ISIS : Islam contro Islam, Palestina Israele e qualcuno degli altri

ISIS: IL NUOVO STATO DEGLI ULTRA ESTREMISTI ISLAMICI, alla conquista dell’IRAQ (ma con ambizioni su tutto il MEDITERRANEO ORIENTALE) – Guerra di religione e di potere: la resa dei conti tra islamismo moderato e integralista, e i nuovi confini in Medio Oriente – Le gravi ripercussioni mondiali

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L’ ISIS È UNA TRIBÙ DI GUERRA. UN MOVIMENTO BEN ORGANIZZATO. Con un’agenda che non tiene conto dei confini coloniali. Dunque punta alla creazione di uno Stato islamico che, per ora, ingloba una parte di Siria e di Iraq. Un punto di partenza e non di arrivo. (da http://www.dirittiglobali.it/ )

La GUERRA IN SIRIA, la POLITICA INTERNA DEL GOVERNO IRACHENO e gli AMERICANI CHE NON CI SONO PIÙ, sono i tre motivi che hanno portato a una situazione esplosiva in Iraq, dove più di un terzo del territorio è già stato conquistato dagli integralisti islamici ultra-estremisti (per dire: la stessa Al Qaeda li considera troppo violenti!). Sembra comunque essere l’epilogo della guerra di religione (in Iraq) tra sciti (al potere) e sunniti, con i curdi che cercano di approfittarne della guerra civile tra le due fazioni religiose.

IRAQ: CENTINAIA DI SOLDATI DECAPITATI – 23/6/2014 13:51 (da ANSA) – BAGHDAD – In Iraq “centinaia di soldati sono stati decapitati e impiccati a SALAHADDIN, NINIVE, DILAYA, KIRKUK e nelle zone dove si trovano i jihadisti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis)”. E’ quanto dichiarato da Qassem Atta, portavoce per gli affari di sicurezza del premier iracheno NURI AL MALIKI. Secondo al Jazira, i miliziani dell’Isis hanno poi rafforzato il controllo della cittadina strategica di TEL AFAR, TRA MOSUL E IL CONFINE SIRIANO, nel nord ovest del Paese

Quel che stanno tentando di fare gli ultra estremisti islamici che si ritrovano nell’ISIS (che starebbe per ”Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”), dopo che la guerra in Siria ha loro dato nuove possibilità di espansione anche in territorio siriano, è quella di costituire un CALIFFATO, un vero e proprio STATO ULTRA ISLAMICO che, partendo dal controllo di tutto l’Iraq (e la parte nord già la stanno controllando, oltre che una parte della Siria in guerra civile) avrebbe l’ambizione di comprende il cosiddetto “LEVANTE”, cioè l’area del MEDITERRANEO ORIENTALE: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro.

MEDIO-ORIENTE

La cosa più dolorosa è l’enorme esodo della popolazione man mano che gli ultra-integralisti conquistano territori e città irachene, con rischi di epidemie, violenze continue…

Con l’intervento dell’Iran e di altre milizie sciite che fanno riferimento a potenti leader religiosi sciiti locali gli ultra islamisti non potranno (forse) arrivare a Baghdad, cioè conquistare tutto l’Iraq, ma intanto stanno consolidando la loro presenza là dove già ci sono, e questo sta dividendo l’Iraq appunto tra sciti (come Baghdad lo è prevalentemente) e zone sunnite dove gli ultra religiosi si stanno consolidando. E non pensate che siano armati solo di kalasnikov, un po’ sul modello di Al Qaeda: sanno usare benissimo i social network e le più innovative tecnologie informatiche e mediatiche, quest’ultime rivolte in particolare ai “fratelli musulmani” dell’occidente, per invitarli a partecipare alla Jihad, la guerra santa.

Pertanto anche nel Medio Oriente di religione musulmana sta avvenendo una specie di divisione etnica religiosa, con progetti di vita per le persone rivolti al più strenuo rispetto della tradizione conservatrice (tutto da vedere che questo corrisponda al volere delle indicazioni religiose). A rimetterci i diritti delle donne, la chiusura culturale a ogni rapporto con culture occidentali, un clima di terrore….

La creazione di uno stato ultra-islamico, tracciando confini ora in fase di consolidamento tra Iraq e Siria non è comunque una guerra all’occidente: è una guerra a ogni principio di apertura moderata, di tipo democratico, libertario, di riconoscimento delle libertà individuali della persona, che man mano si sta instaurando con sempre maggior solidità nel mondo musulmano. E le primavere arabe ne sono state un’espressione fresca e spontanea: giovani che rivendicavano (rivendicano) libertà di muoversi, di informazione libera, di avere una vita, un futuro, fatto delle speranze degli altri giovani del mondo.

L'AVANZATA DEGLI ULTRA-INTEGRALISTIL’AVANZATA DEGLI ULTRA-INTEGRALISTI

Pertanto gli scontri tra sciti e sunniti (ne diamo qui, all’inizio di questo post, una spiegazione storico-politica del perché di questa divisione) appaiono un pretesto per dimostrare la confusione progettuale di un mondo musulmano, “tentato” dai principi libertari di riconoscimento dei diritti fondamentali della persona (le donne in primis), e dall’altra la paura di perdere una propria identità certa, consolidata, ma che inesorabilmente si va sgretolando.

Pertanto la possibilità concreta, con la guerra attuale in Iraq, di costituzione di una Stato islamico “puro”, ultra-conservatore, è forse frutto più della mancata elaborazione di un progetto politico-religioso del mondo islamico, accettabile per tutta la sua popolazione, che si integri virtuosamente nella contemporaneità del mondo globale, pur conservando dignità e profondo rispetto della propria fede religiosa. A nostro avviso qualcosa possiamo fare noi occidentali: sostenere in tutti i modi le forze islamiche che propugnano il dialogo, evitando che vengano soprafatte dalla violenza dei loro fratelli. (s.m.)

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LE ORIGINI DEL CONFLITTO TRA SCIITI E SUNNITI

1 – Chi sono i sunniti? I sunniti costituiscono da sempre la MAGGIORANZA DEI MUSULMANI. Il loro nome deriva da Sunna, la tradizione dei detti di Maometto a cui si ispirano insieme al Corano. Affermano la legittimità dei primi califfi, successori e compagni di Maometto, e quindi delle successive dinastie che governarono l’Impero musulmano. Per i sunniti IL CALIFFO RAPPRESENTA L’UNITÀ DEI CREDENTI e non ha alcuna valenza religiosa. La loro dottrina e gli aspetti del loro credo si andarono definendo nel corso dei primi secoli di espansione dell’Islam, adattandosi in più occasioni a mediare tra tendenze contrapposte e costumi locali. L’elaborazione formale giuridica convisse infatti accanto alla pietà mistica delle confraternite. Oggi, come nel corso di tutta la loro storia, I SUNNITI CONOSCONO AL LORO INTERNO VISIONI DIVERSE.

2 – Chi sono gli sciiti? Sostengono che il LEGITTIMO SUCCESSORE DI MAOMETTO fosse ‘ALI, suo genero. Il loro nome viene infatti da Shi‘at ‘Ali, che vuol dire «PARTITO DI ‘ALI». Politica e religione si saldano in tale rivendicazione, perché secondo gli sciiti Dio non poteva lasciare la comunità musulmana senza una guida religiosa. SOSTENGONO COSÌ L’ILLEGITTIMITÀ DEI CALIFFI E DELLE DINASTIE SUNNITE, affermando che EREDI DI MAOMETTO DOVESSERO ESSERE GLI IMAM, GUIDE SPIRITUALI, e allo stesso tempo discendenti e successori di ‘Ali. Sull’identificazione di questi imam, gli stessi sciiti però si divisero ben presto in sette diverse. LO SCIISMO OGGI PIÙ DIFFUSO NEL MONDO ISLAMICO È QUELLO COSIDDETTO IMAMITA, o duodecimano, perché identifica una successione di dodici imam. IMAMITI SONO GLI SCIITI IRACHENI E ANCHE QUELLI DELL’IRAN, dove lo sciismo venne imposto come religione ufficiale a partire dal 1500.

3 – Qual è l’origine dei loro contrasti? L’ORIGINE DEI LORO CONTRASTI È DI NATURA POLITICA, e risale al primo periodo della storia dell’islam. Benché dal punto di vista rituale LO SCIISMO IMAMITA non presenti grandi divergenze rispetto al sunnismo, esso SI DIFFERENZIA PER LA DIVERSA CONCEZIONE DELLA SUCCESSIONE DI MAOMETTO. La visione sciita ispirò contrasti e anche feroci rivolte nei primi secoli dell’islam. Ma le rivendicazioni sciite di avere un discendente di Maometto alla guida della comunità hanno conosciuto solo brevi e rari successi, e più spesso sonore sconfitte in oltre mille e quattrocento anni di storia. NEL CORSO DEI SECOLI GLI SCIITI SONO STATI UNA MINORANZA PERSEGUITATA, quando non confinata in aree impervie. La loro storia di sofferenze è ben rappresentata dall’imam Hussein, il figlio di ‘Ali, fatto trucidare dal califfo omayyade sunnita nel 680 d.C. a Kerbela, nell’odierno Iraq.

