GLI ESORDI DI JERZY SKOLIMOWSKI : “Rysopisu” – Polanski – Nóż w wodzie – bariera – Walkover De Jerzy Skolimowski

L’IRREVOCABILE LIBERTÀ: GLI ESORDI DI JERZY SKOLIMOWSKIbarCLAUDIO DI MINNO

Quello che amo [in Skolimowski] è il fatto che
fa continuamente la spola tra il particolare e il generale.
Descrive nello stesso tempo l’individuo e quello
che gli sta intorno, e lo fa meglio di chiunque altro.
Da Rysopis e Walkower ho molto da imparare […].
A New York la gente gli disse che i suoi film appaiono
molto francesi. Egli rispose:
“I’m sorry, I’m Polish and I never set foot in France”.Jean-Luc Godard (1)Che fare visto che non so fare film […] polacchi
e disperati come Skolimowski? Si, che fare?Jean-Luc Godard (2)Uso della metafora, ricorso sistematico al piano sequenza, recitazione in grado di permettere al contempo alterità ed identificazione, (auto)biografismo generazionale: ecco alcune delle caratteristiche più evidenti e significative dell’opera (polacca) di Jerzy Skolimowski, spesso relegato al rango di parentesi all’interno della storia del cinema, classificato come meteora nel firmamento del cosiddetto “Nuovo Cinema” degli anni Sessanta, destinato, fatalmente, all’oblio.Jerzy Skolimowski esordisce al lungometraggio nel 1964, quando è ancora studente alla Scuola Superiore di Cinematografia di Łodz, l’istituto che dal 1947 e nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta forma le nuove leve del cinema polacco.
Nonostante le ristrettezze economiche del dopoguerra, i registi della cosiddetta prima generazione (composta da personalità già attive prima della guerra e che a quest’ultima vi avevano anche partecipato direttamente sul campo), Aleksander Ford (Fiamme su Varsavia [Ulica Graniczna], 1948) e Wanda Jakubowska (L’ultima tappa [Ostatni etap], 1948) su tutti, garantiscono al cinema nazionale continuità e mantenimento di “porzioni di mercato”, a fronte della massiccia distribuzione di film esteri.
L’esperienza del conflitto è per la Polonia più catastrofica che per gli altri Paesi europei: una doppia invasione – tedesca e russa – con decine di milioni di morti e reduci, mutilati. È evidente che i temi trattati maggiormente dal cinema postbellico siano proprio inerenti la tragedia che a partire dal settembre 1939 colpì tutta la nazione. Ma a fare da protagonisti sono anche i temi relativi alla società dell’epoca, alle questioni riguardanti la costruzione della nuova Repubblica Popolare.
I film dell’epoca hanno spesso al centro, declinato a seconda delle esigenze del soggetto trattato, il tema del patriottismo, autentico leit-motiv dominante dell’intera storia della cultura polacca, dalla letteratura alla musica, dal teatro al cinema. In un Paese segnato da continue invasioni e da un difficile cammino di unificazione nazionale, la retorica è il tratto dominante della produzione cinematografica, anche di quella della cosiddetta “seconda generazione”: si pensi all’esordio al lungometraggio di Andrzej Wajda, Generazione (Pokoleine, 1954), che ha per tema l’occupazione tedesca e la repressione (ordita dagli occupanti in collaborazione con gruppi nazionalisti polacchi) contro l’opposizione comunista.
L’immaginario nazionale – lo ripetiamo, anche quello cinematografico – considera la morte, il sacrificio della felicità personale, dei beni e dei cari, come atto dovuto, anche di fronte a situazioni già in partenza votate al fallimento: non a caso si parla spesso di “eroismo inutile” del popolo polacco, e intorno a tale tematica si è formata un’intera letteratura, si pensi al caso esemplare di Wiltold Gombrowicz.In questo contesto cresce una nuova generazione di cineasti: Roman Polanski e Jerzy Skolimowski ne sono i due esponenti più rappresentativi. Entrambi sono nati a ridosso dell’inizio della guerra e non sono stati partecipi della costruzione della società socialista in cui vivono. Sono “irresponsabili per nascita”, per così dire, e vivono in una realtà che si sta lentamente stabilizzando, in cui ogni impulso al cambiamento è sopito da una sorta di anestetizzante sociale rappresentato dal benessere crescente.
Polanski si diploma nel 1962 e chiede a Skolimowski (iscrittosi alla Scuola di Cinema quasi per caso, su invito di Wajda, conosciuto nel 1960) di collaborare alla stesura della sceneggiatura del suo esordio al lungometraggio, Il coltello nell’acqua (Noz w wodzie). Il futuro regista di Cul de sac, ammira nel giovane collega il metodo di composizione dei dialoghi e le sue idee sul cinema. Le intuizioni più significative del film sono di Skolimowski, il quale sembra già aver chiaro in mente che cosa farà di lì a qualche anno.
In realtà, per questo enfant prodige il cinema non aveva, sino a pochi mesi prima, grande significato: “Per me, il cinema era Fanfan la Tulipe, il mio film preferito. Me ne fregavo del cinema, non ci andavo per ragioni intellettuali, ma per vedere le donne e i loro seni; era così, io scrivevo poesie e credevo che solo i poeti fossero veri artisti, non la gente di cinema” (3).
Skolimowski scrive composizioni di stampo esistenzialista (sistematicamente citate nei suoi film), sperimenta la figura retorica della metafora (che tanta fortuna avrà nel suo cinema), gareggia come boxeur (Andrzej Munk, il grande regista polacco scomparso prematuramente, l’unico che si possa definire “padre” cinematografico di Skolimowski, lo chiamò “il boxeur poeta”), segue i corsi di etnologia per poi laurearsi a Varsavia, in letteratura.
