la parola alla non cittadina Medea ; Medea di Pasolini

Medea.

Donne di Corinto, sono venuta fuori dalla casa

perché non abbiate a rimproverarmi nulla: so infatti che molti mortali

diventano altezzosi, gli uni  lontani dagli sguardi, solitari,

altri invece emarginati tra gli stranieri; altri ancora per il muoversi riservato

si procurarono cattiva fama di noncuranza..

Giustizia infatti non sta negli occhi dei mortali,

se uno, prima di avere conosciuto bene gli affetti di un uomo

lo odia solo per averlo visto, senza averne ricevuto offesa alcuna.

D’altra parte lo straniero deve adeguarsi con sforzo alla città:

nemmeno approvo il cittadino che divenuto arrogante

è duro verso i concittadini per ignoranza.

Questa faccenda inaspettata piombatami addosso

mi ha distrutto la vita; sono a pezzi e buttata via

la gioia di vivere, desidero morire, amiche.

Quello in cui c’era per me tutta la vita, lo so bene,

si è rivelato il peggiore degli uomini, il mio sposo. 229

Fra tutti quanti gli esseri sono vivi e hanno raziocinio,

 noi donne siamo la creatura più sofferente:

noi che innanzitutto dobbiamo comprare un marito

con gran dispendio di ricchezze, e prenderlo come padrone/

 del corpo, e questo è un male ancora più doloroso del male.

E in questo sta la gara massima, prenderlo buono

 o cattivo. Infatti non danno gloria le separazioni

alle donne, e non è possibile ripudiare lo sposo.

 Quella poi giunta tra nuovi costumi e leggi

bisogna che sia un’indovina, se non ha appreso da casa.  come trattare nel modo migliore il marito. 240

E se con noi che ci affatichiamo in questo con successo, il coniuge convive, sopportando il giogo non per forza, la vita è invidiabile; se no, bisogna morire.

 Un uomo invece, quando gli pesa stare insieme a quelli di casa,/

 uscito fuori, depone la noia dal cuore

(volgendosi a un amico o a un coetaneo);

 per noi al contrario è necessario puntare su una sola persona.

Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli

 in casa, mentre loro combattono con la lancia, pensando male: poiché io preferirei stare

 tre volte accanto a uno scudo che partorire una volta sola

“Pagine corsare”
Saggistica“Tutto è santo”
Approccio alla Medea di Pasolini
di Manuela Latini, Studio Antropologico
Con un’ampia biografia di Maria Callas
1  Nel giugno del 1969 Pier Paolo Pasolini è a Nevscheir, in Turchia, per girare alcune scene di Medea. Di notte, o nelle pause concesse alla troupe, legge e consulta i suoi testi di antropologia religiosa, prende appunti e scrive poesie. Tra i libri c’è The Golden Bought di James Frazer. 

L’interesse di Pasolini per i temi della religiosità del mondo “arcaico” non nasceva allora. Alla fine degli anni ’50 il sentimento religioso – di matrice cattolica e contadina – che caratterizzava la sua Welthanschaung soccorse una nuova attenzione nei confronti della religiosità del Mezzogiorno e dei popoli “primitivi”.

Il rituale di sacrificio umano presente al principio di Medea ha le caratteristiche del documentario etnografico ed è per questo dettagliato, scientifico, apparentemente distaccato dall’oggetto che descrive, eppure, in maniera sottile, partecipe dell’ideale di rinnovamento che il rito vuole rappresentare. Pasolini, in un’ottica di tipo “fenomenologico”, accomuna Frazer, de Martino e Mircea Eliade. 

2  Il 1960 fu “l’anno dell’Africa”. In quella data 17 stati africani ottennero l’indipendenza, preceduti di circa dieci anni da quei paesi del continente asiatico che avevano maturato una migliore organizzazione politica e una struttura sociale più avanzata. L’emancipazione dei paesi afro-asiatici offrì a Pier Paolo Pasolini la chiave per conoscere un patrimonio culturale estremamente vitale. 

Un primo grido poetico ai paesi del Terzo Mondo Pasolini lo lanciò nella poesia Frammento alla morte (1960). L’alternativa al prepotente modello di sviluppo economico industriale, che in Italia stava portando alla trasformazione di una società tradizionalmente contadina in una massa che aspirava ad un modello piccolo borghese, divenne per Pasolini “il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell’Africa che illumina il mondo”. 

La scoperta dell’Africa era intrecciata al tema della rabbia e del sentimento di morte. La crisi ideologica di quegli anni, scaturita dalla delusione politica di fronte allo stallo del Partito Comunista e dallo smarrimento dell’intellettuale marxista nella nuova società capitalista, aveva portato con sé anche una crisi stilistica: figlia di questa crisi fu la nascita di un’idea “creaturale” della vita, che opponeva la naturalità del corpo alla storicità dell’individuo. Contro lo spettro della crisi dell’impegno, oltre la rabbia provocata dalla crisi, Pasolini dette fiducia alla poesia in un gesto estremo di fuga dalla storia occidentale: “Africa! Unica/ mia alternativa […]/ […]” (Frammento alla morte). 

L’attività cinematografica rappresentò il pretesto per numerosi viaggi alla ricerca dell’autentico, “fra figli di poveri”. Nel 1961 Pasolini andò in Kenya e negli anni successivi si recò in Sudan, nel Ghana, in Nigeria, in Guinea. Nell’estate del 1963 raggiunse Israele e la Giordania: fu il periodo in cui progettò di realizzare in quei territori Il Vangelo secondo Matteo

Il forte richiamo nei confronti del Terzo Mondo aveva ragioni politiche ma rispondeva anche al fascino di un esotismo romantico, letterario, “rimbaudiano” e “baudelairiano”. La poetica dell’evasione condotta dai primi romantici scaturiva dalla polemica antiborghese: Baudelaire invocava la Morte nella poesia Voyage affinché lo portasse via, attraverso il mare, verso l’Ignoto, per fuggire dalla noia della civiltà; ma sempre più spesso, alla fine dell’Ottocento, questa esplosione lirica dei sentimenti si trasformava in pratica dell’evasione. 