4 – Qual è l’origine della loro rivalità in Iraq? LA MAGGIORANZA DELLA POPOLAZIONE IRACHENA È SCIITA, per effetto della conversione di tribù nomadi solo a partire dal 19° secolo. Si tratta di una forma di sciismo imamita arabo, con una storia diversa da quello iraniano, da cui è diviso da rivalità e anche visioni diverse su Khomeinismo e sulla Repubblica islamica nata nel 1979. GLI SCIITI IRACHENI SONO SEMPRE STATI POCO INFLUENTI DAL PUNTO DI VISTA POLITICO, anche per le loro divisioni. IL SUNNITA SADDAM HUSSEIN NE DIFFIDÒ, soprattutto negli Anni 80 segnati della guerra con l’Iran. CON LA FINE DI SADDAM e la presenza americana, gli ultimi anni hanno rappresentato UN’OCCASIONE STORICA PER LE LORO ASPIRAZIONI POLITICHE. Ma il loro nuovo ruolo deve fare i conti con il malcontento sunnita, e con la crescente contrapposizione confessionale segnata da attentati e persino minacce jihadiste ai santuari sciiti di Najaf e Kerbela. (da Corriere.it del 15/6/2014)

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IRAQ IN GUERRA

CHE COS’È L’ISIS

di Elena Zacchetti, da IL POST.IT del 19/6/2014 (www.ilpost.it/ )

Negli ultimi dieci giorni l’Iraq – paese a maggioranza sciita con una storia recente complicata e violenta – è stato conquistato per circa UN TERZO DEL SUO TERRITORIO da uno dei gruppi islamici sunniti più estremisti in circolazione, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, noto anche con la sigla “ISIS”.

Non è la prima volta che in Occidente si sente parlare di ISIS: da più di due anni l’ISIS combatte nella guerra civile siriana contro il presidente sciita Bashar al Assad, e da circa un anno ha cominciato a combattere non solo le forze governative siriane ma anche i ribelli più moderati, creando di fatto un secondo fronte di guerra.

L’ISIS è un’organizzazione molto particolare: definisce se stesso come “stato” e non come “gruppo”. Usa metodi così violenti che anche al Qaida di recente se ne è distanziata. CONTROLLA TRA IRAQ E SIRIA UN TERRITORIO ESTESO APPROSSIMATIVAMENTE COME IL BELGIO, e lo amministra in autonomia, ricavando dalle sue attività i soldi che gli servono per sopravvivere. Teorizza una guerra totale e interna all’Islam, oltre che contro l’Occidente, e vuole istituire un califfato non si sa bene dove: ma i suoi capi sono molto ambiziosi.

Oggi l’ISIS è arrivato a meno di 100 chilometri dalla capitale irachena Baghdad. La sua avanzata, rapida e inaspettata, ha fatto emergere i moltissimi problemi dello stato iracheno e ha intensificato le tensioni settarie tra sciiti e sunniti, alimentate negli ultimi anni dal pessimo governo del PRIMO MINISTRO SCIITA IRACHENO NURI AL-MALIKI. Per capire l’ISIS – da dove viene, che strategia ha, dove può arrivare – abbiamo messo in ordine alcune cose essenziali da sapere. Che tornano utili per capire che diavolo sta succedendo in Medioriente, e non solo in Iraq e in Siria.

Da dove viene l’ISIS? Che c’entra al Qaida? Per capire la storia dell’ISIS serve anzitutto introdurre tre personaggi molto noti tra chi si occupa di terrorismo e jihad: il primo, conosciuto da tutto il mondo per gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, è OSAMA BIN LADEN, uomo di origine saudita che per lungo tempo è stato a capo di al Qaida; il secondo è un medico egiziano, AYMAN AL-ZAWAHIRI, che ha preso il posto di bin Laden dopo la sua uccisione in un raid americano ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio 2011; il terzo è ABU MUSAB AL-ZARQAWI, un giordano che dagli anni Ottanta e poi Novanta – cioè fin dai tempi della guerra che molti afghani combatterono contro i sovietici che avevano occupato il territorio dell’Afghanistan – era stato uno dei rivali di bin Laden all’interno del movimento dei mujaheddin, e poi anche di al Qaida.

Nel 2000 Zarqawi decise di fondare un suo proprio gruppo con obiettivi diversi da quelli di al Qaida “tradizionale”, diciamo. Al Qaida era nata sull’idea di sviluppare una specie di legione straniera sunnita, che avrebbe dovuto difendere i territori abitati dai musulmani dall’occupazione occidentale (bin Laden aveva invocato come punto di partenza della sua guerra santa il dispiegamento di mezzo milione di soldati statunitensi nella Prima Guerra del Golfo, nel 1990, intervenuti per ricacciare in Iraq l’esercito di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait). Ma Zarqawi aveva altro in testa: voleva provocare una guerra civile su larga scala e per farlo voleva sfruttare la complicata situazione religiosa dell’Iraq, paese a maggioranza sciita ma con una minoranza sunnita al potere da molti anni con Saddam Hussein.

L’ideologia e la strategia di Zarqawi L’obiettivo di Zarqawi, che si è definito meglio anche con l’intervento successivo di diversi ideologi jihadisti, era CREARE UN CALIFFATO ISLAMICO ESCLUSIVAMENTE SUNNITA. Questo punto è molto importante, perché definisce anche oggi la strategia dell’ISIS e ne determina le sue alleanze in Iraq. In un libro pubblicato nel 2004, e scritto dallo stratega jihadista Abu Bakr Naji, è spiegata piuttosto bene la strategia di Zarqawi: portare avanti una campagna di sabotaggi continui e costanti a siti turistici e centri economici di stati musulmani, per creare una rete di “regioni della violenza” in cui le forze statali si ritirassero sfinite dagli attacchi e in cui la popolazione locale si sottomettesse alle forze islamiste occupanti.

Nella pratica le cose sono andate così. Nel 2003, solo cinque mesi dopo l’invasione statunitense in Iraq, il gruppo di Zarqawi fece esplodere un’autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf durante la preghiera del venerdì: rimasero uccisi 125 musulmani sciiti, tra cui l’ayatollah Muhammad Bakr al-Hakim, che avrebbe potuto garantire una leadership moderata al paese. Fu un attacco violentissimo.

Negli anni gli attentati andarono avanti e nel 2004 Zarqawi sancì la sua vicinanza con al Qaida chiamando il suo gruppo Al Qaida in Iraq (AQI): nonostante la differenza di vedute, l’affiliazione garantiva vantaggi a entrambe le parti, per esempio permetteva a bin Laden di avere una forte presenza in Iraq, paese allora occupato dalle forze americane. Nel frattempo, nel 2006, Zarqawi era stato ucciso da una bomba americana, e il suo posto era stato preso da ABU OMAR AL-BAGHDADI (fu ucciso poi nel 2010, e il suo posto fu a sua volta preso da ABU BAKR AL-BAGHDADI).

L’ISIS di al-Baghdadi e il califfato islamico Il gruppo di al-Baghdadi subì un notevole indebolimento nel 2007 a seguito del parziale successo della strategia di controinsurrezione attuata nel 2007 in Iraq dal generale statunitense PETRAEUS, che prevedeva una maggiore vicinanza e solidarietà delle truppe con la popolazione e che contribuì a ridurre le violenze settarie e il ruolo di al Qaida per almeno due anni.

La strategia di Petraeus si basava su una collaborazione con le tribù sunnite locali, che mal sopportavano l’estremismo di al Qaida: questa strategia oggi sembra inapplicabile, a causa delle politiche violente e settarie che il primo ministro sciita Nuri al-Maliki ha attuato contro i sunniti negli ultimi quattro anni, compromettendo per il momento qualsiasi possibilità di collaborazione.

Nel 2011 il gruppo ricominciò a rafforzarsi, riuscendo tra le altre cose a liberare un certo numero di prigionieri detenuti dal governo iracheno. Nell’aprile del 2013 AQI cambiò il suo nome in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), dopo che la guerra in Siria gli diede nuove possibilità di espansione anche in territorio siriano.

Il fatto di includere la regione del Levante nel nome del gruppo (cioè l’area del Mediterraneo orientale: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro) era l’indicazione di un’espansione delle ambizioni dell’ISIS, ma non ne spiegava del tutto gli obiettivi finali. Zack Beauchamp ha scritto una lunga e precisa analisi dell’ISIS sul sito di Vox, e tra le altre cose ha provato a capire in quali territori il gruppo ha intenzione di istituire un califfato islamico: con l’aiuto di alcune mappe, Beauchamp ha mostrato come gli obiettivi dell’ISIS siano confusi, mutabili nel tempo ma estremamente ambiziosi (in una, per esempio, tra i territori su cui l’ISIS ambisce a imporre il suo controllo c’è anche il Nordafrica).

Quanti sono, quanto sono cattivi e cosa vogliono, quelli dell’ISIS? Charles Lister, uno dei più esperti analisti di jihadismo in Siria e Iraq, ha scritto su CNN che l’ISIS in Iraq è formato da circa 8mila uomini, un numero di combattenti insufficienti di per sé a prendere il controllo delle città conquistate negli ultimi dieci giorni nel nord e nell’est dell’Iraq.

