Don Delillo : Underworld – Rumore Bianco

 

 

 

 

 

 

Underworld – Don Delillo

Underworld è un romanzo monumentale che pretende di essere affrontato con umiltà. Lo scrivo perché convinto che questo testo, una volta invecchiati, lo vedremo tra la ultime pagine dell’antologia di letteratura dei nostri nipoti, alla voce “Postmodernismo”; sarà presentato come un archetipo, come un modello. Delillo con Underworld è riuscito a scolpire le pagine di quello che può essere già considerato un grande romanzo americano ma anche a interpretare lo spirito della fine del secondo millennio, forgiando forse al contempo la chiave di lettura di un’epoca di cui non vediamo l’ora sia decretata (dai fatti, non dalle accademie) la fine.

L’approccio visivo con questo testo è il proemio di un’immersione totale. Un romanzo abnorme,  il cui profilo è segnato da linee nere, come luttuosi capitoli di storia e la cui copertina (stampata con la medesima immagine in tutte le edizioni del mondo) possiede qualcosa di tragicamente profetico. Una fotografia scattata da André Kertésez nel 1972 dalla finestra del suo appartamento di New York, la cui quasi totalità è occupata dalle Torri Gemelle, alla base delle quali campeggia una croce romana, installata sulla cima di una vecchia torre campanaria.

Immaginò di osservare la costruzione della grande piramide di Giza – solo che questa [la montagna di rifiuti, ndr] era venticinque volte più grande, con autobotti che spruzzavano acqua profumata sulle strade circostanti. Per Brian era una visione ispiratrice. Tutta questa industriosa fatica, questo sforzo delicato per far entrare il massimo dei rifiuti in uno spazio sempre minore. Le torri del World Trade Center erano visibili in lontananza e Brian percepì un equilibrio poetico tra quell’idea e questa.

Delillo attinge da una delle sue grandi passioni, il baseball, per plasmare l’oggetto che intreccerà le storie di due dozzine di personaggi: una pallina, protagonista dello storico fuoricampo ad opera di Bobby Thomson. Un rifiuto, oppure un feticcio, come chiave di interpretazione di intere esistenze. Un libro in “rewind”, eccezion’fatta per il prologo, l’epilogo e le vicende relative al Signor. Manx Martin, che narra a ritroso le vicende accadute tra il 1992 ed il 1951.

Il testo si apre con un incredibile racconto intitolato “il trionfo della morte” (come il quadro incontrato tra gli stralci di una rivista, a fine partita, da J. Edgar Hoover) nel quale il lettore vivrà la storica competizione tra New York Giants e Brooklyn Dodgers del 3 ottobre 1951 al Polo Grounds di New York. Leggendo questo prologo, per quanto adesso non vogliate crederci, maledirete di non essere americani. Non tanto per affezione, piuttosto per il desiderio di comprendere appieno la magistrale descrizione delle vibrazioni del campo e della folla durante la partita di uno sport pressoché sconosciuto in Italia. Nondimeno, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un disarmante esercizio di stile;  nella fattispecie sull’uso commisto del discorso diretto, indiretto; del cambio improvviso di prospettiva.

Il libro prosegue come detto a ritroso, in un intreccio fittissimo di storie e diversificati livelli di narrazione cuciti sapientemente, come il filo duro che serpeggia nella pallina da baseball. Una pallina che passa di mano in mano, di decennio in decennio, attraversando sentimenti, passioni e riflessioni con l’intento di narrare, al contempo “tenendo assieme”, i tanti tasselli che formano il mosaico di un’epoca.

Se è difficile trovare un protagonista principale tra le varie finestre narrative aperte dall’autore, è forse plausibile credere che in Nick Shay vi sia più Delillo che in altri personaggi. Da un lato è l’imprenditore dell’immondizia, l’uomo che dai rifiuti trae il proprio sostentamento e le proprie riflessioni, nonché l’ultimo possessore della famigerata palla; dall’altro a Nick è concesso di parlare in prima persona e la sua esperienza di vita, frastagliata da viaggi, incontri dal sapore religioso, passioni e relazioni familiari, fanno di questo ragazzo del bronx (come non pensare all’autore) un punto di riferimento insostituibile per tutta la narrazione.