Partire per l’Africa al fine di abbrutirsi e tornare all’istintualità, lontano dalla civilizzazione operata dal cristianesimo attraverso le leggi morali, fu il proposito di molti artisti: Rimbaud abbandonava la poesia a diciannove anni. Pasolini verrà folgorato a sedici anni dalla lettura dei suoi versi ascoltata in classe; dichiarerà anni dopo che quella lettura aveva segnato il momento in cui si era liberato dal fascismo “naturale”. La complessa influenza dei poeti maledetti superava quindi l’aspetto puramente formale e lirico per incidere sulla formazione ideologica e sullo sguardo rivolto al mondo. 

Il libro L’odore dell’India raccolse le impressioni e le riflessioni in forma di taccuino che Pasolini aveva spedito nel 1960 a “Il Giorno”, durante un lungo soggiorno indiano trascorso con Moravia e Elsa Morante. Guardando e vivendo la povertà e la silenziosa sopportazione degli Indiani, Pasolini riconosceva un’immagine familiare. Il destino del sottoproletariato agricolo indiano, fissato da secoli in una crudele e coatta immobilità dalla dominazione straniera, si univa a quello del sottoproletariato africano e a quello del meridione d’Italia. Tutti quegli uomini, non ancora corrotti dal capitalismo, erano chiamati ad assolvere “una funzione storica”.

Immergendosi totalmente nella realtà della popolazione indiana, avvicinando i ragazzi “ammucchiati per terra nella polvere”, osservandone i riti, le abitudini e le differenze di classe, lo aveva colpito subito l’odore della vita, “di poveri cibi e di cadavere che, in India, è come un continuo soffio potente che dà una specie di febbre”. 

Il rifiuto del mondo borghese distruttore dell’antico, del vitale, si concretizzò in una fuga dalla storia occidentale alla ricerca di uomini legati alla terra, sacri anche per la loro disperazione, davanti alla quale Pasolini, in un amore fatto di partecipazione intensa, si commuoveva, si perdeva, si disperava: “sarà una disperazione storica, sociale, morale.” 

3   Il pensiero pasoliniano di questi anni venne ulteriormente chiarito alla luce del documentario di montaggio realizzato nel 1963 su proposta del produttore Gastone Ferranti: La Rabbia. Il documentario deve considerarsi prima di tutto come una meditazione sul significato della Storia contemporanea in quanto tempo governato dalla Borghesia; il poeta si aggrappò alla necessità di credere nell’Utopia di un mondo nuovo. Portatori di questo messaggio di speranza furono gli sguardi dei bambini del Terzo Mondo, i più sofferenti, le vittime carnali della società del potere colonialista e razzista. Nel mutare delle coscienze, nel superamento della logica classista della Storia Borghese Pasolini vedeva la vittoria della lotta di classe. 

Nella tarda primavera del 1964 fu pubblicata la raccolta poetica Poesia in forma di rosa, una sorta di diario lirico di questi anni, in cui trovò spazio anche il resoconto del processo per La ricotta. Tale processo avrà tra le conseguenze più gravi la rinuncia forzata a girare in Africa il soggetto de Il padre selvaggio. Nell’immagine dell’Africa restituita nel poemetto in terzine La Guinea riecheggiano i toni funebri dei paesaggi, che assumono un valore religioso, sacro: il legame tra l’umile terra e la negritudine rappresentava la nuova ragione contro l’irrazionalità di ogni atto storico, sintesi della nuova condizione di vita. Il tono prevalente era quello del rammarico per non aver compreso e previsto prima l’arrivo di una nuova epoca, “la Nuova Preistoria”: “Sta per morire / l’idea dell’uomo che compare nei grandi mattini / dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro”. 

Pasolini leggeva un’unica via d’uscita, quella dell’opposizione, che lo porterà, consapevolmente, alla solitudine e all’emarginazione intellettuale. Egli voleva fuggire dalla storia immergendosi in una realtà altra per riappropriarsi della sua cultura, per dare nuovo senso ad un presente senza più memoria. Voleva fortissimamente rimanere una “forza del passato”, che traeva vitalità solo dalla tradizione, quella tradizione che la borghesia non amava e che avrebbe distrutto omologando un uomo all’altro, distruggendo i dialetti in una veloce finis historie. Ciò che lo interessava era “il riacquisto della storia, la riappropriazione di essa non in astratto: cioè, storia italiana, la sua morale, la sua antropologia, la sua politica e la sua poesia, in una sintesi realistica. Un tale acquisto veniva, dalla discussione letteraria in corso, svalutato: lo storicismo sempre più cedeva il passo alla sociologia; sempre più lo storicismo veniva inteso come un frutto secco, non suscettibile di rinnovamento. Invece Pasolini tendeva ad esso oscuramente, con le armi della glottologia, di una istintiva antropologia”. 
4  Nonostante questi siano stati gli anni di maggiore solitudine e disillusione, la creatività di Pasolini era rimasta molto feconda. La produzione filmica che va dal 1963 al 1966 – definita da Miccichè il “cinema dell’ideologia” – mostrava un forte prevalere di tematiche politiche e socio-culturali, un’evidente apertura di orizzonte, “uno sguardo verso l’Altrove della mitica borgata”.

I documentari del ’63 e del ’64 (rispettivamente La rabbia e Comizi d’amore) rispondevano, nonostante il parziale fallimento dei risultati, ad una nuova esigenza di realismo e di indagine sociologica (ma non scientifica) sul nuovo modus vivendi degli Italiani. I due film sono importanti anche al fine di analizzare la successiva fase cinematografica di Pasolini, cosiddetta “del mito”.

Ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), Pasolini venne esplicitamente in contatto con un elemento prepotente eppure di difficile conciliazione con il suo essere storico, ideologico: la sfera del sacro. Sotteso a tutto il suo cinema e alla poesia, il sacro si concretizzava come un modo di vedere la realtà: “io sono propenso a un certo misticismo. A una contemplazione mistica del mondo, beninteso. Ma questo è dovuto a una sorta di venerazione che mi viene dall’infanzia, d’irresistibile bisogno di ammirare la natura e gli uomini, di riconoscere la profondità là dove altri scorgono soltanto l’apparenza esanime, meccanica, delle cose”. In una lettera scritta al produttore Alfredo Bini nel giugno del 1963, Pasolini tentò di spiegare il suo intimo approccio al Vangelo, definendolo “ebraico e iracondo testo”. 

