William Shakespeare e ‘o strummolo a tiriteppete!

Besguizzo shakespeariano
di Angelo Pesce

Giorni or sono, in compagnia d’una mia vivace nipotina, ero a casa di un illustre uomo di legge, noto a molti per il vezzo di tradurre e pubblicare, in lingua napoletana, romanzi e testi drammatici di autori italiani e stranieri. A un certo punto, mentre gustavamo una tazza del buon caffè preparato dalla gentilissima sua moglie, egli m’informa dell’attuale impegno letterario da cui è preso per portare nella lingua di Partenope il lavoro shakespeariano a tutti noto con il titolo The Merry Wives of Windsor o, in italiano, “Le allegre comari di Windsor”. In segno d’amicizia e stima mi confida come un gran segreto che vuol farne parodia e perciò ne annuncia divertito e sillabando il nuovo titolo: ‘E pecundriuse cumparielle ‘e vinte sore.

Strummolo
strummolo

Intendo a volo che la confidenza era dovuta alla familiarità che mi si riconosce con la lingua inglese e, un po’ per farmi onore, un po’ per dargli soddisfazione, stavo per suggerire una variante che secondo me suonava meglio, quando m’interrompe per mostrarmi un esemplare del teatro di Shakespeare invero straordinario. Si trattava nientemeno di un in-folio del 1625, ovvero di due anni successivo al primo pervenutoci, manoscritto per iniziativa di un manipolo di attori, sette anni dopo la scomparsa del geniale drammaturgo. Il mio buon amico m’informava di esserne venuto in possesso ripescandolo tra molti scartafacci, ereditati da una vecchia zia vissuta lungamente in Inghilterra perché moglie di un aristocratico scozzese.

Non avevo ancora smesso di restar sorpreso e affascinato insieme, quando mi aggiungeva che l’idea di una versione parodistica e in napoletano de “Le allegre comari di Windsor” gli era sopraggiunta proprio da quel testo nell’in-folio. Si affrettava a precisare che esso conteneva, infatti, per ciascuna delle opere, battute aggiunte o interpolate, senz’alcun riscontro con la tradizione pervenuta alla storia letteraria e sulle scene. Ciò gli consentiva, a suo parere, di lasciare a bocca aperta i critici che a tutta prima, con le loro recensioni, non avrebbero mancato l’occasione di lanciargli addosso ogni sarcasmo. Solo in un secondo tempo, si è affrettato a dirmi, intende sottoscrivere un contratto vantaggioso per la stampa del verace “tutto Shakespeare”.

Gli ho chiesto allora di fornirmi qualche esempio ed egli, sfogliando con grandissima cautela quelle pagine preziose, mi ha indicato la battuta che trascrivo fedelmente: The fun ice-hell is short and the strum low at Tyret-Eppet. Non ne avevo ancora terminata la lettura ch’egli mi chiedeva di volergliela tradurre, poiché gliene sfuggiva il senso, avvertendomi però di avere già individuato in Tyret-Eppet un minuscolo villaggio del Dorset, abitato nel XVI secolo da nuclei familiari discendenti da guerrieri che il toponimo tramanda alla memoria nostra.

A questo punto facile è sembrata tra me e me la costruzione della frase come At Tyret-Eppet the fun is ice-hell short and the strum low, da cui derivare la traduzione. Egli mi sottolineava che fin lì era tutto molto semplice, laddove la difficoltà veniva fuori con l’ ice-hell che non si lasciava interpretare in alcun modo e, poiché quello che gli veniva fuori, traducendo un po’ figurativamente, era “ghiaccio infernale” ovvero “inferno di ghiaccio”, conveniva che la cosa non sembrava avere molto senso.

Gli ho segnalato allora che la locuzione ice-cold significa “freddo come il ghiaccio”, suggerendo di tradurre ice-hell in “come ghiaccio all’inferno”, così da far assumere all’intera frase un senso compiuto e ottenere, al tempo stesso, una discreta impronta shakespeariana: “A Tyret-Eppet lo spasso è effimero qual ghiaccio all’inferno, e lo strimpellar sommesso”. Dopo un po’ di riflessione, e tanto per non far languire la conversazione, ho aggiunto che il sintagma, oltre che a una constatazione, avrebbe potuto forse riferirsi a un antico gioco di campagna praticato in Inghilterra e con variante di particolare brevità a Tyret-Eppet – un posto forse molto deprimente – peraltro accompagnata da una musica maldestra e fastidiosa di strumenti a corda e, per fortuna, con tonalità poco elevata. Il mio amico favorito dalla sorte mi avanzava nondimeno più di una riserva, quando tutti e due fummo sorpresi a un tratto dalla voce argentina di una bimba.

Era Laura, la mia nipotina che, sottraendosi agli sguardi adulti, aveva preso quel meraviglioso in-folio tra le mani e col suo inglese da scuola media, accentato alla maniera del nostro nativo vernacolo, leggeva difilato e a ripetizione, come per mandarle a memoria, le parole shakespeariane alla base delle nostre elucubrazioni: the fun-aicell is short and the strum-low at tairet-eppet. Orbene, concedendo che in questo caso specifico la prima “i” e la “y” risultano lunghe nell’idioma di Albione, quello che noi udimmo suonava esattamente come la traduzione fonetica dell’espressione napoletana ‘a funicella è corta e ‘o strummolo a tiriteppete!