Come sempre accade nei testi del maestro del postmodernismo, più che la trama o l’intreccio, ciò che rende potente quest’opera è una sapiente alchimia tra poetica e stile. Di certo le vicende sostengo la volontà di lettura, stuzzicando propedeuticamente la curiosità del lettore. Nondimeno il lucido e dissacrante punto di vista dell’autore, unito ad uno stile introspettivo, attuale ed attualizzante, riesce a catturare il lettore in una situazione che supera la semplice passività dell’ascolto. Perché Underworld, è soprattutto un invito, forse un’imposizione alla riflessione sul cosa sia e rappresenti la nostra epoca. Delillo pare ravvisare una relazione logica tra il nostro modo di produrre ed organizzare rifiuti ed il nostro modo di vivere le relazioni e le esperienze. La disumanizzazione dei rapporti, sempre presente nella poetica Delilliana, approda ad una consapevolezza epistemologica, individuando una simmetria tra un sistema di produzione ipertrofico e uno stile di vita sempre, inconsapevolmente vanaglorioso ed eccessivo, schiacciato dalla paura di morire, “di finire in discarica”.

Un’interpretazione che sono convinto vi vedrà concordi, soprattutto se vorrete leggere nella descrizione del Bronx, e più in generale del passato di ogni personaggio, qualcosa di più che semplice nostalgia.

Moltissimi europei parlano di questo libro relegandolo ad un’opera d’arte conchiusa nei confini degli States. Io ritengo, per quel che può valere, che Underworld sia un testo dal respiro globale e che sia riuscito meglio di altri a fotografare i sentimenti di coloro che nel mondo vivono o subiscono il fascino e l’influenza del sistema di produzione occidentale.

Underworld scavando nei rifiuti è riuscito a spiegare i nostri sogni, le nostre paure.

http://www.raccontopostmoderno.com/2011/12/underworld-don-delillo-recensione/

Rumore Bianco di Don DeLillo (con premessa divagante)

Capita di avere un libro a disposizione per molto tempo, ma di non degnarlo minimamente di uno sguardo. Così è stato per Rumore Bianco di Don DeLillo: lo presi anni fa insieme ad altri che facevano parte di una collezione proposta da un noto quotidiano (Repubblica, che non leggevo io perché solitamente non leggo quotidiani, ma mio padre); si trattava di una selezione di cinquantuno capolavori del novecento, italiani e stranieri, e devo ammettere che in effetti conteneva tanti bei titoli, ed anche che è stato divertente collezionarli tutti. E leggerli anche, ovviamente. Ché non sono una di quelli che compra i libri per arredare la casa. Anzi, la casa in cui vivo ringrazierebbe di cuore se ci fossero meno libri sparsi ovunque, ché senz’altro ci guadagnerebbe in ordine e leggerezza. Temo sempre,  un giorno o l’altro, di sprofondare al piano di sotto in seguito al crollo del pavimento incapace di reggere il peso di quell’ultimo volumetto aggiunto. A casa mia i libri sono ovunque, in cucina, in corridoio, in camera, in bagno, in sala, persino nelle cucce dei gatti e del cane. Tutti mischiati in maniera quanto mai eterogenea. Alcuni rispuntano inaspettatamente fuori, quando ormai si credeva di averli persi per sempre. Altri spariscono improvvisamente, salvo poi ricomparire lì, esattamente dove li avevi lasciati, ma che ieri, quando li cercavi, proprio non c’era stato verso di trovarli. Secondo me i libri – almeno quelli che stanno a casa mia – hanno una vita propria; ed anche i personaggi, passano da un libro all’altro scambiandosi ruoli e vicende. Classici con moderni, intraprendenti gentiluomini dell’ottocento con giovani esistenzialisti in preda al vuoto esistenziale, uomini oppressi dalla modernità con picari alla conquista del mondo, fanciulle pie e timorate di Dio con spregiudicate femmes fatales, edizioni più o meno  di lusso con edizioni comprate ai mercatini, pagine strappate, segnate, scarabocchiate, macchiate ed ingiallite (le più belle) con altre dai caratteri nitidi e raffinati, ed ovviamente argomenti di ogni genere, narrativa,  saggistica, filosofia, storia. Si passa dal serio al faceto, dal noir al romanzo di formazione, dal romanticismo al naturalismo, dai grandi autori a quelli meno noti. E tutti sono degni del mio rispetto, amore, attenzione. A tempi alterni, a periodi. Sono un’amante infedele. Mi prendo delle cotte spaventose per un autore, e leggo tutto di lui, e poi improvvisamente lo mollo, mi stufo, passo ad altro. Salvo, a volte, tornare sui miei passi e ritrovare il perché di quell’amore che avevo creduto prima sopito e poi svanito. Faccio risuscitare passioni travolgenti, ritrovo emozioni dimenticate. I grandi romanzi sono come i grandi amori. Si portano sempre con sé (questa me la potevo anche risparmiare!).