La forza che lo spingeva a realizzare il film aveva i termini esteriori di una folgorazione “sulla via di Damasco”; in realtà egli attingeva a piene mani da una interiore spinta irrazionalistica, messa a lungo a tacere da un volontario sforzo ideologico. Con il cinema il “marxista, scrittore nato idealmente dalla Resistenza”, iniziò esplicitamente a interpretare il sacro. 

Il Cristo pasoliniano non può essere definito altrimenti che un eroe: l’umanità così rigorosa e ideale che egli mostra appartiene ad un personaggio mitico, straordinario; è un solitario profeta che nega il presente superandolo. Gli uomini che “salva” rappresentano tutta l’umanità umiliata dalla Storia: anche loro, come gli emarginati della borgata romana, rappresentano il Dopostoria. 
5  La rinuncia all’assolutismo ideologico operata in Uccellacci e uccellini (1966) – il corvo-intellettuale marxista ortodosso divorato da Totò e Ninetto -, pur lasciando spazio alla riflessione, aveva generato ulteriore smarrimento.

La consolazione e il sollievo si trovano in mondi lontani dalla Storia eppure generatrici di essa: i Miti. Essi nascondono il codice genetico della civiltà. E forse richiamarli in vita “riattualizzandoli” vuol dire credere nella loro efficacia, farsi nuovamente portatore della tradizione, “nell’illusione, disperatamente creduta o tenacemente voluta, che dai bagliori di un’agonia così vistosamente lacerante possano sorgere vitali faville: tali da esorcizzare un mondo destinato a umiliare, dominato dagli scheletri viventi dei borghesi, e da illuminare l’auspicato e non posseduto inizio della Storia dell’uomo”. 

Quando Jean Duflot, in una conversazione con Pasolini del 1970, lo “ammonisce” per aver abbandonato ogni forma di realismo a favore del ricorso al mito, egli risponde: “Tutto ciò che è realistico è mitico e viceversa”. Nel saggioPasolini e la morte (1993), Giuseppe Zigaina scrive a questo proposito: “Se dovessi rappresentare – diciamo – il modo di pensare di Pier Paolo, potrei dire che il pensiero tecnico razionale-empirico tende a regredire, in lui, verso il punto in cui si giustappone a quello simbolico-mitologico-magico, ma sottolineando che, paradossalmente è proprio questo regredire che costituisce la sua estrema modernità”.

Pasolini ha bisogno di essere completamente immerso nella vita, nel suo ininterrotto fluire, ma deve farlo attraverso l’arte, che si identifica, alla fine degli anni sessanta, con l’occhio della cinepresa. La poesia doveva farsi azione, e l’azione poteva tradursi in immagine cinematografica. Era attraverso il cinema, immagine non naturalistica, che il reale si trasformava nuovamente in qualcosa di sacro, che non aveva bisogno di spiegazioni. 

Nel 1967, partendo dal vecchio progetto di una Orestiade africana, Pasolini giunse a delineare un progetto cinematografico più vasto, in cui la prospettiva era rappresentata dalla riflessione sul conflitto tra il sostrato culturale dei popoli colonizzati e i costumi politici e culturali delle forze colonizzatrici. I paesi del Terzo Mondo interessati dovevano essere cinque: Maghreb, Africa Nera, India, Sud America, ghetti degli Stati Uniti, ma per realizzare il progetto Pasolini fu costretto a scendere a compromessi; il canale di diffusione divenne la televisione, la RAI, e l’unico episodio girato fu quello sull’India. L’indagine assunse la forma di una intervista-conversazione su di un poema, mezzo usato da Pasolini per avvicinare il popolo indiano.

6  Di fronte all’intera produzione pasoliniana è facile perdersi nella varietà di linguaggi usati. Per contro è nella unitarietà e nella compattezza dell’ispirazione che bisogna cercare una chiave di lettura: un luttuoso canto la percorre nel tempo e nello spazio e a fargli da guida c’è la perenne opposizione Storia-Preistoria. La Morte rappresenta “il destino ineluttabile che dà un senso alla vita e costituisce la sua pulsione fondamentale; la Storia è intesa come il luogo dove l’individuo à destinato a dannarsi spegnendovi la propria vitalità e la propria libertà.” 

La polarità Storia-Preistoria aveva assunto negli anni i termini topografici di Città e Borgata in Accattone e Mamma Roma; si era concretizzata all’interno del set de La ricotta tra “la zona dove un sottoproletario agonizza e la zona dove un borghese conduce il proprio gioco”; a seguire in un naufragio progressivo verso una dimensione sempre più favolistica: nell’episodio Che cosa sono le nuvole? si passava dalla Finzione dello spettacolo dei burattini all’unico momento di vita nella Realtà, che coincideva con la Morte.

Il contrasto tra Istinto e Ragione e tra Civiltà e Barbarie in Medea e Edipo Re, conclude la terza fase cinematografica; sarà con la quarta fase, quella di Salò, che si leggerà l’identificazione tra libido e mortido che sembra sottesa a tutta l’opera pasoliniana”. 

Durante un’intervista televisiva rilasciata in occasione dell’uscita di Medea, Pasolini rispose alla domanda di un professore che trovava incomprensibile la trascrizione moderna di Medea, affermando che l’attualizzazione aveva una sua profonda ragione d’essere. Per Pasolini il mito funzionava sempre e parlava in ogni lingua poiché attingeva ad un patrimonio comune all’Occidente. Per questo Medea poteva benissimo essere la storia di un moderno paese africano costretto a fronteggiare la catastrofe della collisione della propria barbara cultura con la civiltà materialistica occidentale. L’opposizione tra Natura (intesa da Pasolini come mondo della ripetizione, come mondo magico, rituale) e Cultura (intesa come divenire storico, come mondo della ragione), seppure paradossale – per la scuola di storia delle religioni italiana, ad esempio, la ritualità e il mondo magico sono forme culturali compiute -, assume aspetti inconciliabili ed estremi nei due eroi tragici Giasone e Medea. Il mito di Medea era ancora portatore di senso: Pasolini legge nella figura della maga l’incarnazione del selvaggio, l’elemento distruttivo del pensiero razionale e del mondo rappresentato da Giasone. Questi era un eroe pragmatico privo di interesse verso la sfera spirituale; i suoi atti erano finalizzati al possesso, al raggiungimento del potere. Il nodo tragico dell’incontro tra i due eroi si basava sull’impossibilità di annullare la propria natura per divenire altro da sé.