Da una personalità tanto “irregolare” non ci si può che attendere un cinema altrettanto fuori dalla norma, un cinema che lo renderà il rappresentante più significativo tra i registi polacchi degli anni Sessanta, vedendo avverata la profezia di Polanski: “Skolimowski sovrasterà la sua generazione con la testa e le spalle”.L’alter ego dell’autore nei primi due lungometraggi del regista, Segni particolari: nessuno (Rysopis) e Walkower, 1965, è Andrzej Leszczyc, un antieroe solitario, insofferente ad ogni autorità, interpretato dallo stesso Skolimowski.
Rysopis è una confessione del protagonista, che vive un’esistenza normale, comune in tutta la sua banalità: l’amore si rivela un attimo fuggevole (l’incontro con Barbara all’Università) e la Storia un inganno (si veda l’episodio del reduce di guerra). Andrzej si muove sempre in bilico, in spazi ristretti (come quello del suo appartamento): un’esistenza sospesa, proprio come sospesa resta la dialettica dell’intero film, tra il punto di vista del personaggio e quello della società che lo circonda.
In sole ventiquattro ore Andrzej fa il bilancio della propria vita, dato che l’indomani è costretto a partire per prestare il servizio militare obbligatorio dopo aver disertato la prima chiamata. La macchina da presa lo segue senza posa nelle sue peregrinazioni in città: correre per prendere all’ultimo istante utile un tram in corsa, iscriversi ad un corso di spagnolo, incontrare una ragazza, forse innamorarsene, laurearsi in ittiologia pur non tollerando i pesci, sono scelte tra le tante, tutte posizioni assunte senza precise motivazioni e, forse proprio per questo, tutte necessarie. Quando in caserma gli domandano perché non si è presentato per prestare i tre mesi di servizio militare, risponde: “Dovevo fare ordine nella mia vita. Pensavo che non si potesse fare a meno di un’ora, figuriamoci di tre mesi”. Il sentimento che anima Andrzej è definito in modo esplicito quando un giornalista radiofonico gli chiede di rispondere alla domanda “Vorrebbe fare il cosmonauta?”. Il giovane risponde: “Sì, vorrei che capitasse qualcosa di irrevocabile, da non potersi più tirare indietro, e non che si possa poi prendere decisioni dopo il lancio… direzione, quota, velocità, destinazione. Ecco… Però non dev’essere per forza la luna. Se fossi – poniamo – un camionista, in viaggio verso lontane destinazioni, Jelenia Gora, Rzeszow, Kolobrzerg… Devo continuare? […] Ecco. Dieci e più ore di strada, mi fermo quando mi pare, ma c’è un compito. Bisogna arrivare in tempo, poi una giornata libera in una nuova città. Si passeggia. Dietro ad ogni angolo di strada c’è qualche cosa… non si conosce la città. La si scopre […]. È importante poter dare qualcosa di se stessi”. Alla replica del giornalista, “Benissimo! L’ha detto proprio bene! Ma perché non fa il camionista?”, Andrzej risponde malinconicamente: “Non so. Forse perché non so guidare”.Walkower ripresenta, ampliandoli, i temi dell’esordio, ponendosi in perfetta continuità formale con il precedente, tanto da iniziare come termina il primo “capitolo”, ovvero con un mezzo su rotaia in movimento: in Rysopis un tram, qui un treno. Sono trascorsi sei anni: Andrzej ha svolto il servizio militare, ha interrotto gli studi, non ha né un lavoro né una donna. Vaga per la Polonia come uno sradicato, estraneo alla società e a se stesso. A tal proposito tornano alla mente i versi di Skolimowski che più volte nel film puntellano la sua esperienza: “L’uomo che dice: non so / perché sono qui / Finché dopo molti anni o dopo qualcosa / come la giovinezza o l’amore / con la mano alla gola vuole aggiustare tutto / e si aggiusta la cravatta”. La condizione di Andrzej è tutta condensata in questi sei versi e nella gara di boxe che conclude la pellicola: dopo aver ritirato il premio (un orologio e una radio, simboli ricorrenti in tutti i primi tre film del regista), l’avversario sconfitto ritorna nella sala completamente deserta dove è avvenuto l’incontro: chiede la sua parte, sostenendo di essere stato corrotto al fine di perdere. Andrzej si rifiuta di accettare e, in una reale sfida finale, ne esce nettamente sconfitto.
“Sono un ottimista che sa molto bene che dovrà perdere, dunque un pessimista. Evidentemente si tratta di perdere il più tardi possibile” (4), dichiara Skolimowski, la cui filosofia (e quella del suo protagonista: impossibile è infatti separare il regista dal suo alter ego filmico, nonostante Skolimowski si sia sempre sforzato di sostenere la loro alterità) è così sintetizzabile: “Se tutti fuggono il più coraggioso è quello che fugge per ultimo. O quello che ritorna” (5). In Walkower il boxeur poeta torna e perde. Ma che cosa? In fondo, ben poco: “Ho trent’anni e questa radio, il cappotto e la valigia, sono tutto quello che ho […]”, dichiarerà a fine film senza nemmeno eccessiva tristezza.Lo stile skolimowskiano di questi due film è dominato dal ricorso al piano sequenza (“39 inquadrature in Rysopis, 29 in Walkower, ecco come, a prezzo di  tutte le prodezze tecniche, l’autore conta di cogliere con tutta la fluidità possibile l’itinerario del suo personaggio” [6]), dalla profondità di campo (“È difficile indicare [soprattutto in Walkower] anche una sola inquadratura in cui, alle spalle del protagonista, non accada qualcosa perlomeno di insolito, oltre l’ordine naturale delle cose. Andrzej è passivo e mediocre, mentre la realtà che lo circonda pare aggredirlo, colpirlo con i contrasti, con l’inopinata composizione degli oggetti, con le strutture metalliche che precipitano oltre la finestra dello studio del direttore, fragorosa annunciazione della fine del mondo, le ballerine che studiano i passi sul terrazzo del caffè; il crocifisso sradicato da terra al bivio della strada; il bizzarro vecchietto che porge al cane la torta di compleanno con le candeline” [7]), dal décadrage, dal gioco dialettico tra campo e fuori campo, dalla sistematica de-drammatizzazione (non estranea al ricorso all’ironia, memore della lezione di Munk).