Don DeLillo era uno di quelli che – chissà perché – non avevo mai considerato più di tanto. A volte, con certi autori, succede come per certe persone, che magari abitano vicino a te, e le vedi tutti i giorni, e le guardi di straforo, ma non c’entri mai in contatto. Poi, per caso, un giorno, un amico in comune (che non sapevi essere in comune), ti presenta proprio quella persona, quella che vedevi da anni, ma non ti eri mai filata. E ti ritrovi a pensare che forse ti stavi perdendo qualcosa.
Con Don DeLillo è andata proprio così.
E’ andata che tempo fa stavo cercando in internet notizie sui prossimi lavori di uno dei miei registi preferiti, che è David Cronenberg, e sono venuta così a scoprire che sta lavorando ad un nuovo film tratto – guarda caso – da un romanzo di Don DeLillo, dal titolo Cosmopolis. E se Cronenberg – grande appassionato e studioso di letteratura prima ancora che regista (laureato in Letteratura inglese) – legge Don DeLillo, dovrà pur essere indicativo del valore di questo autore, no?
E così, l’attimo dopo, ero già intenta a compiere l’impresa – per niente facile – di far emergere, da tutto quel caos di libri, la copia ancora intonsa di Rumore Bianco.
E dopo questa – estenuante – premessa (ho bisogno sempre di un po’ di rodaggio prima di centrare l’argomento che mi sono prefissa), eccomi qui a tessere le lodi di questo romanzo (e di questa mia nuova passione, lui appunto, Don DeLillo, per cui a breve comprerò anche altre sue opere).
Il romanzo, pubblicato nel 1985, è diviso in tre parti: Onde e RadiazioniL’evento tossico aereo Dylarama. La cosa che più mi ha colpito – oltre ad una scrittura arguta, raffinata e coinvolgente –  è che nella prima parte sembra che l’autore voglia andare in una precisa direzione, salvo poi condurre il lettore, lentamente, al tema centrale della storia. Che è un altro, ma in un certo qual modo conferente al primo.
La voce narrante è quella di Jack Gladney, un professore universitario noto per aver dato vita ad un dipartimento che si occupa di studi su Hitler. Lo affiancano altri personaggi, colleghi universitari e i membri della sua famiglia: la moglie Babette, due figli maschi, di cui uno adolescente, dall’intelligenza sopraffina, ed un altro piccolino, e poi due figlie femmine di età intermedia tra i due maschi (in più, interverrano altri personaggi, anche indirettamente, o solo citati,  a contribuire ad una tessitura a tratti corale: un’altra figlia avuta da un precedente matrimonio, altre ex mogli, l’amico del figlio adolescente, vicini di casa ecc.).
Lo sfondo su cui i personaggi interagiscono tra loro e si muovono è quello di una cittadina americana, né troppo grande, né troppo piccola, ed il quotidiano è un quotidiano ordinario, costellato di piccoli gesti in ambienti domestici e lavorativi; c’è tuttavia un dato saliente che non si può non notare, ed è il continuo riferimento a tutti gli oggetti tecnologici domestici con cui i personaggi hanno a che fare nel corso della loro esistenza; oggetti che, in qualche maniera, divengono, nel romanzo, come una terza entità, astratta eppure ben definita, carica di valenze e significati. Oggetti che definiscono e scandiscono la cultura occidentale, la nostra, come quella della famiglia Gladney: dalla tv alla radio, sempre accese, al tritarifiuti, oggetti che emanano vibrazioni e producono rumore, occupano spazio, invadono la nostra vista e definiscono, con i loro ritmi e tempi, le nostre abitudini;  diverse scene sono ambientate all’interno di un grosso supermercato (e qui ci ho colto diversi riferimenti a J.G. Ballard), ma non è, come potrebbe sembrare,  una critica della modernità ipertecnologica, della perdita di umanità che ne consegue e delle nevrosi tipiche dei nostri tempi, quanto un’osservazione lucida e toccante di un problema antichissimo – oserei dire atavico – che l’uomo si porta dietro dalle origini, e che, nonostante tutto il progresso, le invenzioni ipertecnologiche, le scoperte della scienza in ogni campo, appunto, continua a restare irrisolto. E, anzi, è proprio nel contrasto con tutta questa efficienza tecnologica, che emerge e si fa pressante con un’urgenza ancora più disperata.