Già nelle prime sequenze viene posto in essere il confronto tra i due mondi: quello moderno dominato dalla cultura razionale e quello arcaico, dominio della magia. Le prime sequenze del film, separate da stacchi decisi e prive di movimenti interni di macchina, accompagnano Giasone nella crescita fisica e culturale. La sua educazione era stata affidata al centauro Chirone, essere mitologico metà uomo metà cavallo, di grande bontà e saggezza. Immerso in uno splendido paesaggio naturale il centauro inizia Giasone, che lo ascolta attento, alla conoscenza di se stesso e del mondo. Dapprima con le parole avvolge l’universo della presenza divina: “Tutto è santo, non c’è niente di naturale nella natura. In ogni punto dove guardi è nascosto un dio e seppure egli non c’è, ha lasciato i segni della sua presenza sacra. Quando la natura ti sembrerà naturale tutto sarà finito e inizierà qualcos’altro; ma, avverte il maestro, la santità è allo stesso tempo una maledizione: accanto all’amore degli dei per gli uomini s’insinua l’odio”. 

Giasone farà l’errore di fidarsi dell’amore divino, ma anche i suoi errori vengono contemplati da Chirone. Egli si esprime attraverso parole crittografate che nascondono la combinazione della verità futura. Il centauro rappresenta la parte poetica e favolosa dell’infanzia di Giasone. Nel corso degli anni Chirone diverrà sempre più saggio e razionale, e si farà uomo insieme a Giasone. Essi sembrano rappresentare l’infanzia dell’umanità, allorquando l’uomo antico, volgendo il suo sguardo all’orizzonte, provava l’esperienza della perfezione, della grandezza divina. Se nell’età arcaica quell’esperienza traeva ancora origine dalla bellezza naturale o dalla scoperta dell’agricoltura, l’uomo razionale moderno non prova più sorpresa. È smaliziato di fronte a ciò che ora controlla completamente: l’ambiente è stato umanizzato. 

Chirone ha anche la funzione di cantore del mito: non solo spiega la discendenza di Giasone e il ruolo del vello d’oro, ma anticipa ciò che avverrà dopo: l’incontro di Giasone con un mondo “lontano dall’uso della nostra ragione”: il mondo di Medea. Il centauro lo definisce, usando le parole di Mircea Eliade, “molto realistico”: poiché “solo ciò che è realistico è mitico e ciò che è mitico è realistico”. L’uomo moderno, attraverso il ragionamento e la concezione razionale della realtà, si è allontanato dalla natura e dalla divinità, per lui non ha più valore l’insegnamento della natura, né la sua protezione. 

Medea, dopo aver rubato il vello d’oro giunge a Jolco insieme a Giasone: appena sbarcata cede al panico. Lontana dall’universo sacro che ha tradito, le vengono a mancare i punti di riferimento: un albero, una pietra che possano segnare il centro della terra e un punto di comunicazione tra l’uomo e la natura. Ammonisce gli uomini di Giasone che non hanno bisogno di ingraziarsi gli elementi naturali, non benedicono le tende, non ascoltano la voce del Sole e della Terra: Medea prova orrore del vuoto, non trova le tracce della presenza divina. Camminando ansiosamente sulla terra arida e fredda, chiama a sé le voci dei suoi dei. Ma non si trova più sulla sua terra: è l’alba di una nuova civiltà. La macchina da presa segue Medea che tenta di conquistare lo spazio: prevalgono le inquadrature che schiacciano l’attrice in basso, l’orizzonte la opprime.

L’eroe schernisce la sacerdotessa devota al nulla e, giunta la sera, la fa sua schiava in un freddo atto di possesso. Le parole conclusive del centauro, divenuto puro pensiero razionale, sono state il suo insegnamento: “Non c’è nessun dio”. Il silenzio, il gelo e l’indifferenza sono le costanti del rapporto tra Giasone e Medea. Murri commenta: “Tutti gli affetti presenti in Euripide vengono azzerati, restano solo come ricordo o come miraggio irraggiungibile nello sguardo visionario di Medea. L’amore, la morte, la disperazione la rabbia, il rimpianto, tutto si consuma in una strana, allucinatoria aura di freddezza”. 

Le inquadrature perfettamente articolate con cui Pasolini ha raccontato la crescita di Giasone, cedono il posto a inquadrature sporche e tremolanti nel racconto del rito di fertilità.
Il paesaggio è mutato. Siamo nella città di Ea situata nella regione della Colchide. Medea, sacerdotessa di Ecate, dea della morte, vive qui. L’opposizione civiltà-barbarie si avverte dal principio con la scomparsa della parola che, pur in forma di monologo, era presente nell’episodio del centauro. Il silenzio severo del vento tra le montagne è rotto solo da rumori metallici. 

La voluta assenza di dialogo s’inserisce nella battaglia contro la pseudo-cultura razionalista e funzionalista condotta da Pasolini in quegli anni. Il fine era rompere la compattezza linguistica della massa usando come arma un nuovo pensiero in cui era centrale l’elemento irrazionale, in cui il significato esplicito presente nel mezzo dialogico era sacrificato per caricare di senso le immagini, per costruire “il linguaggio della realtà”. 

Per realizzare gli esterni di Medea, Pasolini raggiunge la Siria e la Turchia. I paesaggi aspri sembrano respingere la presenza umana. Come fosse materiale per un documentario, Pasolini fa delle riprese solitarie e coglie le espressioni spontanee dei protagonisti: non si avverte alcuna artificiosità, le carrellate della cinepresa a mano seguono una carovana di uomini che raggiungono il luogo del rito.

I canti d’amore iraniani e le musiche sacre giapponesi (che Pasolini aveva scelto su consiglio di Elsa Morante) costituiscono l’unica via di comunicazione: è poesia in musica. L’obiettivo era percepire con i sensi prima di comprendere con la mente. La musica preannuncia la prima comparsa di Medea. 