A differenza di molto cinema coevo, il regista ricorre spesso a simboli, come la valigia (che sarà protagonista anche del successivo Bariera, 1966), simbolo delle eredità del passato, lo specchio (spesso rotto), gli orologi a rimandare ad un inquietante tempo morto.
Consapevole dell’importanza del suo secondo film per l’intera cinematografia dell’Est Europa (“Walkower è per i Paesi dell’Est quello che À bout de souffle è stato per il cinema occidentale”) e delle peculiarità delle soluzioni da lui adottate (“L’inizio di L’infernale Quinlan è un piano sequenza di sette minuti: fantastico. Ma io avevo l’impressione che fosse controllato troppo minuziosamente dal punto di vista tecnico. Volevo fare qualcosa di più naturale, tenere dieci minuti, ma senza avere coscienza che i muri davanti alla macchina si divaricano”), Skolimowski dimostra anche una notevole capacità di riflessione estetica sul cinema: “Giovani noi? Noi che abbiamo frequentato la Scuola di Cinema! – dichiarerà – Ma questo cinema è già vecchio, colto, troppo colto. Il cinema deve essere fatto dai ragazzini, dai bambini, prima che sappiano o credano di sapere cosa è il cinema […]”. Una netta presa di posizione (dal sapore fortemente godardiano) per quello che, non a caso, sarà definito il “Godard polacco”.“Pierrot le fou […] mi ha fatto un’enorme impressione. Questo film […] mi ha veramente consentito di allargare i miei punti di vista sul cinema. L’avevo visto senza sottotitoli e non riuscivo assolutamente a seguire la storia […]. Non ho capito […] nulla […]. Credo di aver capito molte cose senza aver compreso una sola parola e ciò mi ha talmente impressionato che ho tentato di fare Bariera un po’ nella stessa ottica” (8): così Skolimowski alla presentazione del suo terzo lungometraggio, “Un itinerario non di conoscenza, ma di visione: lo spettatore che vede i pensieri del protagonista. Un percorso come dilatazione spaziale e temporale assolutamente non lineare, falsata, non soggetta alle regole della decifrazione immediata del reale […]” (9).
Bariera è l’esperienza più simbolista della carriera del regista, profondamente distante sia dai suoi due film precedenti, sia dai i due più recenti, gli asciutti ed essenziali Quattro notti con Anna (Cztery noce z Anna, 2008) ed Essential Killing (2010).
Il protagonista non è più interpretato da Skolimowski, qui solo dietro alla macchina da presa, ma è sempre l’Andrzej delle due esperienze precedenti, alle prese, ancora una volta, con una vita fallimentare la cui sintesi è contenuta nella valigia che ha sempre con sé: “È già passata quasi metà della mia vita e tutto ciò che mi appartiene è qui dentro”, dice ad un tratto. Insofferente nei confronti dell’autorità (esemplare, in questo senso, l’inizio della pellicola, ma anche la citazione rovesciata della sequenza della carica degli Ululani contro i tank tedeschi in Lotna (1959) di Wajda: armato di sciabola, curioso dono paterno, il protagonista attacca un auto, simbolo del presunto benessere di quegli anni), sprezzante nei confronti del consumismo borghese dei tanti colleghi medici che hanno fatto carriera (“Vi incontrerete tra dieci anni per vedere chi di voi ha comprato di più e questo sarà il vostro curriculum vitae”), irriducibilmente allergico al rapporto di coppia, il protagonista si muove nello spazio abbacinante di una Polonia senza una precisa identità, in attesa di compiere quel salto (l’enorme scivolo che compare nel film, realmente esistente alla periferia di Varsavia, ne è simbolo evidente) che gli permetta di smarcarsi dal quotidiano, dal sempre identico. Il lieto fine (il rinnovato incontro con la giovane ragazza incontrata nel corso della vicenda, interpretata dalla seconda moglie di Skolimowski, Joanna Szczerbic) si dimostrerà effimero nel film successivo del regista, quel Mani in alto! (Ręce do góry, 1967), di fatto altro proseguimento delle vicende di Andrzej-Jerzy, che le autorità polacche bloccheranno, imponendo al regista la via dell’esilio all’estero.Come ha scritto Ciment, Skolimowski è il “regista della riflessione e dell’azione […] moderno sotto ogni aspetto,  […] è anche quello dell’irrevocabile e della libertà” (10): libertà che ritroviamo, a distanza di più di quarant’anni, nei suoi film degli esordi e che possiamo rintracciare ancora oggi nelle sue sorprendenti opere più recenti.NOTE(1) Jean-Luc Godard, in “Parlons de ‘Pierrot’. Entretien avec Jean-Luc Godard”, Cahiers du Cinéma, 171, ottobre 1965.(2) Jean-Luc Godard, citato in Alberto Farassino, Jean- Luc Godard, Firenze, La Nuova Italia, collana Il Castoro Cinema, 1974, p. 7.(3) Jerzy Skolimowski, “Intervista”, Positif, 135, febbraio 1975. La traduzione, qui come altrove e salvo diversa indicazione, è nostra.(4) Dichiarazione del regista tratta da Jean-André Fieschi, Luc Mullet, Claude Ollier, “Le vingt-et- unième”, Cahiers du Cinéma, 177, aprile 1966.