Infatti l’ISIS non ha fatto tutto da solo, ma SI È ALLEATO CON LE TRIBÙ SUNNITE E CON GRUPPI BAATHISTI (cioè sostenitori del partito Baath, lo stessa cui apparteneva Saddam Hussein) dell’Iraq, che hanno un solo obiettivo in comune con il gruppo di al-Baghdadi: rimuovere dal potere il primo ministro sciita iracheno Nuri al-Maliki. Come ha sintetizzato chiaramente il Washington Post, le città ora sotto il controllo dei ribelli sunniti sono 27.

Lister ha scritto che normalmente alleanze di questo genere – formate da gruppi così diversi – non possono stare insieme a lungo, a meno che non si mantenga un clima di contrapposizione totale. In Iraq questo clima è alimentato, tra le altre cose, anche da una delle caratteristiche distintive dell’offensiva dell’ISIS: LA BRUTALITÀ DEI SUOI ATTACCHI. La guerra dell’ISIS sembra una “guerra totale” – come dimostra il massacro di soldati sciiti a Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Sul New Yorker Lawrence Wright ha descritto così il modus operandi del gruppo:

«Bin Laden e Zawahiri avevano sicuramente una certa familiarità con l’uso della violenza contro i civili, ma quello che non riuscirono a capire fu che per Zarqawi e la sua rete la brutalità – particolarmente quando diretta verso altri musulmani – era il punto centrale dell’azione. L’idea di questo movimento era l’istituzione di un califfato che avrebbe portato alla purificazione del mondo musulmano»

La brutalità dell’ISIS era già stata notata da al Qaida nella guerra in Siria: dalla fine del 2013 il capo di al Qaida, Zawahiri, cominciò a chiedere all’ISIS di rimanere fuori dalla guerra (in Siria al Qaida era già “rappresentata” dal gruppo estremista Jabhat al-Nusra). Al-Baghdadi però si rifiutò e nel febbraio del 2014 Zawahiri “espulse” l’ISIS da al Qaida («Fu la prima volta che un leader di un gruppo affiliato ad al Qaida disubbidiva pubblicamente», ha detto un esponente qaedista).

In altre parole l’ISIS si era dimostrata troppo violenta anche per al Qaida, soprattutto perché prendeva di mira non solo le truppe di Assad ma anche altri gruppi dello schieramento dei ribelli sunniti. Alla fine del 2013 l’ISIS, rafforzato dalle vittorie militari in Siria, tornò in Iraq e conquistò le città irachene di Falluja e Ramadi. E poi le altre, negli ultimi dieci giorni.

Come si mantiene l’ISIS? E che possibilità ha di vincere? A differenza di altri gruppi islamisti che combattono in Siria, l’ISIS non dipende per la sua sopravvivenza da aiuti di paesi stranieri, perché nel territorio che controlla di fatto ha istituito un mini-stato che è grande approssimativamente come il Belgio: ha organizzato una raccolta di soldi che può essere paragonata al pagamento delle tasse; ha cominciato a vendere l’elettricità al governo siriano a cui aveva precedentemente conquistato le centrali elettriche; e ha messo in piedi un sistema per esportare il petrolio siriano conquistato durante le offensive militari.

I soldi raccolti li usa, tra le altre cose, per gli stipendi dei suoi miliziani, che sono meglio pagati dei ribelli siriani moderati o dei militari professionisti, sia iracheni che siriani: questo gli permette di beneficiare di una migliore coesione interna rispetto a qualsiasi suo nemico statale o non-statale che sia. Come mostra una mappa risalente al 2006 trovata da Aaron Zelin, ricercatore al Washington Institute for Near East Policy, non si può dire che l’ISIS sia privo di una strategia economica precisa: già diversi anni fa aveva pensato a come sfruttare i giacimenti petroliferi per sostenersi finanziariamente.

In pratica l’ISIS è riuscito finora a massimizzare ciò che gli ha offerto la guerra in Siria. La stessa cosa potrebbe però non ripetersi in Iraq, per almeno due motivi. Il primo è che l’ISIS potrebbe in qualche maniera “fallire” economicamente, perché le sue entrate – che derivano soprattutto da attività illegali a Mosul – potrebbero non essere più sufficienti a sostenere la rapida espansione territoriale di questi ultimi giorni.

Una possibilità è che l’ISIS riuscisse a sfruttare il petrolio iracheno come già fa in Siria nelle aree sotto il suo controllo: in Iraq tuttavia le zone che potrebbe plausibilmente conquistare non hanno giacimenti estensive di petrolio, e le infrastrutture necessarie per il suo sfruttamento non sono sviluppate come quelle siriane.

Il secondo è che l’aggravarsi della crisi irachena ha spinto il governo iraniano a organizzare le proprie forze e intervenire. L’Iran ha già mandato in Iraq circa 500 uomini delle forze Quds, il suo più temibile corpo d’élite appartenente alla Guardia Rivoluzionarie (forza militare istituita dopo la rivoluzione del 1979), specializzato in missioni all’estero e già attivo da tempo in Iraq.

Le forze Quds sono probabilmente il corpo militare più efficiente dell’intero Medioriente, molto diverse dal disorganizzato esercito iracheno che è scappato da Mosul per non affrontare l’avanzata dell’ISIS. Con l’intervento dell’Iran e di altre milizie sciite che fanno riferimento a potenti leader religiosi sciiti locali, è difficile pensare che l’ISIS possa avanzare ulteriormente verso Baghdad – che tra l’altro è una città a grandissima maggioranza sciita – mentre è più facile che provi a rafforzare il controllo sulle parti di territorio iracheno a prevalenza sunnita che è già riuscito a conquistare (i rischi di un massiccio intervento iraniano in Iraq ci sono eccome, comunque, ne avevamo parlato qui). (Elena Zacchetti)

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“JIHAD COME ANTI-DEPRESSIVO” GLI SPOT DELLA GUERRA SANTA

– L’ISIS recluta giovani arabi in occidente. Ed è ormai divenuto un brand –

di Giulia Merlo, da “Il Fatto Quotidiano” del 22/6/2014

LA GUERRA SANTA DEGLI ANNI DIECI È DIVENTATA UN BRAND, e non è mai stata così seducente. Ha i suoi fan, viene finanziata e sponsorizzata sui social network e soprattutto HA IL SUO LOGO: ISIS, scritto in arabo a caratteri bianchi su fondo nero.

Il suo richiamo sta diventando pericolosamente irresistibile per i mussulmani di seconda generazione, cresciuti in Occidente e per questo più sensibili al messaggio antico della Jihad se filtrato in chiave pop.    “

   There is no life without Jihad”, non c’è vita senza la Jihad, è il titolo di un video di 13 minuti diffuso su Youtube, in cui compaiono 3 giovani combattenti inglesi e spiegano le ragioni della loro scelta di unirsi ai guerriglieri dell’Isis.

Sono nella foresta, con il kalashnikov appoggiato alla spalla e la barba ancora corta sul viso. Parlano in inglese, con gli occhi puntati alla telecamera e si rivolgono ai loro coetanei musulmani nel Regno Unito: “Lasciate i vostri grassi lavori, la vostra grande auto”. E aggiungono: “La cura della depressione è la Jihad. Venite a provare l’onore che stiamo provando noi, venite a provate la gioia”. Tradotto: la guerra cura tutto e fa sentire vivi, elimina quell’invenzione moderna che è la depressione, una malattia dell’Occidente molle, pigro e drogato di ricchezza.

UNA SFIDA LANCIATA all’Occidente, spiegata nella sua lingua e con i suoi stessi codici di comunicazione, che è ancora più forte se a lanciarla è un ventenne musulmano cresciuto a Cardiff, che fino a qualche mese prima voleva diventare un medico ed era stato accettato da 4 università, come racconta il padre disperato.

E sembra davvero un’altra epoca, quella delle riprese sgranate di Osama Bin Laden diffuse da Al Quaeda e trasmesse da Al Jazeera, buie e con l’audio scricchiolante. ALLORA, IL DESTINATARIO ERA L’OCCIDENTE, Il nemico da intimorire con un leader fantasma di cui bisognava dare prova dell’esistenza. OGGI, AL QUAEDA È QUASI SCOMPARSA E I VIDEO DELL’ISIS SONO GIRATI CON TELECAMERE AD ALTA DEFINIZIONE, nitidi, sottotitolati e dati in pasto ai media mondiali attraverso i social network.

Ma soprattutto, I DESTINATARI di questa massiccia campagna di comunicazione SONO I MUSULMANI STESSI, quelli trasferiti in America e in Europa e che imborghesiscono cullati dal consumismo. L’obiettivo: richiamarli alle armi a combattere per l’Islam oppure convincerli a finanziare la guerra santa, per creare un grande Califfato islamico che si estenda dall’Iraq alla Siria.

E sembra che la campagna pubblicitaria sia riuscita: secondo fonti internazionali, IL “BRAND” ISIS È IL NUCLEO TERRORISTICO PIÙ RICCO DEL MONDO e anche QUELLO CHE HA INGAGGIATO IL MAGGIOR NUMERO DI COMBATTENTI NON IRACHENI, con oltre l’80% di reclute straniere. Gli jihadisti europei sono già circa 2.300, buona parte dei quali originari di Francia e Regno Unito. 30 di loro vengono anche dall’Italia e almeno 8 sono già morti in Siria, come ha riferito il ministro dell’interno Angelino Alfano.