Incastonata nel suo originale abito regale, Medea guarda silenziosa verso la vittima del sacrificio: un ragazzo seminudo legato per le mani che verrà, di lì a poco, fatto a pezzi. Il sangue della vittima cosparso sulle piante e la sua carne sepolta nei campi, daranno nuova vita alle colture, garantiranno un buon raccolto. Tutto il popolo attende le parole rituali della sacerdotessa che, pronunciate girando la ruota del sole, principieranno il nuovo ciclo della terra: “Dà vita al seme e rinasce il seme”. Per qualche istante l’ordine sociale viene sovvertito per il sopraggiungere di uomini mascherati da fiere che danzano intorno alla ruota: Medea è legata ad un palo e suo fratello viene colpito simbolicamente con dei rami.

Lo stacco successivo mostra nuovamente i reali in possesso del potere: sono alteri, come statue sacre, posti di fronte ai soldati. Parallelamente anche Giasone si trova con i suoi soldati: sono gli Argonauti, coloro che costruiranno Argo, la prima nave della storia. L’eroe va a riprendersi il suo regno: Pelia, lo zio usurpatore, lo sfida. Se tornerà con il Vello d’oro avrà il regno. Giasone giunge nelle terre oltre il mare, ed è lì che si avverano le profezie di Chirone.
Medea è l’unico film in cui prende vita il sogno pasoliniano di un mondo barbaro, selvaggio. 

Pasolini ha inventato rituali magici per descrivere un’epoca preistorica stranamente parallela alla storia, dove la natura è un coacervo di forze inesplicabili la cui rappresentazione doveva avvenire attraverso il canto di Medea-Callas. Durante la lavorazione questo proposito viene abbandonato per lasciare spazio al silenzio. 

Medea incarna le forze divine: è la cupa padrona dell’universo sacrale. Le sue visioni danno senso al film, che infatti si sarebbe dovuto titolare “Visioni della Medea”. È in lei che avviene il passaggio tra le due epoche. È vivo dentro di lei, nei suoi occhi di fiera catturata, il conflitto insanabile di civiltà e barbarie. Le sue visioni indicano che lo spazio concesso all’elemento religioso in una società materialista, è quello del sogno e del silenzio. Entrambi permettono di approcciarsi al mito in un modo diverso. La tragedia greca è giunta fino a noi attraverso la concretezza delle parole: la morte e la vita sono descritte, ma il carico emotivo che comunicano travalica l’univocità delle parole; ciò dimostra l’annullamento del rapporto che le lega al reale. 

Medea ode i canti delle donne che lavorano. Quei suoni liberano le ansie di un popolo che sente giungere la propria fine. Preannunciano sventura: “Il nostro regno aveva per confine il cielo. Ma egli verrà e forerà il cielo, e così il nostro Regno finirà. Il mare diventerà nero, noi piangeremo mentre tu riderai”. La distruzione avverrà per mano di un uomo che “ha sulla bocca il nome della bestemmia e che viene dal mare”. Mentre ascolta quelle parole infauste, Medea ha la prima visione di Giasone. È un uomo forte, coraggioso, bello. Cerca il vello d’oro e Medea ne è la custode. Il canto dice ancora: “Il sangue diventerà nero come un sacco di crine e tutta la luna si ritirerà nell’ombra e il vento soffierà senza far rumore. Cadremo come morti per terra e quando riapriremo gli occhi vedremo le cose abbandonate per sempre da Dio; mentre staremo pregando, cadremo come epilettici e quando ci rialzeremo non conosceremo più Dio”. Medea apre gli occhi dal sonno e si guarda intorno, spaventata. Schiava del dio, si fa legare dalle sue ancelle e viene condotta al tempio. La musica segna l’incontro col Dio: suoni metallici si fondono ai versi degli animali: è una litania ferale.

Medea si purifica passando attraverso il fuoco. Mentre giace davanti al Vello d’oro, ha una nuova visione di Giasone. Sembra essere caduta in trance: subito dopo decide di tradire il suo popolo e la sua cultura per partire con lo straniero. La musica tace: Medea non conosce più Dio. Le inquadrature sono brevi e seguono da vicino il suo viso in primi e primissimi piani, frontali e di profilo. Lo sguardo è enigmatico ma si percepisce la sua angoscia e la sua disperazione. Medea abbandonerà suo padre. Ucciderà suo fratello facendolo a pezzi. Seminando le membra, costringerà suo padre a fermarsi per ricomporle. Sono cruente manifestazioni dell’amore per Giasone. 

Il racconto per immagini di queste sequenze è suggestivo. L’incontro tra Medea e Giasone è fatto di sguardi silenziosi carichi di sensualità. Questa energia ha un’ immediato sfogo nell’omicidio del fratello: in campo lungo, si vede Medea che sferra i colpi ma il corpo martoriato è nascosto dal carro, così come nella rappresentazione teatrale classica era interdetta allo sguardo l’immagine della morte. La cavalcata verso il mare degli Argonauti è ripresa da una prospettiva lontana: le bellissime montagne bianche che fanno da contrasto al cielo turchino creano, a mio avviso, una delle più belle immagini paesaggistiche del cinema pasoliniano (la fotografia del film è di Ennio Guarnieri). 

Il gesto crudele è necessario: essi rappresentano per lei il passato, la sua interiorità. Questi valori non possono sussistere in una società individualista e arrivista. Unendosi a Giasone tenta di dimenticare le sue radici facendo terra bruciata intorno. 

La soluzione di continuità tra il passato e il presente è costituito dalla vestizione. Ci troviamo nella città di Jolco: la macchina da presa indugia sulle case bianche della tranquilla città. Il silenzio è rotto dall’arrivo di Giasone e Medea: tornano da Pelia in possesso del vello d’oro. Osservando Medea, le figlie del re lanciano un urlo terribile, paragonabile a quello delle donne di Ea di fronte all’omicidio compiuto da Medea. Il silenzio torna quando le donne comprendono che non c’è più pericolo: allora carezzano il viso della straniera e per accoglierla nella nuova società la spogliano delle sue vesti nere di barbara e la vestono dei loro colori.