Il problema antichissimo è, in sostanza, la paura della morte.
In maniera quasi geniale il lettore viene introdotto a questa problematica nella seconda parte del romanzo, quella in cui tutta la famiglia Gladney, insieme agli altri abitanti della cittadina in cui vivono, è costretta ad evacuare in fretta e furia dalla loro abitazione a causa di una nube tossica aerea che si è sprigionata in seguito alla rottura di un serbatoio contenente Nyodene D, un composto chimico altamente tossico, di cui però ancora non si conoscono bene gli effetti sugli esseri umani.
Timori apocalittici ed un senso di sconforto e disperazione pervadono questa seconda parte, che contiene riflessioni quanto mai interessanti su ciò che definiamo progresso tecnologico e che, in maniera troppo superficiale, siamo pronti a scambiare per vera evoluzione dell’umanità. Soprattutto viene messa a nudo l’illusorietà di trovare conforto in una realtà ipertecnologica, la quale, prima o poi, finirà per sfuggire al controllo delle nostre esistenze (e l’evento tossico aereo funge da catalizzatore di queste riflessioni)  rendendo ancora più evidente ed attivando con ancora più urgenza quel timore di essere nulla di fronte ad un evento così incontrollabile come la morte.
Come se l’essere in possesso di una tecnologia sempre più sofisticata ci potesse fornire la chiave per divenire immortali. Perché il tema portante del  romanzo poi – tutta la terza parte – consiste proprio nel mettere a nudo questa tragedia di tutti gli esseri umani – ed il dolore e terrore che ne consegue – che è data dalla consapevolezza  di dover un giorno morire.
Come si può vivere la vita di tutti i giorni dovendo affrontare, giorno dopo giorno, questa paura della morte? Questa è la domanda chiave che pone Don DeLillo in Rumore Bianco, domanda alla quale i vari personaggi tenteranno di dare una risposta, risposte che costituiranno il dipanarsi degli eventi e dei dialoghi  all’interno della narrazione.
Rimuovere la consapevolezza della morte, quindi eliminarne la paura, sembra essere l’obiettivo principale dell’umanità tutta. E, in quest’ottica, a ben guardare, la tecnologia in cui riponiamo così tanta fiducia ed entusiasmo, potrebbe anche essere vista come l’ennesimo tentativo di ridurre all’impotenza, esorcizzandola, questa paura sempre presente in sottofondo – questo rumore bianco pervasivo – che è presenza costante, che a volte sembra essere rimosso, ma che poi, improvvisamente, torna, e torna, come un ritornello ossessivo, come, appunto, un rumore disturbante e stridente.
Può essere allora che tutti i rumori  – così familiari – della televisione accesa, della radio, del tritarifiuti in funzione, del telefono che squilla, del rombo delle automobili, il brusio delle folle, della gente nei luoghi chiusi (supermercati, luoghi di aggregazione di massa) altro non siano che il tentativo di coprire, di sovrastare quella voce interiore della nostra coscienza, che è la consapevolezza della morte?
E si può mettere a tacere la propria morte uccidendo gli altri?
Farsi causa degli eventi, dirigere il corso di connessioni dall’apparenza casuali, non più subite, ma decise, farsi immensi di potere nel decidere della vita e della morte di chi è impotente di fronte a noi, ennesimo tentativo di mettere a tacere quel rumore perpetuo, assordante, soffocante che ci trasmette continuamente questo pensiero inaccettabile della morte, pensiero che diviene paura, paura atavica, incontrollabile, irremovibile.