(5) Da “Intervista a Jerzy Skolimowski”, Jeune cinéma, 8, giugno-luglio 1965.

(6) Michel Ciment, “La tête et les jambes”, Positif, 77-78, luglio 1966, trad. it. “La testa e le gambe”, Ombre Rosse, 4, marzo 1968, ora anche in Jerzy Skolimowski, a cura di Małgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Torino, Lindau, 1996, pp. 118-119.

(7) Konrad Eberhardt, “L’uomo con la valigia”, Kino, 3, marzo 1967, trad. it. in Ivi, p. 127.

(8) Jerzy Skolimowski citato Fabrizio Borin, Jerzy Skolimowski, Firenze, La Nuova Italia, collana Il Castoro Cinema, 1987, p. 7.

(9) Ivi, p. 25.

(10) Michel Ciment, “La testa e le gambe”, in Jerzy Skolimowski, a cura di Małgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, cit., p. 120.

http://www.filmidee.it/archive/30/article/211/article.aspx

Segni particolari: nessuno – Rysopis

Regia: Skolimowski Jerzy
Cast e credits: Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski; fotografia: Witold Mickiewicz; musiche: Krzysztof Sadowski; montaggio: Jerzy Skolimowski, Halina Gronek; interpreti: Andrzej Zarnecki (Raymond), Jerzy Skolimowski (Andrzej Leszczyc), Tadeusz Mins (Mundzek), Elzbieta Czyzewska (la Donna/Studentessa), Jacek Szczek; produzione: Pwsrif (Scuola Superiore di Cinema Televisione e Teatro di Lodz); distribuzione: Movies Inspired; origine: Polonia, 1964; durata: 76’.
Trama: Il ventiquattrenne Andrzej Leszczyc si sveglia troppo presto per andare all’ufficio militare dove deve passare la visita di leva. Finora ha avuto il rinvio perché studente di ittiologia, ma ora che la sua tesi non procede (ed è stato espulso dall’Università), decide di arruolarsi immediatamente.
È ancora buio. Esce di casa ugualmente e vaga per la città. All’ufficio leva è interrogato e quindi sottoposto a visita medica: «Segni particolari? Nessuno». Quella sera stessa dovrà partire per il campo. Gli rimangono soltanto poche ore di libertà prima di passare due anni nell’esercito. Allora decide di ritornare a casa. Qui non dice niente a Teresa, la sua ragazza che talvolta presenta come moglie.
Quando lei esce per andare al lavoro, Andrzej si accorge che il cane sta male. Lo porta dal veterinario che decide di fargli un’iniezione letale, perché l’animale ha la rabbia. Poi va in un caffè dove Mundzek, un amico ritrattista, si abbandona a confidenze sulle sue avventure sessuali con casalinghe sole. Successivamente si reca alla segreteria dell’università per un documento. Qui incontra Barbara, una giovane matricola. I due riescono a parlarsi solo a distanza. Andrzej sembra molto disponibile, ma poco dopo la lascia per cercare una delle donne di cui parlava Mundzek. La casalinga si dimostra, però, elusiva.
Allora Andrzej decide di cercare Teresa nel negozio dove lavora. Qui, però, nessuno la conosce. Va a casa, e quando la donna ritorna la rimprovera e fa allusioni sulla vera natura della sua attività.
È ormai ora di partire. Andrzej si precipita alla stazione dove riesce a saltare sul treno pieno di giovani reclute. A salutarlo è andata anche Barbara, ma lui non ha più tempo…
Critica (1): Realizzato come saggio di fine corso della Scuola di Cinema, Segni particolari: nessuno (1964) è anche l’esordio ufficiale di Skolimowski. Frutto di un progetto preorganizzato (dal secondo anno di studi sta utilizzando la pellicola che annualmente la scuola gli mette a disposizione per girare delle “parti” a un tempo autnome e incastrabili nel futuro film), Segni particolari nega l’affermazione del titolo e propone invece con quel «nessuno» (aggiunto nell’edizione italiana, ma pronunciato nel film), alcune coordinate precise sul regista e sul suo personaggio alter ego, Andrzej Leszczyc. Contiene inoltre anticipazioni – come il tema dell’itinerario – di quel cinema della sfida che caratterizzerà l’evoluzione della intera attività cinematografica dell’autore polacco.
Andrzej è l’immagine speculare di Skolimowski, ma solo perché il regista ne è anche l’interprete (e lo è non per esigenze artistiche, ma perché non poteva permettersi di pagare attori), e in quanto suo coetaneo e portatore delle contraddizioni della generazione degli «ingenui perversi». Per il resto, la riduttiva assimilazione autobiografica – come si vedrà nei successivi film – non consentirebbe di cogliere i molti segnali che il giovane lancia in maniera contraddittoria, anzi dissonante, come avviene per il jazz (atmosfera che indirettamente l’adolescente regista respira quando lavora come responsabile delle luci al seguito del complesso musicale di Krzysztof Komeda, con il quale poi collaborerà intensamente).
Segnali che non sono messaggi culturali o teorie sulla nuova borghesia rossa, che secondo Skolimowski convive con lo stalinismo ancora vivo degli anni ’60. Meno ancora sono saggi di psicologia del comportamento, o analisi critiche sulla struttura e la costruzione della società socialista. Si tratta invece “soltanto” della manifestazione istintiva di una soggettività delusa (dal passato) inquieta (perché troppo compressa), cinica e ribelle perché troppo consapevole del presente e soffocata dal futuro. I film di Skolimowski sono contrassegnati da metaforiche e oppressive immagini di sacchetti di plastica o di carta, di teloni, veli, lenzuola e bende che avvolgono, cappelli che coprono, impedimenti e pesi da portare, barriere architettoniche, corde e ring di pugilato, vagoni sigillati, corridoi, appartamenti e navi claustrofobiche che tolgono aria vitale ai personaggi.