Nonostante le vesti cittadine, Medea rimane barbara nella considerazione di tutti gli abitanti di Corinto. Pasolini trasmette lo spostamento temporale e il mutare delle condizioni attraverso l’incontro tra Giasone e i due centauri: ci troviamo in una Corinto trasfigurata nella Piazza dei Miracoli di Pisa, simbolo architettonico di una civiltà colta. Cambiano i colori: il bianco accecante delle strutture è posato delicatamente su freschi praticelli, disposti razionalmente. L’inquadratura rimane fissa sul centauro mitologico, si allarga quando Giasone nota lo sdoppiamento. Il centauro razionale prende la parola e gli spiega che il centauro-pedagogo non può comunicare con lui perché possiede una logica troppo diversa, eppure quella parte irrazionale è sopravvissuta accanto all’altra.

Giasone resta sconvolto ascoltando le sue parole. Lo sconvolgimento è spiegabile: il regresso dell’uomo moderno ad una dimensione dominata dall’interesse privato e dal profitto, ha determinato la sottomissione e la scomparsa dei sentimenti. Giasone opera all’insegna di questa legge: sposando Glauce, la figlia del re di Corinto, diviene erede al trono. Perciò lascia Medea e i suoi figli. Ma le parole del centauro annunciano la catastrofe: l’amore è una potenza distruttrice. Giasone ne avverte il pericolo e appare per la prima volta disorientato. 

Proprio per la sua origine di straniera e la sua fama di maga, Creonte teme Medea: è portatrice di una cultura altra, sconosciuta proprio perché si fonda sulle forze della natura. Ella vive in simbiosi con la terra, fonte della vita e della morte; per lei l’amore è un gesto totale che non ammette razionalizzazioni, ed è l’unica forza che può distaccarla dal culto per la vita-morte. Medea viene colpita nel suo essere donna: la sua prima reazione è la sofferenza e la sopportazione. Appare provata. Decide di farsi accompagnare dalla nutrice in città per vedere Giasone: egli è intento a festeggiare le sue imminenti nozze. Pasolini riduce l’inquadratura in primo piano al dettaglio degli occhi della protagonista. Medea si copre con il velo: prova un terribile patimento. 

Al ritorno le parole di una delle sue ancelle le fanno riscoprire un mondo sommerso dentro di lei: quello della magia e della vendetta. Se inizialmente rifiuta la propria diversità e soffre del clima di astio nei suoi confronti, sente infine di essere rimasta quello che era: “Un vaso pieno di un sapere non mio”. Chiusa nella stanza, medita sulla sconfitta: la sua mente, tra il sogno e la realtà, partorisce una visione: il sole che sorge la chiama a sé, le dà forza. La dissolvenza incrociata sovrappone l’immagine di Medea al paesaggio della Colchide, dalle sue viscere proviene il richiamo all’ antica natura. Rimbomba l’agghiacciante suono metallico misto ai versi degli animali, già ascoltato durante la lunga sequenza del rito di fertilità. Medea è di nuovo unita al dio. 

Nella visione Pasolini dà vita al mito di Euripide. Torna dalle sue ancelle trasfigurata nei suoi antichi panni di sacerdotessa. Le donne camminano furiosamente avanti e indietro nella stanza, come menadi in preda alla furia distruttrice. Solo la nutrice fa richiamo alle leggi morali: per la semi-dea nessuna parola ha valore, ci sono solo i suoi patimenti. Anche la nutrice deve aiutarla perché una donna e può capire. Medea sogna di uccidere crudelmente e violentemente Glauce, che muore arsa viva nelle vesti datele in dono da Medea. Il destino si ripete due volte: il sogno si trasforma in realtà. Pasolini dichiara, polemicamente, che il senso di questa iterazione sta nella differenza di motivazioni: se nella visione prevale il motivo magico, nella realtà la vendetta si spiega con motivazioni psicologiche, quindi “comprensibili” secondo le categorie del pensiero razionale borghese. 

Coerentemente con le proprie leggi interiori porta avanti fino in fondo la propria vendetta. Medea coccola i propri figli prima di ucciderli: li lava, come in una forma di rito sacrificale, infine li colpisce con un coltello. La riflessione pasoliniana sulla inconciliabilità tra i due mondi incarnati da Giasone e Medea si traduce nella morte degli elementi concreti della mediazione. Nel mito pasoliniano di Medea la mediazione è dunque destinata a rimanere senza frutto, poiché fondata sul tradimento e sull’inganno. L’ultimo gesto di purificazione avviene attraverso il fuoco: così come per giungere dinnanzi al dio doveva passare sopra un letto di paglia infiammata, allo stesso modo purifica i suoi figli contaminati dalla civiltà: dà fuoco alla casa. 
Nel suono ininterrotto della musica sacra, Medea sembra dissolversi nel fuoco, mentre Giasone incredulo e disperato, le chiede invano di poter seppellire i suoi figli. Come ogni eroe tragico Medea rimane sola. Si è fatta giustizia da sola colpendo Giasone non fisicamente ma moralmente, condannandolo a scontare in eterno la sua colpa.

Pasolini ha costruito il personaggio di Medea intorno a Maria Callas: “Questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi la superficie è quasi levigata, insomma i dieci anni passati a Corinto, sarebbero un po’ la vita della Callas. Lei viene fuori da un mondo contadino, greco arcaico, e poi si è educata per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello che è lei, nella sua totalità complessa”.  Nonostante gli imponenti mezzi economici messi a disposizione della coproduzione italo-franco-tedesca, la partecipazione della Callas e di importanti nomi del mondo dello sport (il personaggio di Giasone è interpretato da Giovanni Gentile, campione olimpico di salto in lungo, scelto per la prestanza fisica) e del cinema (Massimo Girotti è Creonte e Lorenz Terzieff è il centauro), il film non fu compreso. Pasolini fu criticato per aver accettato di girare con le grandi case di produzione internazionali, divenendo egli stesso strumento dell’omologazione che combatteva. Rispose lanciando una sfida: “Io strumentalizzo la produzione che c’è, la produzione che c’è strumentalizza me, vediamo un po’, facciamo questo braccio di ferro, vedremo di chi sarà la vittoria finale”. Quella sfida fu persa dal regista, ma fu vinta dal poeta