L’ATTIVITÀ MEDIATICA E SUL WEB DI ISIS CONTINUA A CRESCERE, con trovate sempre più simili a quelle dei marchi delle grandi aziende, che cercando di rendere virale la pubblicità del loro prodotto. L’ultima, in ordine di tempo, è il tweet bombing con l’hashtag #AllEyesOnISIS (tutti gli occhi puntati su Isis).

Il blitz telematico lanciato dall’Isis attraverso il suo sito internet ha chiamato a raccolta migliaia di cybersupporter della Jihad, che hanno inondato il social network con tweet di sostegno ai terroristi.

I messaggi provengono da tutto il mondo, dall’Italia all’Australia fino al Nepal. La maggior parte sono in inglese, spesso aggiungono anche una foto con il simbolo dell’Isis, e sembrano messaggi da cartolina delle vacanze più che attestati di partecipazione a una guerra religiosa che ha già provocato migliaia di morti. Uno di questi, proveniente da @truthsMaster residente a Roma, dice solo “supporto da Roma!!!”, con la foto del Colosseo e davanti un cartello scritto in arabo. Oggi, la guerra santa si combatte anche con lo smartphone. (Giulia Merlo)
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YASMINA KHADRA: «E’ IL SUICIDIO DI UNA GENERAZIONE L’OCCIDENTE HA CREATO SOLO CAOS»

intervista di Francesco Battistini, da “il Corriere della Sera” del 22/6/2014

Yasmina Khadra, fra Iraq e Siria sta nascendo una specie di Jihadistan?

«No. Per quanto pericoloso, il jihad è un fenomeno limitato nel tempo. La gente che l’ha scelto è gente che nel suo Paese non aveva via d’uscita, futuro. E’ il suicidio entusiastico d’una generazione intera di giovani arabi senza più sogni, trasformati nella peggiore mostruosità».

Questi dell’Isis sembrano perfino peggio di Al Qaeda…

«Io non vedo differenze: l’unica è che questi hanno acquisito esperienza attraverso le guerre. Ma la dottrina, l’obbedienza, la volontà di fare del male sono esattamente le stesse. Forse, prima non conoscevano le reazioni e i punti deboli dell’Occidente. Oggi, li hanno scoperti. E sono loro a imporre il gioco al mondo».

E’ lo scontro finale tra sunniti e sciiti?

«Non è ancora la guerra mondiale dei musulmani. Quest’offensiva irachena non accende gli animi, perché è una rabbia che non ha seguito nelle idee. Il progetto del califfato è utopico. E la capacità di resistenza è comunque minima, di fronte all’arsenale dell’Occidente. Tutto quel che fanno i jihadisti serve solo a preparare la controffensiva occidentale».    Se c’è uno scrittore che anticipò il disastro iracheno, e poi lo descrisse con «Le sirene di Bagdad», è questo ex ufficiale algerino che si chiama in verità Mohammed Moulessehoul e che tanti anni fa rubò alla moglie il femminile nom de plume YASMINA KHADRA (GELSOMINO VERDE), per evitare la censura dei suoi generali.

Da militare in congedo, Yasmina non si stupisce troppo dei fantaccini iracheni in rotta: «Quello non è più l’esercito iracheno: un esercito, non lo metti in piedi in cinque anni. Quello vero è scomparso nel 2003. Il problema è che molti militari di allora stanno coi ribelli. E oggi abbiamo i vecchi ufficiali addestrati da Saddam contro i nuovi pagati dagli americani. E’ difficile che questi pivelli tengano testa a combattenti più esperti e motivati».

Anche il nuovo romanzo di Khadra, «Gli angeli muoiono delle nostre ferite» (Sellerio editore), attraversa un’Algeria fra gli anni 20 e 40 che spiega molto delle tensioni di oggi fra Occidente e mondo arabo: «Mi sono chiesto se quel mondo uscito dalla Grande guerra non avesse un po’ cambiato le mentalità, se la gente non avesse cominciato a trovare un po’ più preziosa la vita. La risposta è no: le guerre, allora come oggi, non rendono più intelligenti le persone».

In questo infinito dopoguerra, molti se lo chiedono: non era meglio tenersi Saddam?

«Certamente sì. Se tu America hai una politica e non sai come farla, se ignori la cultura altrui e vuoi dare lezioni di modernità a gente che non ne ha bisogno, se vai a occupare per ritirarti subito, beh, non hai più il diritto di dare la democrazia agli altri. Se la Coalizione fosse davvero intervenuta in Iraq per farla finita con un tiranno, io avrei applaudito. Ma sono venuti a seminare il caos, se ne sono andati e hanno lasciato un popolo abbandonato a queste atrocità. L’unico che ha titolo di decidere la propria sorte e di rovesciare un tiranno, è il popolo. Non c’è bisogno d’un Robin Hood, d’un Tarzan o d’un Terminator. Qualche mese prima della Libia, m’intervistò Der Spiegel : voi andrete a rovesciare un dittatore, dissi, a distruggere un Paese perché avete già in mente i progetti per ricostruirlo, ma non troverete più niente da ricostruire perché la Libia è un Paese tribale e sarà spezzettata, come l’Iraq. Gli occidentali calcolano sempre l’arsenale del nemico, non si chiedono mai che cosa pensi: mentalità, cultura, tradizione, cose essenziali che pesano più delle armi che ha».

Tony Blair non si pente: fosse per lui, bombarderebbe ancora…

«Tutti cercano di giustificare un crimine, per addomesticare i rimorsi. Ma a un leader oggi si chiede la capacità di testimoniare quel che dice: se un giorno i Blair manderanno i loro figli a combattere in terra straniera, forse comincerò ad ascoltarli. E’ venuto il momento di non dare più retta ai politici, ma ai poeti. E il poeta dice che c’è un’unica causa suprema: il diritto alla vita e continuare a vivere, malgrado tutto».

E’ per questo che lei s’è candidato contro Bouteflika, alle ultime presidenziali algerine?

«E’ perché amo il mio Paese: se oggi ne sono emarginato, è perché mi rifiuto d’abbandonarlo. Quando hai fatto otto anni di guerra — queste mani che vedi, e che oggi scrivono, hanno portato dei neonati assassinati —, allora ti senti in colpa. Ti chiedi: perché sono morti gli altri e tu no? E’ l’unico modo che ho di meritarmi la mia sopravvivenza. Forse dipende dall’essere nato nel Sahara: noi del Sahara siamo gente mistica. Da noi, la mancanza di rispetto verso il prossimo è mancanza di rispetto verso Dio. Perché l’essere umano è il capolavoro di Dio».

L’Algeria è stata la prima a finire nel caos jihadista e la prima a uscirne…

«Siamo stati sotto embargo, sono morti 15 mila soldati e 200 mila civili, c’è stato un milione di vittime fra desaparecidos, orfani, vedove… Cifre irachene. Nella lotta al terrorismo, americani ed europei oggi non hanno la nostra stessa capacità ed esperienza. L’esempio algerino sta nel fatto che, dagl’integralisti, ci siamo difesi da soli. Senza aiuti o coalizioni». (Francesco Battistini)

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Lo Stato islamico

GRANO, PETROLIO E FEDE: SEI ANNI DI PREPARATIVI DIETRO L’AVANZATA DEI JIHADISTI DELL’ISIS

di Tim Arango, Kareem Fahim e Ben Hubbardjune Erbil, dal New York Times News, 16/6/2014 (ripreso da “la Repubblica”)

– Grazie a una duplice strategia calibrata per Siria e Iraq, il gruppo ha consolidato la sua avanzata fino a entrare in competizione con la rete del terrore di Al Qaeda –

QUANDO i militanti islamici sono entrati a Mosul la settimana scorsa e hanno rapinato le banche di centinaia di milioni di dollari, aperto i cancelli delle prigioni e bruciato i mezzi militari, una parte della popolazione li ha accolti come liberatori, con tanto di lancio di pietre ai soldati iracheni in ritirata.

Ma sono bastati due giorni ai combattenti dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria per imporre le dure norme della legge islamica in base alla quale intendono governare e per procedere a esecuzioni sommarie di agenti di polizia e operatori governativi. Il blitz ad opera di poche migliaia di combattenti spintisi fino a Mosul e più a Sud sembra aver colto di sorpresa i militari iracheni e americani, ma si tratta in realtà dell’esito di un strategia di statebuilding che il gruppo porta avanti da anni senza farne alcun mistero, anzi, promuovendola pubblicamente.

«Oggi in Iraq assistiamo alla realizzazione degli obiettivi che l’Isi si è posta dalla sua fondazione, nel 2006», spiega Brian Fishman, esperto di antiterrorismo della New America Foundation. L’organismo di cui parla, lo Stato Islamico dell’Iraq, è il predecessore dell’attuale Isis. Il gruppo estremista sunnita si è prefisso di ritagliarsi un califfato, cioè uno stato religioso islamico, che comprenda le regioni irachene e siriane a maggioranza sunnita, documentando ampiamente i progressi realizzati e addirittura pubblicando rapporti annuali sull’avanzamento della strategia.    Sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, in passato prigioniero in una struttura di detenzione americana, il gruppo si è dimostrato violento e risoluto nel perseguire i propri obiettivi religiosi, ma anche pragmatico nello stringere alleanze e nel conquistare e cedere territori. È del 2007 un opuscolo che espone la visione del gruppo per il futuro dell’Iraq. La religione ha la precedenza sull’amministrazione e uno dei principali compiti dei militanti è liberare i sunniti dalle prigioni.