Andrzej Leszczyc è un solitario, un isolato, un outsider, a metà tra l’eroe letterario di J.D. Salinger, Holden Caulfield (Il giovane Holden, 1951), e uno dei «rivoltosi conformisti» del saggio di Jan Blonski (Les révoltés conformistes, «Les Temps Modernes», 175-176, ottobre-novembre 1960). Benché in un contesto assai diverso da quello americano del romanzo, Andrzej possiede del primo un potenziale di caustica ironia che sarà più evidente in Barriera (dove lo studente protagonista non ha nome, ma è Leszczyc). Esprime l’incomprensione che il mondo esterno e quello dei suoi pensieri manifestano nei suoi confronti; possiede la velocità del racconto, la polverizzazione della logica nella rappresentazione sequenziale di una situazione o di un personaggio: in Holden, ad esempio, i genitori e la sorella, oppure la scuola; e in Andrzej il ritmo del suo irregolare movimento, la «sofferenza» quasi surreale nel bruciare le poche ore prima della partenza (come Holden prima di tornare a casa dopo l’espulsione dalla scuola). (…)
Segni particolari è una sorta di monologo interiore che si esprime con azioni e momenti rappresentati, come se non ci fosse soluzione di continuità temporale tra il modo di pensare e di vivere di Andrzej e il linguaggio della cinepresa. Nessuno dei due spiega il proprio comportamento, ma la mdp sembra aver assorbito l’energia del personaggio; questi, a sua volta, le fornisce una originalità stilistica dovuta anche alle particolari condizioni della realizzazione del film (in economia), nonché alla giovane età del regista che con quest’opera farà uscire il nome di Skolimowski dai confini del suo paese. (…)
«Durante quelle ore cruciali in cui il protagonista fa, senza veramente volerlo, il bilancio della sua vita, la cinepresa non lo abbandona più», rileva Michel Ciment («Positif», 77-78, luglio 1966) che coglie il nocciolo del film sottolineandone il carattere di confessione involontaria, di itinerario personale tutto proteso al passato, dal momento che il futuro di militare di Andrzej già sta per cominciare. Lo iato dei percorsi di quest’opera – in cui, secondo Raymond Lefèvre (cfr. «Cinéma 73», 180, settembre-ottobre 1973), Skolimowski tende a cancellare la separazione tra cinema oggettivo (che spia il personaggio) e cinema soggettivo (che si identifica con lo sguardo) – è un contrasto vissuto da Andrzej come in soggettiva, attraverso una serie di punti di riferimento indiziari sulla sua esistenza (un po’ come saranno le metaforiche “stazioni” di Barriera). Come se egli già sapesse che negli altri e in se stesso non troverà motivi validi né per rimanere, né per partire.
L’amore è una finzione: lui e Teresa non sanno nulla l’uno dell’altra. L’amicizia è solo quella di Mundzek, la proiezione di come egli potrebbe diventare (uno che da direttore dell’Associazione della gioventù polacca è significativamente diventato un pittore di ritratti da marciapiede). L’incontro con Barbara è inutile (lei alla stazione lo cerca invano) e sfortunato perché la donna si ammazzerà, lui presente, alcuni anni dopo. L’impatto con le istituzioni è scontato ma negativo (la visita di leva giocata su rapide interruzioni della continuità visiva mediante inserti in nero, e dopo, la bara che incrocia sulle scale, ma soprattutto la sequenza dal veterinario, dove Andrzej si sente responsabile della morte del cane); quello con la Storia è sempre deludente e amaro (il ferito di guerra che bara sulla sua infermità. Egli è avvolto da un quotidiano fatto di una mansarda-vetrina dove un muro di mattoni separa la cucina e dove la gente sfila nell’anonimato (sottolineato dalle due sconosciute che fanno i bagni di sole in terrazza).
Ma è un quotidiano fatto anche dei suoi studi di ittiologia. «Alcuni pesci vanno dal mare ai laghi, controcorrente»: questa affermazione è forse un momento di reazione, un indefinito lampo nel cervello di Andrzej che capisce come osservare il mondo non sia più sufficiente, occorre muoversi e in fretta («Una volta lanciati, poter scegliere il proprio itinerario», è quanto dice durante 1’intervi-
sta). E dunque, concitazione alla stazione, il salto sul treno già in moto. Ma in lui non c’è ancora – come avverrà in Walk over – l’idea della lotta come molla per ostinarsi ad andare contro una corrente già programmata, per lui, da altri. Per ora il segno particolare più importante per Andrzej/Skolimowski è il treno, il mezzo che permette un cambiamento se non di stato, almeno di posizione. (…)
Fabrizio Borin, Jerzy Skolimowski, Il Castoro cinema, 1-2/1987
Critica (2): Lei è stato il primo allievo a girare un lungometraggio frequentando la scuola. Magari non tutto in una volta, ma spezzone dopo spezzone, assemblando vari saggi scolastici, comunque Rysopis nacque durante i suoi studi.
Sì. Iniziai già al secondo anno. Sfruttavo ogni occasione buona per girare un pezzo di film. Ricordo un’esercitazione per operatori sull’uso del trasfocatore. I colleghi facevano rapidi zoom su un’automobile in avvicinamento frontale. Una ripresa tipica, a effetto. Io, invece, se ben ricordo, girai l’inquadratura di Rysopis che inizia da un ammasso di ferraglia, dalla cisterna percossa col bastone dal ragazzino. A quel punto io entro in campo, mentre con lo zoom l’inquadratura si allarga sempre di più. Presa da sola, quell’inquadratura poteva valere come esemplificazione dell’uso dell’obiettivo a fuoco variabile. Nella mia percezione del cinema, invece, costituiva un tassello da riutilizzare in seguito. Non ricordo se, girandola, sapevo già dove avrei impiegato quel pezzo…
In effetti è un buon esempio del metodo che ho applicato o piuttosto… dell’assenza di metodo. In sostanza la figura di Leszczyc, il protagonista che avrei impersonato, era già apparsa in diverse situazioni. Fu poi possibile riunire tutti quei pezzi nel montaggio.
Anche la scenografia, con quegli ammassi di rottami, faceva un certo effetto. Queste cose allora nel cinema non si vedevano. Per quel periodo era piuttosto innovativo. Io, perlomeno, non ricordo di aver visto qualcosa del genere.