http://www.pasolini.net/saggistica_medea_studioantropolog.htm

La «Medea» di Pasolini

Scritta e diretta da Pasolini, la Medea venne realizzata nel 1969, due anni dopo l’Edipo re. Girata parte in Cappadocia, parte in Italia (Corinto è ricreata nella Piazza dei Miracoli di Pisa), sottolinea anche attraverso la duplice ambientazione lo scontro fra due universi inconciliabili, destinati a fronteggiarsi in un conflitto in cui o l’uno o l’altro non può che soccombere. Il tema del film è duplice anch’esso: l’utopia della pacifica coesistenza di identità fra loro distanti ma comunque complementari e necessarie al reciproco compimento, da una parte, e dall’altra la presa d’atto della loro impossibile convivenza. Il linguaggio cinematografico, visivo e immediato, era per Pasolini quello più aderente alla Realtà, l’unico davvero in grado di esserne specchio fedele, di riprodurla senza l’inevitabile limite che è proprio del linguaggio verbale, del logos. Tuttavia la sua regia è stilisticamente consapevole e dunque interpreta la Realtà alla luce di un’ideologia personale ben definita: tecniche di inquadratura (i primi piani sulla splendida Medea-Callas, lo sguardo in camera di Giasone prima del rapporto erotico, uno sguardo da trionfatore un po’ opportunista, così incommensurabile rispetto alla profondità oblativa di quello femminile), dialoghi, musiche e silenzi obbediscono a una regia sapientissima e convergono sul messaggio fondamentale del film.

Distaccandosi dalla tragedia di Euripide, che resta comunque il modello di riferimento (Pasolini ne trae parte delle battute dei personaggi, citando alla lettera il testo greco), il film si apre sull’antefatto, con Giasone bambino, salvato, allevato, educato dal Centauro, che è la figura più autobiografica del film, quella che più incarna ed esprime l’ideologia del regista, il suo punto di vista sulla vicenda che si viene raccontando. I passaggi rivelatori, quelli in cui lo spettatore riceve i mano la chiave per leggere e comprendere quanto si sta svolgendo, sono proprio quelli in cui Giasone ascolta gli insegnamenti del Centauro, suo Padre-Maestro (collocati al principio e a metà del film): a un certo punto si dice anche esplicitamente che il Padre-Maestro rappresenta la proiezione mitica dell’interiorità dello stesso Giasone, in se stessa divisa, fra la componente ancestrale (di cui è Medea il simbolo, ma che è presente allo stato inconscio anche in Giasone) e quella moderna, razionale e consapevole. Sul piano ideologico, il punto fondamentale è proprio questo: il mondo che Giasone vede da bambino è un mondo sacro, in cui tutto è abitato da un Dio, e la natura è soprannaturale, ha un significato che va oltre la sua materialità: «Tutto è sacro», afferma il Centauro. Il mondo che Giasone vede da adulto invece è un mondo sconsacrato, in cui non c’è più traccia della divinità, in cui la materia non ha significati oltre a se stessa e la natura è solo natura. In questa prima parte del film l’antitesi sacro/sconsacrato si percepisce quindi come frutto di un’evoluzione naturale, di una crescita, dall’infanzia all’età adulta, dal mondo mitico a quello razionale, dal primitivo all’evoluto. Tanto che Giasone, ormai uomo, parte per un’impresa politica: deve riappropriarsi del trono che legittimamente gli spetta, usurpato dallo zio Pelia, e per riuscirci deve sottrarre il Vello d’oro al re della Colchide, padre di Medea. Giasone si muove in un’ottica pragmatica, di calcolo: l’ottica del capitalismo borghese (questo, come vedremo, è un altro dei livelli di lettura del film: in chiave politica e sociologica: il mondo pre-industriale, con i suoi valori tradizionali e il suo volto primitivo ma ricco di significati autentici contrapposto al volto nuovo della modernità industriale e capitalistica, aggressiva, conquistatrice e vincente, ma superficiale e priva di valori). La trasformazione attraverso cui passa Medea non ha invece il carattere di un’evoluzione graduale e naturale: è un cambiamento rapido, improvviso e traumatico (reso nel film con il suo svenimento), una «conversione alla rovescia», dal sacro allo sconsacrato, dal mitico al razionale, provocata dall’irruzione di un elemento esterno e straniero. Medea cambia nell’istante in cui vede Giasone, innamorandosene. A questo punto, a sottolineare il mutamento avvenuto, cessa la musica barbarica che commenta le scene ambientate nella Colchide e soprattutto accompagna la presenza di Medea [1] . L’incontro con l’Altro la fa incontrare con l’Altro che è in lei. Tuttavia non è un incontro positivo: quello che Medea registra e patisce con drammatico disorientamento è piuttosto la perdita della sua identità originaria, la perdita del contatto con il sacro, con la Terra e con il Sole, che ora sono muti per lei, non le parlano più, così come i sassi e l’erba sono solo sassi e erba, non hanno più per lei i significati che avevano prima. È forte il contrasto fra la Medea che nella prima parte del film celebra il rito di fertilità, officiando, lei sacerdotessa regale, il sacrificio umano, sicura, autorevole, forte del suo rappresentare tutta una civiltà di valori e di tradizioni, e la Medea che approdata in Grecia non riconosce più quella stessa natura che prima le era innato riconoscere. Da un articolo che Pasolini scrisse e pubblicò nel ’67 si evince chiaramente che il codice di valori di Medea, della Medea «antica», che è lo stesso del Vecchio Centauro (che Giasone vedeva da bambino, ma non più da adulto), è anche quello dell’autore: «ma essere è naturale? No, a me non sembra, anzi, a me sembra che sia portentoso, misterioso e, semmai assolutamente innaturale» [2] .

Poi accade che la perdita dell’«antica» identità si compensa nell’acquisto dell’amore: l’oggetto sacro viene sostituito da quello erotico: Medea si perde come «donna antica» ma si ritrova nell’amore fisico per Giasone, abbandonandosi a esso con la stessa totalità con cui prima aveva vissuto il rapporto con il sacro. Per amore di lui tradisce i suoi, ruba il vello (emblema di una santità che sottratta al proprio contesto si svuota e perde anch’essa il suo significato), uccide il fratello per agevolare la fuga degli Argonauti, si lascia portare lontano dalla terra che è sua per arrivare ad un’altra che le è nuova e ostile, si lascia spogliare dei suoi abiti sacerdotali e regali e rivestire di vesti greche. L’amore è sufficiente a compensare il disorientamento e la perdita.