Ai tempi della guerra settaria iniziata nel 2006, i jihadisti si inimicarono la cittadinanza con i loro tentativi di imporre la legge islamica e subirono una serie di sconfitte per mano dei combattenti tribali aderenti alla campagna americana di controinsurrezione, che li costrinsero a ritirarsi dall’Iraq occidentale alle regioni attorno a Mosul. Ma con lo scoppio della guerra civile oltreconfine in Siria tre anni fa, il gruppo individuò nuove opportunità di crescita. Lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria «ha invaso la Siria da Mosul ben prima di invadere Mosul dalla Siria», dice Fishman.

Il gruppo si è rafforzato in Siria grazie a una doppia strategia che prevede da un lato attacchi con l’obiettivo di conquistare risorse come depositi di armi, pozzi di petrolio e granai, evitando dall’altro gli scontri prolungati con le forze governative che hanno polverizzato gli altri ribelli siriani. In Iraq, la resistenza del governo è crollata in molte zone conquistate. A sorpresa, come nel blitz su Mosul, il gruppo ha consolidato il proprio controllo su Raqqa, in Siria, da più di un anno e su Falluja, nell’Iraq occidentale, da sei mesi.

Nei primi mesi dell’anno Al Qaeda ha ripudiato il gruppo, dopo che il leader dell’organizzazione, Ayman al Zawahiri, ne aveva ordinato il ritiro in Iraq per lasciare le operazioni in Siria all’organizzazione locale affiliata ad Al Qaeda, il Fronte Nusra. La frattura ha portato a un’aspra rivalità tra i due gruppi e lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria è entrato in competizione con Al Qaeda per le risorse e per un ruolo preminente nella più ampia comunità jihadista internazionale.

Illuminante per comprendere l’idea che il gruppo ha di se è un video promozionale pubblicato recentemente dal titolo “Il suono delle sciabole”. Vengono mostrati combattenti barbuti, armati, provenienti da tutto il mondo arabo che ripudiano il loro paese d’origine strappando i passaporti, oppure in preghiera nelle moschee o manifestanti la propria fedeltà a Baghdadi. In altre scene si vedono i combattenti che sparano contro presunti appartenenti all’esercito iracheno, li inseguono per i campi, li catturano e quindi li giustiziano.

Il gruppo porta avanti strategie diverse calibrate per la Siria e per l’Iraq. In Siria si è concentrato soprattutto sulla conquista di territori già strappati al governo ma scarsamente controllati da altri gruppi ribelli. In Iraq ha sfruttato la delusione diffusa tra i sunniti rispetto al governo di Al Maliki, per allearsi con altri gruppi militanti sunniti, come un’organizzazione guidata da ex funzionari del partito baahtista di Saddam Hussein.

Benché molti di questi gruppi, inclusi i baahtisti ed altre milizie tribali si siano apparentemente unite all’Isis per combattere il comune nemico, l’organizzazione e le risorse del gruppo potrebbero invogliarle a stringere un’alleanza più duratura, rendendo ancor più arduo per il governo di Maliki ristabilire il controllo.  (New York Times News Service. Traduzione di Emilia Benghi)

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BARRIERE DI CEMENTO E ODIO SETTARIO

di Lorenzo Cremonesi, da “il Corriere della Sera” del 21/6/2014

I muri ritornano a dividere Bagdad: alti 4 metri, eretti tra sciiti e sunniti, intorno a caserme e checkpoint –

BAGDAD — I muri sono tornati. Li vedi subito viaggiando dall’aeroporto internazionale sulla superstrada che conduce al centro. Guardi verso Abu Ghraib e le regione di Al Anbar, dove sono attestate le avanguardie della rivolta armata sunnita, e ringrazi per la presenza di queste lunghe barriere lungo il percorso.

Si trovano sui perimetri delle caserme, ai nuovi posti di blocco militari. Sono tornati a tracciare la divisione tra i quartieri tradizionalmente più violenti, tra i luoghi di incontro nelle aree a popolazione mista. Li stanno ampliando presso la «zona verde», dove sono gli edifici governativi e le ambasciate straniere, attorno agli ospedali maggiori. Hanno alzato quelli che circondano i grandi alberghi a piazza Furdus.

Così sono tornati i muri. Non solo quelli fisici, ma soprattutto quelli nella testa degli uomini, che dividono, separano, ingigantiscono le diversità, trasformano il vicino in nemico e stravolgono le città in labirinti di paure. Alti quasi quattro metri, brutti, sgraziati, intrusivi. Barriere in cemento grigio composte di pannelli pesanti sino a mille chili. Sono tornati i muri ed è curioso come all’improvviso gli abitanti di Bagdad si accorgano di loro.

Poiché, intendiamoci, questi muri hanno già quasi otto anni. Quando vennero eretti, nel pieno della guerra civile nel 2006-2007, la popolazione li accolse con sollievo. Ogni mese morivano mediamente 3.000 persone, in maggioranza civili, sorpresi nel mezzo di uno scambio a fuoco, vittime degli attentati suicidi, delle auto bomba, o semplicemente di un loro errore per avere infranto i confini non codificati delle nuove divisioni inter-etniche, dell’odio settario e religioso.

Poi gli americani, grazie alla cooperazione dei grandi clan sunniti, riuscirono a isolare la guerriglia qaedista e pacificare la regione. Di conseguenza i muri diventarono superflui, persino provocatori. «Perché le barriere? Gli iracheni sono un popolo pacifico che ama l’unità», sostennero tanti già nel 2009 e poi al momento del ritiro militare americano due anni dopo.

Fu così che tratti delle barriere più lunghe vennero rimossi, o semplicemente furono tolti alcuni pannelli, aprendo ampi varchi che nei fatti nullificavano l’opera intera. Per qualche tempo sembrò che Bagdad potesse tornare normale, aperta, accessibile.

Ma è proprio il riaffacciarsi della guerra settaria a riproporre i muri. In città i posti di blocco sono in media 500 metri l’uno dall’altro. Il premier sciita Nouri al Maliki li aveva voluti per garantire il successo delle elezioni parlamentari del 30 aprile scorso. Non sono stati più tolti. Ieri, in occasione della giornata di preghiere nelle moschee per il venerdì musulmano, i quartieri (oltre 400 nell’intero nucleo urbano che supera i 7 milioni di abitanti) parevano tanti microcosmi semi-autonomi. Traffico scarso sulle vie di collegamento, ma forti intasamenti presso le moschee locali.

Bagdad è divisa in due parti dal Tigri. Dopo i trasferimenti etnici semi-forzati seguiti all’invasione anglo-americana del 2003, gli sciiti si sono concentrati sulla sponda orientale, i sunniti in quella occidentale. Fanno eccezione i due quartieri tra i più importanti del centro, Adhamiya, sunnita, e Kadhimiya, sciita. E’ qui che avvengono in genere le stragi più gravi. Ad Adhamiya abbiamo visto numerose milizie armate non governative fare la guardia a negozi, centri commerciali e piazze.

«Non è vero che la rivolta sunnita è fatta di terroristi. Chi lo afferma dimentica che sette anni fa i nostri leader politici e i capi tribali furono pronti a collaborare con gli americani per battere al Qaeda. Ma poi Maliki ci ha ignorato e perciò ora i sunniti si ribellano. Noi difendiamo la nostra rivoluzione, che combatte contro i nemici settari”, sostiene Abu Mohammad, un tecnico petrolifero 42enne.

Il quartiere è povero, molto meno sviluppato di Khadimiya. Quest’ultimo si raggiunge attraverso il ponte di Al-Aaimmah, dove il 31 agosto 2005 quasi mille sciiti persero la vita in seguito agli scontri con i sunniti e l’intervento della polizia. Molti saltarono nel fiume per non essere schiacciati dalla folla. E alcuni vennero salvati in acqua dai sunniti. Un fatto che allora fece sperare nella cooperazione per porre fine al conflitto. Ma così non è stato. Ieri gli sciiti promettevano di «combattere sino alla morte» per fare fronte all’offensiva nemica.

«Gli oltranzisti sunniti vanno battuti, a tutti i costi. In ogni casa sciita ci si sta preparando alla battaglia finale. Però Maliki ha sbagliato politica. Non è riuscito a inglobare sunniti e curdi nel suo governo. E’ ora che lasci per facilitare la nascita di una coalizione di unità nazionale. Sarebbe gravissimo dovesse tornare premier per il terzo mandato di fila», dice Jabbar, 42enne impiegato.    A lui fanno eco, però, più militanti che mai, le frotte di giovani che stanno rispondendo agli appelli del Grande Ayatollah Alì al Sistani per la difesa dei luoghi santi dello sciismo. A Sadr City, il gigantesco quartiere sciita (oltre 2 milioni di abitanti) posto alla periferia orientale, oggi si terrà una grande manifestazione destinata a raggiungere il cuore di Bagdad.