Seguì una strategia precisa nella realizzazione del film o tutto veniva fatto durante le riprese?
Durante le riprese. Poi cominciai a mettere insieme i pezzi… Il primo frammento con attori e dialoghi fu la scena del caffè, quando Leszczyc incontra Mundek e il suo amico. Si parla della professione di Mundek, del fatto che fotografa belle donne e, nello stesso tempo, le adesca per potenziali clienti. Fa grossi ingrandimenti delle fotografie. Mostra il ritratto di una certa Janczewska. Questo era uno spunto che sapevo di poter sviluppare anche se, mentre giravo quella precisa scena, non sapevo ancora che cosa ne avrei fatto.
Avevo, insomma, gettato la rete, sperando in una buona pesca futura. Avevo una discreta scelta: continuare il motivo di Mundek, far andare da qualche parte il suo compare, potevo dedicarmi a Leszczyc. Insomma, si poteva sviluppare in una direzione o in quella opposta.

Rysopis colpì allora per il suo realismo, per la verità sprigionata dallo schermo. Fu tra i primi a richiamarsi alla quotidianità incolore, la quotidianità orfana dei meriti bellici. Ho l’impressione che, a generare questa visione della realtà, abbia contribuito notevolmente proprio quel suo metodo o… non-metodo.
La scena al caffè di cui dicevo era un novum rispetto ai metodi scolastici. Doveva essere un’esercitazione sull’uso delle scenografie. Per prima cosa si dovevano ideare e montare da soli, con l’ausilio di due tecnici; l’operatore doveva illuminarle ecc. Decisi che non avrei montato degli scenari in studio. Li piazzai all’aperto, a ridosso della scuola, all’angolo di Targowa e Glówna. Le finestre di quel mio caffè si aprivano sull’apoteosi del traffico automobilistico e tranviario. Chiaramente volevo nascondere che si trattava di uno scenario. Il mio ragionamento fu: più vetri ci sono, più verità ricavo attraverso la finestra, meno si vedrà la rudimentale scenografia. Tanto vetro, poco intonaco. E andò in porto. Presentai la prova al terzo anno ed ebbi un voto alto.

Il soggetto del film – lo stesso titolo lo suggerisce – consiste nel ritratto di una generazione. Di individui ventenni o poco più all’inizio degli anni ’60.
Mi infastidiva che il nostro cinema voltasse le spalle al quotidiano. Allora c’erano soprattutto film di guerra, una serie interminabile sulla lotta partigiana. Poi film in costume e commedie. Non esisteva, invece, il cinema di attualità, come se la vita di allora non proponesse argomenti degni di essere filmati. Ricordo film di pseudoattualità, come Uczta Baltazara [La festa di Baltazar] o Cieri [L’ombra], ambientati magari qualche anno prima, mentre a nessuno era venuto in mente di girare quello che c’era allora, nel 1964.

Eccetto, magari, Il coltello nell’acqua.
Il coltello nell’acqua era effettivamente un film di attualità. Così come Ingenui perversi. Entrambi fanno parte in un certo senso della mia opera. Forse era profondamente connaturato in me l’interesse per la contemporaneità, per ciò che succedeva in quel momento intorno a me. (…)
“Segni particolari”, intervista a Jerzy Skolimowski di Jerzy Uszynski, in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996. Critica (3):Rysopis comincia nel momento in cui Andrzej Leszczyc si presenta alla commissione di leva dove viene sancita la necessità che egli presti il servizio militare, mettendo quindi fine a un capitolo della sua esistenza. Ha studiato ittiologia all’università, ma gli è mancata la pazienza per scrivere la tesi di laurea. Ha ottenuto molti rinvii, ma ora non cerca più scuse per scantonare. Si rende conto che la sua vita, finora, è stata un rosario di opportunità perdute, di occasioni mancate e che il risultato di quegli anni è infimo. Sono scivolati via come sabbia in mezzo alle dita. Il colloquio tra Leszczyc e il maggiore, il capo della commissione di leva, riflette perfettamente lo stato di cose. (…)
Per Leszczyc, la partenza per il servizio militare segna la fine del gioco. È un fatto ineluttabile e reale al cento per cento. Tutto quanto era stato prima aveva fatto parte del mondo dell’infanzia, una dimensione protrattasi oltre misura, un’immaturità coltivata. I sotterfugi, i rinvii, le scuse, le finte erano serviti tutti a un’unica causa: preservare un frammento almeno di indipendenza e di libertà. Indipendenza e libertà non basate, tuttavia, sulla consapevolezza dell’inevitabile, ma anzi sulla possibilità di procrastinare il più possibile questa presa di coscienza.
Un motivo che, nell’opera dell’autore di Rysopis, ricorre altre volte. Jerzy Skolimowski è, oltre che regista, poeta, coautore di sceneggiature, attore. Nel suo ancor breve curriculum artistico i film suoi seguono alla poesia, alle sceneggiature e anche a una piccola parte. Tralasciamo la prima, che esula dall’ambito delle nostre riflessioni. Ma se riprendiamo le due sceneggiature scritte a quattro mani con Jerzy Andrzejewski, – Niewinni czarodzieje (Ingenui perversi) – e con Roman Polanski – Il coltello nell’acqua (Nóz w wodzie) – ci accorgiamo che la loro tematica è simile. In entrambe lo scontro tra un giovane protagonista e la vita, la contemporaneità. Entrambi i protagonisti mettono a punto un proprio credo esistenziale. Non appartengono allo stesso insieme generazionale. Bazyli di Ingenui perversi è laureato in medicina, fa tirocinio come medico sportivo. Il Ragazzo, protagonista di Il coltello nell’acqua, è di qualche anno più giovane, non ha ancora iniziato una vita indipendente. Il suo antagonista, nel film di Polanski, è un abbiente giornalista sportivo che, nella vita, è in qualche modo arrivato: un’automobile, una barca, una moglie intellettuale. Il Ragazzo non ha ancora niente e decide di atteggiarsi a «ribelle», uno che non tiene alle piccolezze materiali. Ma è un atteggiamento sincero? (…)
Leszczyc, il protagonista di Rysopis non si piega facilmente al nostro criterio di giudizio morale, sociale o «generazionale». In fondo che cosa sappiamo di lui? L’università interrotta, il servizio militare rinviato, lavoretti saltuari, un matrimonio poco riuscito, «non andato per il verso giu-
sto». «Dovevo rimettere ordine nelle mie cose» dice Andrzej Leszczyc al capo della commissione di leva. Una battuta che potrebbe essere il suo motto. Avrebbe dovuto riordinare le sue cose, ma così non è stato. Fino alla sua partenza per il militare, nella sua vita è stato tutto provvisorio, aleatorio, effimero.
Corrisponde proprio alla «linea del destino» capricciosa, spezzettata del protagonista l’impianto drammaturgico del film, molto disunito ed eterogeneo. Il film inizia di primo mattino – Leszczyc si appresta a partire per la commissione di leva – e si conclude il pomeriggio dello stesso giorno alla stazione. Il protagonista salta all’ultimo momento sul treno che lo porterà al distretto militare. Fra questi due punti di demarcazione, Skolimowski ha collocato a piacere una serie di situazioni, una quantità di fatti che non necessariamente sarebbero dovuti accadere e nessuno dei quali, eccetto il responso della commissione e la partenza, muta in modo ineluttabile il destino del protagonista.
Come trascorre Andrzej Leszczyc il suo ultimo giorno di libertà da «borghese»? Sbrigando – si potrebbe pensare – cose importanti in vista dei due anni di assenza. Ma le sue «cose importanti» formano una sequenza piuttosto singolare. Prima porta dal veterinario il cagnolino con sospetta idrofobia e si scopre che la bestiola va soppressa. Poi lo vediamo chiacchierare con degli amici in un caffè. Uno di questi gli passa l’indirizzo di una certa Janczewska, «preda» facile a detta sua, una a cui «piacciono i giovani». Nella presidenza di facoltà, dove Leszczyc va a ritirare il libretto universitario, incontra una Ragazza che è la copia perfetta di sua moglie (e, del resto, la interpreta la stessa attrice, Elzbieta Czyzewska). Poi passeggia fino alla vicina segheria, dove ha lavorato ai tempi dell’università.
Il colloquio con la Ragazza, la sosia della moglie, ci dimostra che i fatti di quest’ultima giornata hanno, in realtà, una valenza doppia. Da una parte, come in ogni opera cinematografica, servono alla progressione drammatica, spingono avanti l’azione, ma nello stesso tempo scandiscono le fasi del processo interiore del protagonista alla ricerca di se stesso o, più precisamente, della conoscenza del proprio io. (…)
Konrad Eberhardt, “L’uomo con la valigia”, in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996.