Una nuova crisi la colpisce nel momento in cui l’amore viene tradito, cioè quando Giasone, seguendo una logica di convenienza economica e politica, pianifica nuove nozze con Glauce, figlia del re di Corinto, abbandonando il letto della prima sposa e i due figli avuti da lei. È a questo punto che le parole di un’Ancella consentono a Medea di vedersi per quella che è diventata, un’Altra da sé («sono un’altra creatura ormai. Ho tutto dimenticato. Ciò che era realtà ora non lo è più»), e di riappropriarsi del suo Sé originario. La coscienza razionale della sua «catastrofe spirituale», «del suo disorientamento di donna antica in un mondo che ignora ciò in cui ha sempre creduto», è il punto di partenza per la sua nuova conversione, per il ritorno a quella dimensione sacra e ancestrale da cui si era separata: «forse hai ragione, sono restata quello che ero: un vaso pieno di un sapere non mio». Medea da vittima passiva della propria vicenda si rovescia in soggetto attivo, la sua intima catastrofe si volge in una catastrofe esterna, che annienterà i suoi nemici. Risuonano le parole profetiche del Centauro, pronunciate nelle prime sequenze della pellicola: «tutto è santo. Ma la santità anzi è una maledizione. Gli dèi che amano al tempo stesso odiano». Il Vecchio Centauro si è risvegliato, ed è inoltre forte della lucida coscienza pragmatica del Centauro Nuovo: Medea, spinta da sentimenti ancestrali, può mettere in atto la sua strategia di vendetta contro gli oltraggi subiti da parte di Giasone e di Creonte, nel nome di Dio e della Giustizia, nel segno della ritrovata comunicazione con il Sole, il padre di suo padre. È mossa dalla «passione» ma si muove «ideologicamente». Riacquista, nella visione profetica, i suoi abiti sacerdotali e regali, riassume la sicurezza dello sguardo e delle decisioni, simula la riconciliazione con il marito e l’accettazione delle sue nuove nozze, fino al tragico epilogo, della morte di Glauce in seguito al suo dono nuziale e dell’uccisione dei figli. È importante osservare l’innovazione che Pasolini qui introduce rispetto al modello euripideo. Nella tragedia classica Glauce muore perché l’abito che Medea le invia è imbevuto di veleno: la ragazza è arsa dal rogo che si sprigiona dal velo e dalle vesti, e con lei il padre che tenta disperatamente di salvarla. Questo è quello che la Medea di Pasolini vede nella sua visione profetica: qui rivivono il mito e il sogno. Ma quello che poi accade nella realtà è molto diverso, molto più realistico. Glauce qui non muore per un veleno ma muore schiacciata dalla sua fragilità nevrotica, che il padre aveva intuito e tentato di arginare condannando Medea all’esilio perpetuo. Parlando a Medea, Creonte le svela infatti il vero motivo della sua decisione: Medea fa paura e deve andarsene non perché barbara, venuta da una terra lontana e straniera, né perché maga, ma perché Glauce, conoscendo la sua sofferenza di donna tradita e umiliata, patisce un dolore altrettanto grande, che le rende insopportabile il pensiero delle nozze con Giasone. Un passaggio fondamentale è il momento in cui Glauce, indossato l’abito inviatole da Medea, si vede riflessa nello specchio: nella sua rivede forse l’immagine di Medea, sposa tradita, e non sopportando il peso della propria colpa fugge fuori dalla reggia e si lancia dalla torre, seguita dal padre. Un doppio suicidio indotto non dalle arti magiche ma dalla finezza psicologica di Medea.

Il contrasto fondamentale, l’antitesi sulla quale si costruisce la vicenda, funziona quindi su tre livelli. Il primo, il più evidente, è quello antropologico, che oppone la civiltà greca, «umana», alla «disumana» primitività barbarica. Il contatto fra le due produce non integrazione, ma distruzione nell’una (che reagisce tentando di isolare e poi di rimuovere, con l’esilio o con l’oblio, l’elemento perturbante, facendosi così essa stessa «disumana» e attirando su di sé la vendetta del dio), alienazione nell’altra (Medea divenuta «un’altra creatura», Giasone adulto) [3] . Un altro livello è poi quello psicanalitico: la razionalità di Giasone, l’Ego, che si scontra con l’irrazionalità totalizzante e distruttiva di Medea: l’Es, che rimosso dalla sede legittima, riaffiora violentemente, rivendicando i propri diritti misconosciuti dall’Ego. Infine c’è un livello politico: lo scontro fra l’Occidente moderno, borghese e industrializzato, e il Terzo Mondo, legato a una cultura arcaica e ancestrale, asservito e sfruttato (tema che Pasolini svilupperà in Petrolio e negli Appunti per un’Orestiade africana). L’utopia pasoliniana, quale si esprime nella Medea, non si riduce però alla nostalgia dell’arcaico: il film non comunica il desiderio di un ritorno all’«antico», ma insiste piuttosto sulla necessità di una coesistenza dei due mondi, simbolicamente espressa nel momento in cui Giasone, dopo avere abbandonato Medea, proietta all’esterno il conflitto che ha rimosso, la sua percezione profonda di una realtà che la coscienza sceglie di ignorare: egli in realtà ama Medea e ne comprende e compatisce la «catastrofe spirituale». Giasone vede contemporaneamente, l’uno accanto all’altro, i due Centauri della sua formazione: quello Vecchio dell’infanzia e quello Nuovo dell’età adulta, il Sacro e lo Sconsacrato, quello che ormai non può più parlare, perché la sua logica è ormai talmente diversa da quella corrente che le sue parole sarebbero incomprensibili, e quello che invece condivide la logica del mondo attuale, e può, attraverso questa, dare voce ai sentimenti dell’altro. «Ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata». L’epilogo tragico sta a dichiarare, nell’ultimo confronto fra le due alterità, Giasone e Medea, la loro definitiva separazione: «Niente è più possibile ormai». Il passaggio dal sacro allo sconsacrato, dal primitivo al tecnologico, dal pulsionale al razionale, non può avvenire che a prezzo di una rimozione del primo termine della polarità, ma questa rimozione è un errore (psichico e culturale insieme) che il secondo termine deve pagare a un prezzo di sofferenza molto alto.

http://www.griseldaonline.it/extra/medea-pasolini-ricci.html




 

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