feroce;

era teatro d’un maniaco dramma

che declamavo dinanzi a nessuno:

io ripeteva a perdifiato un’eco,

io era scritto su tutti gli specchi,

io, pronome di luce e di sozzura,

orbita avara che in sé si consuma,

libertà aguzzina di se stessa.

Ora è una strada per cadere insieme,

un fiume nero, ma so dove va.

(da L’amaro miele, Einaudi, 1982)

GESUALDO BUFALINO

di Laura Ingallinella
19.8.12

“Quando c’è festa nei miei paesi/ vengono da lontano i venditori,/ mangiaspade, mangiafuoco,/ con mani immense e scamiciate alzano/ sui bambini la tromba del diluvio,/ dormono a notte nei fondachi scuri,/ se ne vanno un mattino sotto la pioggia.”
Non c’è pagina di Gesualdo Bufalino che non lasci al lettore una sottile, voluttuosa incertezza circa la verisimiglianza di ciò che ha appena letto. Potrebbe dirsi l’effetto collaterale di una scrittura nata, e in modo così evidente, per eludere e insieme sedurre la morte. Così, anche nel leggere le Note all’introvabile silloge L’amaro miele, ci si chiede in fondo quanto, in quelle parole, sia verità autobiografica e quanto sia, invece, diceria:

Questi versi, scritti su carta da macero con un pennino Perry moltissimi anni fa; sopravvissuti solo quasi per caso alle periodiche fiamme di San Silvestro a cui l’autore fu solito un tempo condannare il superfluo e l’odioso dei suoi cassetti; divenuti, invecchiando, patetici come rulli di pianola o vecchie fotografie; questi versi non vantano probabilmente altro merito per vedere la luce; se non quello, privato, di fare per un momento sorridere, ove ne abbia ancora le labbra capaci, un fantasma di gioventú. Il quale potrà ritrovarvi e riconoscervi, insieme ai relitti di sue antiche pene d’amor perdute in riva al Mediterraneo, le memorie di una lunga attesa e persuasione di morte all’ombra grave della guerra; e le veloci letizie, le lunghe solitudini, dopo il ritorno nel Sud.

Cercando di sottrarmi al fascino dell’affabulazione memoriale – malvolentieri, c’è da ammetterlo: la confessione di una scrittura su carta da macero sembra ricordare quella, analoga e forse egualmente mitopoietica, di Alberto Moravia, che raccontò di aver scritto di getto Gli indifferenti su fogli di carta velina – mi limito a enucleare alcuni dati di fatto: le poesie di Bufalino sono creazioni giovanili, datate dallo stesso autore al decennio post-bellico 1944-1954; e dell’esperienza della guerra e del sanatorio conservano un afflato vivissimo, tale da permetterci di classificare molte di esse come avantesti di Diceria dell’untore e di chiarire una volta per tutte, se mai fosse stata oscura, la matrice lirica del grande capolavoro bufaliniano. Il dettato poetico sembra prono ai cliché decadenti (si ricordi che Bufalino amò e tradusse I fiori del male di Baudelaire), e spesso sembra assecondare un’ingenua musicalità; le soluzioni più brillanti, che fanno dell’Amaro miele una lettura dolce e dolente insieme, come suggerisce il titolo, sono le figure di suono: vere e proprie prove d’intelligenza fonosimbolica, quali ad esempio la combinazione di paronomasia e ironia, che anticipano il wit, crudele e “malpensante”, di personaggi come il Gran Magro e di padre Vittorio.

Edizione di riferimento: Gesualdo Bufalino, L’amaro miele, Einaudi 1982.
Da Annali del malanno:

Stanza alla Rocca

Inventario della mia morte:
un letto, una sedia uno specchio,
un calendario vecchio
appeso dietro la porta,
sul comodino un bicchiere,
una radio a galena ma è dell’infermiere,
un termometro cado nel cassetto,
venti mosche che vanno su e giù,
Le grand Meaulnes, no, l’ho perduto, non l’ho più.

Da Asta deserta:

Allegoria

Sulla usata scacchiera
enumeriamo i loschi personaggi,
gualdrappe a lutto, rocche senza tromba,
logori lindi scheletri di bosso,
unghia contr’unghia di sterile luce,
dove il sangue s’inerpica a squillare:
e tu, spettro monotono, mio re,
chiuso fra quattro lance
d’infallibili alfieri,
vestito di rosso broccato,
mio scabro Cristo chiodato, mio re,
in un angolo, matto come me.

Malincuore, il giorno del santo

Quando c’è festa nei miei paesi
vengono da lontano i venditori,
mangiaspade, mangiafuoco,
con mani immense e scamiciate alzano
sui bambini la tromba del diluvio,
dormono a notte nei fondachi scuri,
se ne vanno un mattino sotto la pioggia.

Io non ho più fiere da visitare,
e più m’attempo più voglio morire.

Da La festa breve:

Salmo dello scapolo in fiera

Con la gonna di rafia tutta fiocchi
e le calze turchine
e la scarpa che crocchia
e la spadina d’argento sul crine,

tu mi pari, ragazza,
accordellata nel busto d’alpagio,
un’asinetta che discende in piazza
nel giorno di San Biagio.

Come vorrei comprare
a peso d’onze le guardate ladre
così maldestre e destre,

e da lontano il tuo nome gridare
alla mia vecchia madre
che aspetta e ride dietro la finestra!

Laura Ingallinella

http://www.criticaletteraria.org/2012/08/pillole-dautore-le-poesie-di-gesualdo.html


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