3. Impiego assoluto della forza, 4. Lo scopo è di ridurre il nemico all’impotenza : Von Clausewitz, Karl

3. Impiego assoluto della forza

Gli spiriti umanitari potrebbero immaginare che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l’avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell’arte militare.
Per quanto seducente ne sia l’apparenza, occorre distruggere tale errore poiché, in questioni così pericolose come la guerra, sono appunto gli errori risultanti da bontà d’animo quelli maggiormente perniciosi.
Poiché l’impiego della forza fisica in tutta la sua portata non esclude affatto la cooperazione dell’intelligenza, colui che impiega tale forza senza restrizione, senza risparmio di sangue, acquista il sopravvento sopra un avversario che non faccia altrettanto e gli detta in conseguenza la propria legge; ed entrambi i principi di azione tendono così verso l’assoluto, senza trovare altri limiti che nei contrappesi insiti in essi.
È cosi che la questione dev’essere considerata: e rappresenta uno sforzo non solo vano, ma illogico, il lasciare da parte l’elemento forza per avversione ad esso.
Se le guerre fra nazioni civili, sono meno crudeli e devastatrici di quelle fra i selvaggi, ciò deriva dalle individue condizioni sociali degli Stati e da quelle degli Stati considerati nei reciproci rapporti.
La guerra nasce da queste condizioni e da questi rapporti sociali che la determinano, la limitano, la moderano; ma tali modificazioni non sono inerenti alla guerra, costituiscono solo elementi contingenti: mai si potrà introdurre un principio moderatore nell’essenza stessa della guerra, senza commettere una vera assurdità.
La lotta fra gli uomini si fonda su due differenti elementi: il sentimento ostile e l’intenzione ostile. Nella nostra definizione della guerra ci siamo basati sul secondo perché più generale; non possiamo infatti pensare all’odio, anche il più selvaggio, quello che si avvicina all’istinto, separandolo dall’intenzione ostile, mentre esistono spesso intenzioni ostili non accompagnate, o almeno non essenzialmente accompagnate, da inimicizia preconcetta. Presso i popoli barbari predominano i progetti basati sull’istinto, presso quelli civili, per contro, i progetti basati sulla riflessione; ma questa differenza non deriva dalla natura intima della barbarie o della civiltà, bensì dalle circostanze, dalle istituzioni ecc. che l’accompagnano. Non esiste necessariamente in ogni singolo caso, ma la si riscontra nei maggior numero dei casi. In una parola, le più violente passioni possono accendersi anche fra i popoli più civili. Si vede quindi come sia lungi dal vero il figurarsi la guerra fra Stati civili come un semplice e razionale atto di governo, e il considerarla come avulsa da ogni passione, sì che, in definitiva, non abbia bisogno dell’azione fisica delle masse di combattenti, e possa far calcolo soltanto sui loro rapporti astratti, si da ridurre la guerra ad una specie di operazione algebrica.

La teoria cominciava però, ad incamminarsi su questa strada, quando i fenomeni delle recenti guerre rettificarono le idee. La guerra, essendo atto di violenza, ha necessarie attinenze col sentimento; se essa non ne trae origine, vi farà capo tuttavia più o meno, a seconda non del grado di civiltà, ma della grandezza e durata degli interessi in conflitto.

È chiaro che se i popoli civili non uccidono i prigionieri, non distruggono città e villaggi, ciò deriva dal fatto che l’intelligenza ha in essi parte maggiore nella condotta della guerra ed ha loro rivelato l’esistenza di mezzi d’impiego della forza più efficaci di quelli derivanti dalle manifestazioni brutali dell’istinto.

L’invenzione della polvere, il perfezionamento costante delle armi da fuoco dimostrano già sufficientemente che la tendenza alla distruzione dell’avversario, insita nel concetto della guerra, non è stata in realtà stornata, o alterata, dal progresso civile.

Confermiamo dunque: “La guerra è un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo”. Ecco dunque un primo rapporto di azione reciproca e un primo criterio illimitato, cui l’analisi ci conduce.

4. Lo scopo è di ridurre il nemico all’impotenza
Abbiamo detto che scopo dell’azione guerresca è mettere l’avversario nella impossibilità di difendersi: vogliamo ora dimostrare che ciò è necessario almeno in teoria.

Perché l’avversario sia costretto ad accedere alla nostra volontà, dobbiamo costringerlo in una situazione il cui svantaggio sia superiore al sacrificio che da lui esigiamo: ma è naturale che questo svantaggio non debba essere, o almeno non debba apparire, transitorio, poiché in tal caso l’avversario attenderebbe un momento più propizio, anziché cedere. E perciò, ogni cambiamento apportato a questa situazione dal prolungarsi dell’attività bellica deve tendere a peggiorarla, almeno per quanto è prevedibile.

Ora, la posizione più svantaggiosa in cui uno Stato belligerante può trovarsi, è quella di esser ridotto all’impotenza. Se l’avversario, deve essere, a mezzo dell’azione bellica, costretto a compiere la nostra volontà, dobbiamo dunque o porlo realmente in stato d’impotenza, o metterlo in situazione tale che, secondo ogni probabilità sia sul punto di esserlo.

La guerra deve dunque mirare sempre a disarmare, o ad abbattere che dir si voglia, l’avversario.

Essa non suppone però il lavoro di una forza attiva contro una massa inerte, giacche un atteggiamento completamente passivo è incompatibile con qualsiasi condotta di guerra: consiste invece sempre nell’urto di due forze attive contrapposte, e quanto si è detto, circa lo scopo finale dell’attività bellica si applica ad entrambi i belligeranti. È, quindi, una nuova azione reciproca: finché non abbiamo abbattuto l’avversario, dobbiamo temere noi stessi di esserne abbattuti; non siamo più liberi; l’avversario ci impone la sua legge. come noi gli imponiamo la nostra.

Secondo rapporto di azione reciproca, che conduce ad un secondo criterio illimitato.

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