«Ci stiamo mobilitando in massa. Qui a Sadr City ci sono quasi 5.000 volontari divisi in tre milizie principali. Abbiamo armi e preparazione», promettono due trentenni, che però confessano di non essere riusciti ad ottenere un fucile. Poco lontano, nel quartiere misto di Karada, la zona commerciale, le teste di cuoio dei commando presidenziali sembrano molto più pessimiste: «Siamo stati traditi. I nostri comandanti sono scappati di fronte alla guerriglia sunnita nel nord. E i curdi ci sparano contro. In queste condizioni la sorte di Bagdad è più caduca che mai». (Lorenzo Cremonesi)

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PERCHÉ IN IRAQ LE COSE VANNO COSÌ MALE?

da IL POST.IT del 12/6/2014 (www.ilpost.it/ )

– Per tre motivi, spiega il New Yorker: c’entrano la guerra in Siria, la politica interna del governo iracheno e gli americani che non ci sono più –

La stampa di tutto il mondo è tornata a occuparsi dell’Iraq, uno dei paesi più instabili del Medio Oriente. Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) – gruppo estremista islamista che ha come obiettivo l’istituzione di un califfato islamico nella regione e che combatte anche nella vicina Siria – ha preso il controllo prima di MOSUL, seconda città più grande dell’Iraq e capoluogo della provincia di Ninawa, e poi di TIKRIT, capoluogo della provincia di Salaheddine e città natale dell’ex presidente Saddam Hussein. Nella notte tra mercoledì 11 e giovedì 12 giugno le forze dell’ISIS hanno raggiunto la città di SAMARRA, a circa 110 chilometri a nord di Baghdad. Tra la fine di dicembre 2013 e l’inizio di gennaio 2014 l’ISIS aveva già conquistato altre due città irachene, RAMADI e FALLUJA, entrambe nella provincia di Anbar (Ramadi ne è anche il capoluogo).

In pratica, sintetizzando parecchio, la situazione dell’Iraq è questa: a Baghdad c’è un governo guidato da un primo ministro sciita, Nuri al-Maliki, che non ha le capacità di controllare tutto il territorio nazionale. Tre capoluoghi di provincia e la città di Falluja sono nelle mani di uno dei gruppi sunniti più estremisti della regione, l’ISIS, che da circa un anno ha rotto i rapporti con i vertici di al Qaida guidata dal medico egiziano al Zawahiri (il successore di Osama bin Laden).

I miliziani dell’ISIS, oltre ad avere cacciato i soldati iracheni dalle città occupate, hanno cominciato in un certo senso anche a “governare” e gestire le istituzioni locali, come i tribunali. Ai miliziani dell’ISIS si sono poi aggiunti altri gruppi sunniti, che non necessariamente hanno i loro stessi obiettivi: per esempio negli ultimi tre giorni hanno partecipato agli assalti gruppi militari baathisti – cioè legati al partito Ba’th, la forza politica prevalentemente laica a cui faceva riferimento Saddam Hussein in Iraq e a cui appartiene l’attuale presidente siriano Bashar al Assad.

La situazione è complicata ancora di più da quanto successo nella mattina di giovedì 12 giugno, quando diversi combattenti curdi hanno preso il controllo della città di Kirkuk – capoluogo della provincia di Kirkuk, a circa 250 chilometri a nord di Baghdad – dopo l’abbandono dei soldati iracheni. Sull’offensiva dei curdi si possono fare due osservazioni generali: la prima è che il governo regionale del Kurdistan iracheno – in pessimi rapporti con il governo di Baghdad – potrebbe sfruttare il momento di grande debolezza di Nuri al-Maliki per mettersi nelle condizioni di poter negoziare su alcuni temi (come i contratti petroliferi con le aziende straniere) da una posizione di forza. La seconda riguarda la più ampia comunità curda presente sia in Iraq che in Siria.

Da mesi alcuni gruppi di curdi siriani hanno cominciato ad organizzarsi in milizie per frenare l’avanzata dell’ISIS nel nord est del paese, e più recentemente si sono mobilitati anche i curdi iracheni: mercoledì 11 giugno il Governo regionale del Kurdistan iracheno ha incitato gli abitanti della regione a resistere all’offensiva dell’ISIS. Intanto ha dispiegato migliaia di soldati del Peshmerga – termine che significa “quelli che affrontano la morte” e indica la milizia curda ben addestrata controllata dal governo regionale – attorno al confine meridionale della comunità autonoma curda.

Diversi autorevoli giornali hanno definito l’offensiva dell’ISIS a Mosul e Tikrit come “inaspettata” per la sua rapidità e intensità, ma piuttosto prevedibile come sviluppo di medio periodo, considerate le difficoltà recenti del governo di Nuri al-Maliki. Una delle analisi più sintetiche ed efficaci su quello che sta accadendo in Iraq l’ha fatta l’esperto giornalista Dexter Filkins sul New Yorker. Secondo Filkins il collasso dello stato iracheno è legato a tre cose: la guerra in Siria, le politiche di al-Maliki e il ritiro dei soldati statunitensi alla fine del 2011.

1. La guerra in Siria La prima cosa da sapere è che Siria e Iraq condividono un confine lungo qualche centinaio di chilometri che viene spesso definito “poroso”, nel senso che è piuttosto semplice far passare cose e persone da una parte all’altra senza particolari problemi e controlli. La maggior parte del territorio iracheno che confina con la Siria è a prevalenza sunnita, l’orientamento maggioritario dell’islam a cui appartengono i ribelli che stanno combattendo contro Assad in Siria. Alcuni gruppi, come l’ISIS, hanno saputo sfruttare queste due condizioni per estendere il proprio controllo al di qua e al di là del confine, muovendosi liberamente e facendo passare combattenti e armi. Questo ha reso ancora più difficile per il governo siriano e per il governo iracheno stabilire un controllo sul territorio, e combattere i miliziani sunniti.

2. Le politiche interne di Nuri al-Maliki Secondo Filkins la gestione del potere del primo ministro sciita iracheno è l’elemento predominante tra quelli che spiegano il perché le cose in Iraq stanno andando così male. Dalla destituzione del presidente sunnita Saddam Hussein, Al-Maliki ha portato avanti politiche settarie molto dure contro i sunniti, per colpirli e indebolire il loro potere decisionale nel governo (uno dei casi di cui si parlò molto alla fine del 2011 fu l’arresto di uno dei due vicepresidenti dell’Iraq, il sunnita Tareq al-Hashemi, accusato di terrorismo ma per molti obiettivo della politica settaria di al-Maliki). Gli Stati Uniti, scrive Filkins, riuscirono in tre anni – dal 2006 al 2009 – a rimediare alle disastrose conseguenze delle violenze settarie del governo iracheno sciita. Poi però i soldati americani se ne andarono, e le cose cominciarono a peggiorare: al-Maliki cominciò ad accentrare il suo potere e a colpire esponenti sunniti con arresti e repressioni.

3. Lo stato iracheno distrutto e mai ricostruito Quando i soldati statunitensi invasero l’Iraq nel marzo del 2003 distrussero in pochissimo tempo tutto l’apparato statale del paese – esercito, burocrazia e polizia. Nei successivi nove anni gli americani cercarono di ricostruire ciò che era stato distrutto, ma se ne andarono prima che il lavoro fosse completato. Il presidente statunitense Barack Obama e il primo ministro iracheno al-Maliki parlarono a lungo della possibilità di mantenere un gruppo di militari statunitensi in Iraq con funzioni di intelligence per limitare la ribellione sunnita: poi però i negoziati fallirono, sia per la generale volontà di Obama di andare via dall’Iraq sia per mancate garanzie di sicurezza fornite da al-Maliki.

Il risultato di questi tre elementi – la libertà di movimento e il rafforzamento dell’ISIS e di altre milizie sunnite, l’aumento delle violenze settarie tra sunniti e sciiti, e la debolezza delle strutture statali irachene – sono stati individuati da Filkins e da altri esperti come i tre elementi centrali per spiegare la situazione fuori controllo dell’Iraq di oggi. Per il momento, nonostante le richieste di assistenza rivolte da al-Maliki al presidente statunitense Barack Obama, sembra che l’amministrazione americana non voglia avere a che fare troppo con i guai dell’Iraq: come scrive il New York Times, sembra infatti che Obama abbia rifiutato la richiesta irachena di compiere degli attacchi aerei sui militanti sunniti nelle zone in cui è più forte la presenza dell’ISIS.

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IRAQ, IL RECLUTAMENTO DEGLI INNOCENTI: BAMBINI ARRUOLATI NELL’ESERCITO CONTRO L’AVANZATA DEI JIHADISTI DELL’ISIL

di Francesca Sforza, da “la Stampa” del 17/6/2014

BAMBINI AL FRONTE BAMBINI AL FRONTE

   Nessuno di noi, osservatori occidentali, sa esattamente che cosa sta succedendo tra la gente irachena nei giorni dell’avanzata islamica verso Baghdad. Ma certo, a guardare le foto di bambini caricati sui camion e con le armi in mano è difficile pensare che si tratti soltanto di un gioco, anche se alcuni di loro sorridono agli obiettivi.

Se mai sopravviveranno al macello verso cui li stanno trascinando, l’odore del sangue e delle armi da fuoco resterà come un marchio nelle loro teste. E farà di loro un’altra generazione gettata allo sbaraglio, come già ne abbiamo viste in Africa, nel Caucaso, in America Latina. Ragazzi che hanno conosciuto la violenza come unità di misura del mondo, e a cui non si potrà poi chiedere di partecipare a processi di pace o a transizioni pacifiche e pretendere anche che capiscano.