– “stai dicendo che l’uomo, nella storia, ha sempre cercato di guarire dalla morte uccidendo gli altri?” (…)
– “in teoria la violenza è una forma di rinascita. Colui che muore soccombe passivamente. L’assassino continua a vivere” (…).
– “L’assassino, in teoria, tenta di sconfiggere la propria morte ammazzando gli altri“.
Ed ecco qui che si fanno strada teorie dietro teorie, ipotesi dietro ipotesi, tutti i modi con cui, da sempre, l’essere umano ha cercato di fronteggiare – tentando di rimuoverla, di eliminarla – la paura della morte.
E vuoi vedere che – se tanto mi dà tanto – anche dietro la volontà di sopraffazione e l’esercizio del Potere alla ricerca della dimostrazione – illusoria – che ci si può sentire forti di fronte al debole che soccombe, si nasconde in realtà il tentativo di dissolvere il peso oppressivo della paura di morire?
Fingersi forti per nascondere la propria fragilità, e fingere di esserlo soprattutto con chi riteniamo più debole, sapendo quanto confrontarsi con chi è – oggettivamente – più debole – sebbene sia uno squallido trucchetto, ci dia l’illusoria sensazione di essere potenti, invincibili. L’illusione di superare tutto, anche la paura più grande di tutte, quella della morte.
Jack Gladney, tenterà di tutto, così come anche sua moglie Babette.
Saranno disposti a qualsiasi cosa pur di guarire da questa paura ossessiva che li sta divorando giorno dopo giorno, persino – Babette – a prestarsi volontaria per l’assunzione di una pillola sperimentale – chiamata Dylar (la terza parte si chiama, appunto, Dylarama) – che potrebbe davvero riuscire ad eliminare dal cervello la paura della morte, anche se a rischio di gravissimi effetti collaterali.
Jack alla fine crederà di aver trovato una soluzione. Che non anticiperò. E  poi capirà che era quella sbagliata.
Mi basti dire che, come al solito, la risposta non potrà essere quella della violenza.
A margine, riflettendo sull’idea folle e sbagliata di uccidere gli altri per sconfiggere la nostra stessa morte (se tu muori, io continuo a vivere), pensavo che magari anche la maniera con cui l’essere umano tratta gli animali potrebbe in realtà nascondere questo – assurdo, inutile – tentativo di sviare la paura della morte da se stesso, rivolgendola altrove, indirizzandola su chi è più debole ed indifeso.
Un grande romanzo. Densissimo di riflessioni. Pagine piene, in cui si avverte a volte la necessità di soffermarsi.
Ho chiuso il libro tante volte, prima di procedere. Anche per un giorno intero. Lo lasciavo riposare. O meglio, lasciavo che le impressioni riposassero in me (cosa strana per me, che in genere leggo velocemente, quasi senza dare respiro alle pagine). Bella scrittura (a parte i refusi della mia edizione, facente sì parte di una bella selezione, ma poco curata). Belle idee. Magari non nuovissime, ma interessante l’intreccio, il modo di anticipare e poi affrontare tematiche, di porre domande e tentare risposte. E bello il significato complessivo. La scoperta di Jack per sconfiggere la paura della morte. E il finale invece opprimente, angosciante, falsamente consolatorio ed illusorio. Ma dal quale si può partire, per riflettere sul mondo che ci circonda e sul senso che diamo a tutta questa tecnologia che ha invaso le nostre esistenze.
Non un romanzo profetico alla Ballard, ma una riflessione lucidissima sull’umanità che – nonostante il progresso tecnologico di cui gode – resta ancorata alle proprie ossessioni, paure e necessità.

http://www.ildolcedomani.com/2011/06/rumore-bianco-di-don-delillo-con.html

cosmopolis | controappuntoblog.org

Questa voce è stata pubblicata in cultura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.