Siamo rimasti folgorati. La bambina aveva come per magia risolto il nostro enigma. Alla domanda del mio amico, un po’ dubbioso sulla conoscenza del napoletano in suolo inglese, mi è venuto facilmente di rispondere che William Shakespeare mostrava di conoscerlo assai meglio dei suoi attori amanuensi, i quali non avevano fatto altro, se non trasporre nella loro lingua una battuta che in partenopeo doveva esser stata detta sulla scena e proprio in occasione della prima delle Merry Wives of Windsor . Di tal commedia è a noi nota la problematica datazione, anche se sappiamo che ha dovuto essere tra il 1597 e il 1601. In quella che alla critica è sempre apparsa come una drammaturgia di un’abilità tale da appesantirla per eccesso, la battuta ora in esame ai comici dovette allor parere un autentico entertaining nonsense .

Invero già Benedetto Croce rilevò, nel 1898, come Trinculo, uno dei due marinai ubriachi de La tempesta , avesse nome da parola conosciuta e adoperata solo a Napoli, e poi, nel 1931, che il cognome di Giordano Bruno ricorresse in Pene d’amor perdute divenendo Berowne . Noi sappiamo che il filosofo e commediografo nolano visse a Londra dal marzo del 1583 all’ottobre del 1585 e, dunque, non potrà sembrare strano che un po’ del suo napoletano lo spargesse tra gli amici. Certo, nulla ci è noto di rapporti eventuali con attori londinesi e con Shakespeare allora giovane di vent’anni, e tuttavia non avrà mancato di sedersi al Theater di James Burbage o al Curtain in compagnia dei suoi nobili sodali, di John Dee, di Philip Sidney ed altri. Né si può del tutto escludere un contatto tra colleghi, o scambio culturale che sia stato, tra i due massimi drammaturghi della seconda metà del Cinquecento.

Una cosa appare certa: quello ch’è qui venuto fuori per puro caso prelude necessariamente a un’attenta, impegnativa revisione dell’opera del bardo d’Albione e dei suoi attuali chiosatori, in funzione di possibili altre scoperte dei rapporti tra la lingua di Napoli e quella inglese. Ai napoletanisti anglofoni rivolgo perciò un caloroso invito: faciteve sotto! M’arraccumanno però, capiteme bbuono .

Per i cultori non napoletani di Shakespeare, invece, aggiungo che la nostra locuzione sopra riportata, ‘a funicella è corta e ‘o strummolo a tiriteppete , è l’equivalente di ‘o puzzo è futo e ‘a funa è corta , per definire sarcasticamente una situazione in cui due qualità o contingenze, negative e complementari, si abbinano sommandosi nei risultati, come quando a na mugliera fravagliosa faccia riscontro nu marito ncazzuso.

Dirò infine, ad uso di coloro che non ne avessero finora mai saputo niente, che lo strummolo è (era) una trottola primitiva, tant’è che il suo nome viene dall’antico greco stróbylos . Strumento all’inizio sacro, poi scaduto alla funzione di un semplice giocattolo, si tratta, un po’ sommariamente, di un cono di legno duro a base smussata e con una punta metallica inserita all’apice, che si aziona avvolgendogli attorno, a spirale saliente, uno spesso spago, terminante in un nodo che si inserisce tra l’indice e il medio della mano di lancio. La doppia azione propulsiva consiste nello scagliare verso terra lo strummolo con la punta rivolta in basso, tirando al contempo energicamente la cordicella per imprimergli un velocissimo moto rotatorio che lo tenga in piedi il più a lungo possibile, donde focose gare di durata del suo moto tra i ragazzi d’un tempo lontano (al quale, per inciso, appartiene chi scrive, in verità una schiappa integrale in queste competizioni). L’insufficiente lunghezza della funicella e un imperfetto asse di rotazione, derivante dalla punta lievemente eccentrica o dalla massa dello strummolo non perfettamente distribuita, o dalla combinazione delle due cose, accorciano notevolmente la durata della rotazione che avviene in modo sbilanciato. Vale a dire a tiriteppete.

Una curiosità per terminare. Dal sito del docente e operatore socio-educativo Ermete Ferraro, noto per l’impegno ambientalista e l’insegnamento del napoletano nella scuola media “Sogliano” di Napoli, traggo la seguente nota sul più antico giocattolo dei bambini partenopei. «Lo strummolo è stato, non a caso, il simbolo della “Casa dello Scugnizzo”, fondata da Mario Borrelli negli anni ’50 e rimane il logo della Fondazione che ne prosegue l’opera. Lo strobylos era infatti proprio la trottola dei Greci e questo gioco così semplice e popolare ben rappresenta gli ‘scugnizzi’ di Napoli, ma anche un concetto particolarmente caro a Borrelli: lo “sviluppo di comunità”. Come lo strummolo è lanciato facendolo ruotare velocemente, grazie alla corda che lo avvolge e che viene abilmente srotolata, allo stesso modo lo sviluppo (che gli spagnoli chiamano desarrollo , cioè ‘srotolamento’) è qualcosa che consente alle persone di liberarsi dalle corde che le legano e di manifestare la propria energia e vitalità liberamente».

http://www.ilc.it/shakespeare.htm

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