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L’IRAQ ALLA PROVA DEI FATTI: IL FALLIMENTO DELLA POLITICA STATUNITENSE

di Vincenzo Romano, dal sito Europionione.it del 18/6/2014 (http://www.europinione.it/ )

Un quadro generale. La situazione in Iraq muta continuamente, e richiede uno sforzo d’analisi sempre maggiore. Prima di passare al vaglio tutti gli elementi di cronaca che giungono fino a noi è necessario fare un passo indietro che ci permetta di contestualizzare la cronaca stessa e di avere così un quadro complessivo della situazione.

LA POLVERE NASCOSTA. Il punto di partenza della nostra analisi è il 30 aprile scorso, giorno in cui è stato rieletto a Primo ministro Al-Maliki. Questa circostanza è stata evidentemente fonte di tensione tra le forze che hanno a lungo combattuto il sistema di potere da esso incarnato. Ma è altrettanto evidente che i segnali di una possibile destabilizzazione del territorio iracheno erano ben visibili già da prima: è da due anni che le province occidentali, a maggioranza sunnita, protestano contro il regime (percepito come anti-sunnita) per gli abusi commessi dalle autorità amministrative locali nei confronti della popolazione: molti gli arresti ed altrettanti i massacri[1], nonché l’accanimento nei confronti di esponenti arabo-sunniti di primo piano[2].

Questa forte rottura tra l’establishment iracheno e la popolazione sunnita[3] ha permesso allo Stato Islamico dell’Iraq (dal 2013 Stato Islamico dell’Iraq e della Siria – ISIS; noto anche come Daesh) di svilupparsi ulteriormente e di reinsediarsi nella zona nord-occidentale del paese, in particolare nella provincia di Niniveh, fino a prendere la settimana scorsa la seconda città irachena, Mosul. Nella fattispecie, il movimento islamista era già presente da tempo nella zona mantenendo, per un verso, un basso profilo nelle azioni militari, per l’altro, un penetrante controllo del territorio (nella città e nel suo hinterland) posto in essere con atti di racket, gestione dei traffici illeciti, rapimenti ed uso della violenza nei confronti delle minoranze locali. L’ISIS ha così atteso il momento propizio per poter tornare a far sentire la propria voce e raggiungere l’obiettivo della creazione di un emirato islamico contiguo tra Levante e Mesopotamia e forte anche della sua presenza in territorio siriano.

LA PRESA DI MOSUL. Altro punto di svolta, è stata la presa della città di Mosul lo scorso 10 giugno, evento questo, che ha portato ad un’ulteriore fonte di destabilizzazione nell’area. La città, infatti, costituisce il principale snodo per i traffici commerciali iracheni verso la Turchia e la Siria facendone una città a forte rilevanza geostrategica. Inoltre, il governatore della città, Al-Nujaifi, è il fratello del leader del principale partito arabo sunnita iracheno ed uno dei principali oppositori del primo ministro Al-Maliki. Non è una circostanza fortuita che Al-Nujaifi abbia mosso fortissime critiche al premier per la gestione della crisi nella regione settentrionale con atti che possano direttamente favorire i miliziani di ISIS.

L’AVANZATA VERSO SUD. Negli ultimi giorni abbiamo assistito ad una lenta avanzata verso sud dei contingenti dell’ISIS, riusciti ad attaccare e conquistare la città di Tallafar, a 350 km a nord-ovest di Bagdad, che sembra ormai già pronta ad essere il prossimo teatro di un conflitto civile. A tal proposito gli abitanti della capitale stanno raccogliendo l’invito delle autorità civili e religiose sciite a prendere le armi per proteggere la città in vista dell’arrivo degli estremisti islamisti. Questo ha portato all’ avvicinamento “innaturale” tra questi ultimi e ciò che resta del partito Baath iracheno (formazione laica un tempo guidata da Saddam Hussein).

EMERGENZA UMANITARIA. Altra questione sollevata dalle destabilizzazioni delle milizie islamiste, riguarda la crisi umanitaria che sempre più pesantemente si sta facendo sentire nella regione settentrionale: centinaia di migliaia sono gli sfollati[4] che si stanno mettendo in fuga dalla città e dalle aree circostanti, in direzione dei campi organizzati in prossimità dell’Iraq centrale e del vicino Kurdistan iracheno.

LA POSIZIONE DEGLI STATI UNITI. In questo quadro, gli Stati Uniti sembrano a prima vista avere un approccio ambiguo nei confronti dei miliziani dell’ISIS, che sono ben accetti in Siria e malvisti in Iraq. La risposta a tale incongruenza è al contrario molto lineare: in Siria sono tollerati a causa della evidente opposizione statunitense al regime di Al-Assad, mentre sono fortemente osteggiati in Iraq a causa dell’appoggio dato da Washington al regime di Al-Maliki.

L’AVVICINAMENTO STATUNITENSE DELL’IRAN. Per contrastare questi ultimi in Iraq, gli USA sarebbero addirittura disposti ad accettare un accordo con il loro principale nemico nell’area: l’Iran, baluardo degli sciiti iracheni. Le dichiarazioni del Segretario di Stato John Kerry, sono in tal senso, inequivocabili: “Siamo aperti al dialogo se ci saranno aspetti sui quali l’Iran possa dare un contributo costruttivo”, ed ancora, “se l’Iran è pronto a muoversi nel rispetto dell’integrità e della sovranità dell’Iraq e della capacità del governo a fare le riforme”. La portavoce del Dipartimento di stato Jen Psaki ha però precisato che fra i due governi non ci sarà un vero e proprio coordinamento militare. Dall’altra parte, le due principali potenze sunnite della regione, Arabia Saudita e Qatar, stanno puntando il dito contro il premier sciita Al-Maliki, responsabile, secondo loro, di una cattiva gestione della crisi nell’area.

Le ultime notizie (17 giugno) registrano l’impegno americano in Iraq contro l’avanzata degli jihadisti: Barack Obama ha annunciato l’invio di 275 soldati per la protezione dell’ambasciata a Bagdad, con il preventivo consenso di Al-Maliki, ma ha oggi escluso gli attacchi aerei in quanto ci sarebbero pochi obiettivi precisi per fermare l’avanzata dei militanti dell’ISIS. L’aviazione irachena ha confermato ieri i raid contro postazioni dei ribelli a Nord di Bagdad. Altri bombardamenti sono stati effettuati contro veicoli di militanti sunniti a Mosul, dove sta continuando l’esodo di migliaia di residenti. Intanto da Tunisi il gruppo islamico jihadista libico “al Nusra” minaccia di vendicarsi sui cittadini statunitensi presenti in Libia come reazione al rapimento del leader Abu Khattala per mano USA.

IL RUOLO DI WASHINGTON. Quali che saranno le prossime mosse del governo statunitense, una cosa appare chiara: Washington non potrà all’improvviso voltare le spalle al governo iracheno. La presenza statunitense sul territorio ha cercato di arginare l’avanzata jihadista nella regione, con risultati ad oggi molto deludenti. Il processo di stabilizzazione delle autorità governative irachene, a tutti i livelli, richiederà ancora impegno (e tempo) di cui dovrà farsi carico la principale potenza mondiale. Anche se controvoglia.

[1] Il più noto è quello di Hawija, nel quale hanno perso la vita oltre 200 persone tra manifestanti e forze di sicurezza

[2] Primo fra tutti il mandato di cattura emesso contro l’allora vice-presidente al-Hashimi, fino ad arrivare all’arresto di Al-Alwani

[3] Circa il 40% dei musulmani iracheni sono di religione sunnita, mentre il restante 60% sciita

[4] Ad oggi il numero degli sfollati si attesta sulle 300.000 unità, che vanno ad aggiungersi al mezzo milione di rifugiati che già contava il paese, Fonte dati ONU

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IRAQ - AREE FISICO CLIMATICHEIRAQ – AREE FISICO

http://geograficamente.wordpress.com/2014/06/23/isis-il-nuovo-stato-degli-ultra-estremisti-islamici-alla-conquista-delliraq-ma-con-ambizioni-su-tutto-il-mediterraneo-orientale-guerra-di-religione-e-di-potere-la-resa-dei-cont/

ISIS lancia l’offensiva anche in Iran

Da giorni le tv di tutto il mondo ripetono come i militanti dell’ISIS proseguano la loro avanzata all’interno dell’Iraq, conquistando città e procedendo ad esecuzioni sommarie di militari e altri agenti di sicurezza catturati. Quello che quasi nessuno ha detto è che i jihadisti hanno sferrato un attacco anche alle guardie di frontiera iraniane vicino alla località diQasre Shirin, al confine con l’Iraq. Il fatto sarebbe avvenuto qualche giorno fa, ma si è saputo solo ieri attraverso il passaparola sui social media, stante la consueta censura di Teheran ogniqualvolta si verifichino incidenti di frontiera con Baghdad.

Tra le prove dell’avvenuto scontro circola questa fotografia dei corpi di due funzionari di Teheran uccisi. È probabile che sia stata anche la diffusione di questa immagine a convincere le autorità iraniane a fare chiarezza sui fatti di Qasre Shirin. Il primo a parlarne apertamente è stato Fath Allah Hosseini, deputato locale nel Parlamento iraniano, il quale tuttavia ha cercato di “minimizzare” la vicenda, ripetendo che le frontiere iraniane sono sicure e che in ogni caso i residenti di Qasre Shirin non temono un’avanzata dell’ISIS fino alla frontiera. In seguito, in una dichiarazione all’agenzia di stampa YJC, il generale di brigata Ahmad Reza Pourdastan ha confermato che l’incidente ha avuto luogo, aggiungendo però che gli aggressori appartenevano al Partito per la vita libera del Kurdistan, gruppo militante curdo conosciuto anche con l’acronimo Pejak.