http://www.municipio.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloOriginaleRB/4915D1507D94C356C1257A9600367006?opendocument

“Nóż w wodzie”/”The Knife in The Water” –

 

Walkower/Walkover (1965 Poland 77 mins)

Prod Co: Zespol Filmowy Syrena Dir, Scr: Jerzy Skolimowski Phot: Antoni Nurzynski Ed: Alina Faflik Art Dir: Zdzislaw Kielanowski Mus: Andrzej Trzaskowski

Cast: Aleksandra Zawieruszanka, Jerzy Skolimowski, Krzysztof Hamiec, Elzbieta Czyzewska, Tadeusz Kondrat, Andrzej Herder

Jerzy Skolimowski was part of a group of young filmmakers who emerged during the period of “small stabilisation” in Poland, an era of tightened political control and censorship, conformity, and petty bureaucracy, which lasted throughout the 1960s (1). Like his contemporary, Roman Polanski, Skolimowski largely abandoned the obsessive focus on national history and heroism conducted by the “Polish School” of filmmaking, in favour of ironic reflections on the moral dilemmas of everyday life. While the exceptional protagonists featured in the “Polish School” films were shaped by their experiences of the war, it was the conformist “stability”, characterised by “the fear that everything has already been thought of and done […] of melting into the masses”, which is essential to understanding the psychology of Skolimowski’s characters (2).

Skolimowski’s second feature, Walkower/Walkover, in many ways follows on from his diploma film, Rysopis/Identification Marks: None (1964), in which engineering student Andrzej Leszczyc (Jerzy Skolimowski) is preparing to begin military service. In Walkover, Andrzej has left the army, and appears to drift around the country participating in boxing fights. In an industrial town, he runs into Teresa (Aleksandra Zawieruszanka), a government engineer, who has arrived to implement a new project at a factory. Andrzej wins in a local boxing match, but decides to leave with Teresa instead of facing a much stronger opponent the next day. In a stunning long take shot from a moving train, Andrzej’s previous opponent follows him on a motorbike and goads him for his cowardice in forfeiting the fight. Andrzej subsequently jumps from the train and returns to the ring. His opponent, however, fails to turn up, and Andrzej wins in a “walkover”.

As Mazierska has pointed out, the “autobiographical effect” of Walkover is particularly striking. Skolimowski, a boxer and poet as well as a filmmaker, plays Andrzej, and his poetry is recited in voiceover in several scenes (3). The film was part of a movement towards a more personal cinema which focused on the individual rather than society; the film’s narrative concomitantly replaces dramatic incidents linked through cause and effect with a structure of loosely joined episodes following Andrzej’s movements over two days, with the camera almost never leaving him outside the frame except to show what he sees (4). The opening of the film is a good example of this refusal to engage in conventional plot development. The film’s first image is a close-up of a woman’s face which disappears from the screen when she jumps under the train that Andrzej and Teresa are on (5). Rather than moving towards this possible epicentre of a dramatic narrative, however, the camera remains with Andrzej as he talks to Teresa, while people file past them towards the scene of the suicide. The “masses”, and the unexplored dramatic possibility, are literally bypassed by Andrzej and Teresa as they press through the crowd.

Unlike Teresa, Andrzej is, as Haltof has suggested, an outsider and non-conformist who continually avoids joining into mainstream life (6). By desiring to present a protagonist as an individual speaking only for himself rather than being a product of social forces, however, Skolimowski paradoxically “captured the attitude of a whole generation [which…] did not experience any event important enough to furnish them with any distinct collective identity(7). Andrzej’s characterisation provided Skolimowski with an opportunity to direct a critique against post-Stalinist conformity (8). This is made most explicit in the poems, which reflect the reduction of life to bureaucratic measures and the disillusion and helplessness of contemporary conditions:

I don’t know what I am here for. After so many years or after something like youth or love […] with my hand on my neck, I want to fix everything […] but only fix my tie.
And when it is too late for everything, it is still not too late for insuring your life at the State Insurance Company.