Le parole di Pourdastan però non convincono. I curdi sono già impegnati nei combattimenti contro l’ISIS nella località di Jalula, nella parte sudorientale del Kurdistan iracheno, e non hanno alcun interesse ad aprire un secondo fronte addirittura con l’Iran.L’impressione è che il generale abbia preferito attribuire la paternità dell’attacco ai curdi per non generare timori nella popolazionea proposito di un’invasione da parte dei jihadisti. Quello che Pourdastan ha dovuto riconoscere è che le truppe al confine con l’Iraq sono state messe in stato di allerta. Le tensioni tra Teheran e l’ISIS sono una novità recente. In precedenza il gruppo aveva annunciato una tregua nei confronti della Repubblica degli ayatollah allo scopo di mantenere aperte le sue rotte di approvvigionamento attraverso il territorio persiano, ma il mese scorso, in seguito agli scontri con gli altri gruppi ribelli attivi in Siria (Jabhat al-Nusrah in particolare) legati ad al-Qa’ida, l’ISIS ha deciso di venir meno all’accordo. Da quel momento, gli attacchi suicidi contro cittadini iraniani in Iraq si sono moltiplicati. La scorsa settimana, l’ISIS ha anche iniziato a diffondere la propria propaganda in farsi, la lingua nazionale dell’Iran. Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante non è un’organizzazione terroristica come le altre. Al di là del fatto di aver reciso gli originari legami con al-Qa’ida, l’originalità del gruppo sta nell’essersi convertita da formazione di guerriglia a vera e propria forza d’occupazione, facendo un salto di qualità che ad altre sigle era finora mancato. Tuttavia un’operazione contro l’Iran si presenta rischiosa.

Non perché l’ISIS non abbia i mezzi per potersi confrontare contro un esercito regolare: la difficoltà sta nell’essersi espansa troppo velocemente su un territorio completamente circondato da nemici: Usa, al-Qa’ida, Assad, gli altri insorti siriani, turchi, curdi e ovviamente l’Iran. Eppure i miliziani non hanno avuto remore nell’aprire il fuoco contro le guardie di frontiera. Viene da chiedersi, insomma, come mai i militanti dell’ISIS abbiano deciso di estendere la propria avanzata fino ai confini con il vicino Iran. Di primo impatto, la risposta sarebbe quella di voler “punire” il regimo iraniano per il suo sostegno al governo sciita di Nuri al-Maliki., ma questo non spiega come mai l’attacco sia partito proprio ora, visto che Teheran sponsorizza il premier iracheno da sempre. In realtà la situazione è più complessa. Il fatto che i canali d’approvvigionamento via Iran non siano più necessari è indice del fatto che i jihadisti ne abbiano trovati altri, e probabilmente ben più fruttuosi. Quelli che portano alle petromonarchie del Golfo, ad esempio, Paesi che per affinità confessionali e legami storici (le connivenze tra ricche famiglie saudite e organizzazioni jihadiste sono noti da tempo) hanno tutto l’interesse tanto a rovesciare il governo sciita in Iraq quanto ad indebolire il vicino Iran. Il silenzio dell’Arabia Saudita sulla crisi irachena, il “non detto” di re Abdullah, spiega molto più di qualsiasi detto.

Non dimentichiamo che Ryad si è sempre rifiutata di inviare un proprio ambasciatore a Baghdad, non riconoscendo l’autorità del governo locale perché ritenuto alla mercé dell’Iran. L’offensiva dell’ISIS verso quest’ultimo potrebbe essere il primo atto della resa dei conti tra i sauditi e il loro ingombrante vicino.

http://geopoliticamente.wordpress.com/2014/06/24/isis-lancia-loffensiva-anche-in-iran/

Israel wants to go after Hamas, but doesn’t want all-out war with Gaza

The key Hamas leadership is in the Strip but an escalation there, in response to the killing of the three teens, would bring dozens of missiles down on Tel Aviv

By Avi Issacharoff July 1, 2014,

Israeli soldiers preparing their tanks along the Israeli-Gazan border for a possible ground operation inside Gaza on the third day of Operation Pillar of Defense, November 16, 2012 (Uri Lenz/ Flash90)

In the course of the late night cabinet meeting in Jerusalem on Monday, all kinds of ideas for the appropriate Israeli response were aired. The demolition of houses, the deportation of prisoners, an assault on Gaza, and more besides. But the security establishment knows demolishing homes or exiling prisoners will not reduce the motivation of the terrorists, certainly not those from Islamist organizations.

Hamas has learned how to compensate the families of terrorists whose homes are demolished; they’ve been given more than enough money to rebuild those homes. As for the deportation of prisoners, that has become a double-edged sword: Palestinian prisoners released from Israeli jails and exiled have, from their new homes and offices in Gaza, Arab states and Turkey, overseen intensive efforts to establish terrorist infrastructure in the West Bank. There, in the “diaspora,” spared the relentless threat of arrest or elimination, these deported ex-convicts are able to cause no less damage, and often more, than those of their colleagues still in their West Bank homes under the close supervision of the Shin Bet and the Palestinian security forces.

If Israel wants to take action against the Hamas leadership, the central address was and remains the Gaza Strip, even if there’s no proof at this stage of a connection between the terror cell that kidnapped and killed Eyal Yifrach, Gil-ad Shaar, and Naftali Fraenkel, and the heads of Hamas in the Strip. However, despite the pressure of public opinion in Israel for a response to the killings, Jerusalem is concerned about targeting the Hamas leadership in Gaza because of the fear of escalation. The price of a dramatic upsurge in action against Hamas, or of efforts to bring down the Hamas leadership, will be dozens of missiles on Israel’s central Dan region and even further north. At this stage, it does not look as though Israel is interested in waging all-out war with Gaza.

Israel is now expecting PA President Mahmoud Abbas to announce the cessation of his reconciliation process with Hamas. The Palestinian leadership assembled on Tuesday morning in Ramallah, but according to a senior Palestinian source, Abbas is not yet ready to declare the Fatah-Hamas unity process over. “We’re also not about to announce the dissolution of the national reconciliation government,” this source told The Times of Israel. He said the PA would first have to look closely at what has unfolded and then decide how to act with respect to Hamas.

It is obvious to the PA that Hamas operatives were responsible for the kidnapping and killings, but there is no proof that the Hamas leadership in Gaza or overseas planned the operation together with the Hebron cell that carried it out. At the same time, it is clear to the Palestinian leadership that the PA may have no choice but to take more drastic action against Hamas in the West Bank, if only to avert more intensive Israeli intervention. Reconciliation, from the PA’s point of view, remains an idea that is convenient to market and discuss in Palestinian media, but no more than that. The reality in Gaza will not change, and in the West Bank the PA’s security forces will continue to pursue their Islamist rivals.

And what of Hamas? Right now the organization is in a complicated position. It does not want an escalation of hostilities against Israel from Gaza, but the various smaller organizations there have dragged it and Israel into a security deterioration of sorts. It recognizes that Israel’s targeting of 34 sites in Gaza overnight did not represent a “declaration of war” by Israel, and most of the sites attacked were not populated. Gazans are tired of wars and more bitter than ever over the economic situation, especially during this Ramadan period. And, as ever, a full-scale confrontation with Israel could bring about the fall of Hamas’s rule in Gaza. Nonetheless, absolute inaction by Hamas in Gaza would be interpreted as weakness. It seems likely, therefore, that Israeli attacks on Gaza will be met with as minimal a response as Hamas can allow itself. For now, at least.

http://www.timesofisrael.com/israel-wants-to-go-after-hamas-but-doesnt-want-all-out-war-with-gaza/

Les Brigades Ezzeddine Al-Qassam utilisent des armes américaines contre l’occupation israélienne

lundi 2 juillet 2007 – 22h02

Le quotidien émirati « Al Ittihad » souligne que les Brigades Ezzeddine Al-Qassam, bras armé du Hamas, ont annoncé avoir « mis la main sur des stocks d’armes de fabrication américaine dans les entrepôts de l’Autorité palestinienne et des forces du Fatah, lors de la prise de la Bande de Gaza ». Ces armes ont été utilisées pour la première fois contre l’incursion de l’armée d’occupation israélienne à Gaza, ces derniers jours. Ce qui a permis aux activistes du Hamas de détruire un char Merkava-4. Le Hamas utilise également une nouvelle génération de roquettes RPG et des mitrailleurs lourds, munis de lunettes sophistiquées.

Par ailleurs, le quotidien « Al Ittihad » souligne que « le chef militaire des Brigades Al-Quds, bras armé du Jihad islamique, a été tué lors d’un raid israélien. Ziyad Chaker a été pulvérisé dans un raid visant le centre de Khan Younès, au sud de Gaza, samedi dernier. Les Brigades Al-Quds ont promis de le venger et prévenu Israël que leur riposte aura l’effet d’un séisme qui frappera le fonds israélien ».

http://www.juif.org/go-news-14382.php

collage Iraq 26/6/2014 diverse fonti : Italiano and English

Conflitto Fatah-Hamas – la questione palestinese è spinos

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