The poetry is recited over close-ups of Andrzej’s face looking straight into the camera, as though the voice expresses, from a non-diegetic time and space, something that it is impossible to verbalise in Andrzej’s current environment, due not necessarily to censorship, but to the moral crippling of society. It is significant, in this respect, that the woman’s suicide is set against Andrzej and Teresa’s banal conversation about employment and “very important” positions, as though linking the impossibility of her continuing her life with these stultifying conditions of the regime.

In this sterile atmosphere, the film seems to suggest, it is important not to give up and be “walked over”. Both Andrzej and Teresa encounter much more powerful rivals that they must attempt to overcome. When speaking to Teresa about her project, the Director of the factory uses terminology suggestive of one of Andrzej’s fights: the other team “is placing forward their strongest competitor”; the Director will provide the “playing field” but “it’s going to be a big match fighting the project office”. Indeed, Teresa loses her battle and gives up, prompting Andrzej to reveal part of his motivation in his investment in boxing: when you have no plans, no projects, he says in a recording, you may as well fight for anything at all, as hard as possible.

Despite Andrzej’s return to the fight, the film’s ending is highly ambivalent. Haltof argues that Andrzej’s decision not to give up on the boxing match “signals that he wants to embrace a mature life, which requires fight and commitment” (9). For Ford and Hammond, this constitutes “a magnificent lesson of courage and endurance” (10). Above all, however, it is a return to a repetitive and fruitless cycle of fighting and winning watches and radios to be sold in the next town. He neither succumbs to a “walkover” nor to the conformity that marrying Teresa might suggest, but remains in a state of suspension. As Eberhardt has argued, this state often characterises the heroes of Skolimowski’s films, who are people “with a suitcase in their hands”, going somewhere or coming back from somewhere, extracted from the “normally functioning order of the day”, without yet submitting to the “regulations of the journey” (11).

This liminal state is also reflected in the way much of the action is played-out in what Hodsdon has called “simulated performance spaces”, such as the boxing ring and the factory floor where Teresa argues her case, watched through a window by Andrzej (12). In such spaces, the encounters between people seem less “authentic” and meaningful than non-efficacious rituals. The end of the film demonstrates this more clearly. Despite not entering the ring, Andrzej’s opponent is waiting for him outside of the factory. When he accuses Andrzej of being scared of fighting him, Andrzej “fights back” and hits him, getting a blow to the head in return that sends him stumbling to the ground. In the final panning of the camera to a blank white surface, three horizontal bars of a fence precisely echo the ropes of the boxing ring, embedding the characters once again in a simulated performative space, as though this final act of “fighting back” has as much meaning as if it had taken place within an artificially engineered competition.

Such rich visual associations that recur throughout the film arise, according to Skolimowski, from his poetry. “My mind”, he stated, “is trained along the path of poetic associations – I’m not afraid to wander away from direct narrative” (13). Much of the film carries thematic resonances concerned with the realities of industrial and political expansion without pressing them into the service of the narrative: an old man who wanders the factory grounds with a goat; the large cross which a man is seen momentarily scaling with his back to the spectators, like a backwards crucifixion, before being dismantled by a crane; the “miracle” of making a chicken lie still by placing a stick on its neck, echoing the act of succumbing to conformity expressed in the poem cited above.

While The New York Times critic Bosley Crowther criticised Walkover as “distractingly random and incoherent” (14), Michel Ciment, more sympathetic to Skolimowski’s love of jazz, argues that his films are made “in a manner very much like a jazz musician – all rhythm and improvisation” (15). The film’s use of cinematographic disjunctions, which are traditionally seen to encourage a critical awareness rather than a facile consumption of a narrative, is reminiscent of much European New Wave cinema. The crossing of the 180 degree line, the confusion between diegetic and non-diegetic sound created through Andrzej’s radio, and the setting of characters against abstract surfaces, is reminiscent of Godard, although Skolimowski has claimed that he had not seen any Godard films at the time of making his two first features. The long shots used to show Andrzej and Teresa, emphasising their disconnection from each other and alienation in industrial outskirts, recall Antonioni. According to Skolimowski, to see the film is to “open one’s eyes wider” to, presumably, not only the moral problems of contemporary Polish society, but also to the possibilities created through cinematic form for a filmmaker willing to “fight back” against artistic conformity (16).

Endnotes

  1. The term “Third Polish Cinema” was coined by critics at the time to differentiate this generation of filmmakers. As Marek Haltof has pointed out, however, the term has little explanatory value, attempting as it does to cover diverse themes and styles of filmmaking. Haltof, Polish National Cinema, Berghahn Books, New York, 2002, p. 125.
  2. Konrad Eberhardt quoted in the booklet for the DVD box-set Jerzy Skolimowski, Wydawnictwo Telewizja Kino Polska, Warszawa, 2008, p. 6.
  3. Ewa Mazierska, “From Participant to Observer: Autobiographic Discourse in the Films of Jerzy Skolimowski”, Kinema Fall 2008, p. 46.
  4. Mazierska, p. 46.
  5. The woman is played by Elzbieta Czyzewska, who played Andrzej’s partner in Identification Marks: None, and who was Skolimowski’s partner in real life. By the time of Walkover, their relationship was breaking up, and her character is only briefly present at the beginning before immediately committing suicide.
  6. Haltof, p. 126.
  7. Mazierska, p. 46.
  8. Haltof, p. 126.
  9. Haltof, p. 126.
  10. Charles Ford and Robert Hammond, Polish Film: A Twentieth Century History, McFarland, Jefferson, 2005, p. 144.
  11. Eberhardt, p. 5.
  12. Bruce Hodsdon, “Jerzy Skolimowski”, Great Directors Database: Senses of Cinema no. 27, July-August 2003.
  13. Skolimowski quoted by Hodsdon.
  14. Crowther quoted by Ford and Hammond, p. 145.
  15. Michel Ciment, “Jerzy Skolimowski”, Film Reference.
  16. Cited by Hodsdon.

http://sensesofcinema.com/2009/cteq/walkover/

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