Vincenzo Peruggia che rubò la Gioconda – NAPOLEONE LO SCIPPO D’ ITALIA; rude von Molo & Willi Forst, 1931. “Warum lächelst Du Mona Lisa?”

Biografia

Era originario di Trezzino, frazione di Dumenza, un paese del nord della provincia di Varese, vicino al confine con la Svizzera. Il padre Giacomo era muratore mentre la madre Celeste si occupava dei lavori domestici e dei cinque figli: quattro maschi e una femmina. Appreso in giovane età il mestiere di imbianchino e verniciatore, seguì per lavoro il padre a Lione nel 1897. Essendo di costituzione gracile nel 1901 venne riformato dal servizio di leva e nel 1907 si trasferì in cerca di lavoro a Parigi, percorso già compiuto da altri emigranti italiani. Qui si ammalò di saturnismo, malattia dovuta all’intossicazione da piombo, metallo contenuto nelle vernici utilizzate dagli imbianchini. Vista la lontananza dall’Italia egli tenne contatti epistolari con la famiglia alla quale inviava saltuariamente modiche somme di denaro. Assunto dalla ditta del signor Gobier, venne mandato con altri operai al Museo del Louvre con il compito di pulire quadri e ricoprirli con cristalli e compì il suo furto la mattina del 21 agosto 1911. Il 5 giugno del 1914 venne processato dal Tribunale di Firenze, fu riconosciuto colpevole con le attenuanti e condannato a un anno e quindici giorni di prigione per furto aggravato. Questa pena fu ridotta in appello il 29 luglio a 7 mesi e 8 giorni di reclusione. Scarcerato, Peruggia partecipò alla Prima guerra mondiale e, dopo Caporetto, finì in un campo di prigionia austriaco. Terminata la guerra, il 26 ottobre del 1921 si sposò con Annunciata di quindici anni più giovane. Tornò in Francia utilizzando un espediente: sui documenti per l’espatrio sostituì Vincenzo con Pietro, suo secondo nome. Si stabilì a Saint-Maur-des-Fossés, periferia di Parigi dove nel 1924 nacque la sua unica figlia, Celestina, che ricordava come in paese da piccola la chiamassero “Giocondina”, deceduta nel marzo 2011. Vincenzo Peruggia morì l’8 ottobre del 1925 a Saint-Maur-des-Fossés a causa di un infarto.[1]

Il furto della Gioconda

Il furto avvenne verso le sette del mattino di lunedì 21 agosto 1911, giorno di chiusura del Louvre. Peruggia entrò nel museo attraverso la porta Jean Goujon usata di frequente dagli operai e si diresse al Salon Carré senza che alcuna persona si accorgesse della sua presenza. Dopo aver staccato il quadro dalla parete, si diresse verso la scaletta della Sala dei Sept Maitre liberandosi della cornice e del vetro. Giunto in un cortile interno poco frequentato si servì della giacca che indossava per avvolgere il quadro. Uscito dal museo senza essere fermato, salì sul primo autobus, ma si accorse di aver sbagliato direzione e così scese e si fece riportare a casa da una vettura, precisamente in rue de l’Hopital Saint Louis dove nascose la Gioconda. Dovendo tornare al lavoro per giustificare il ritardo disse di essersi ubriacato il giorno precedente e di soffrirne ancora le conseguenze. Poiché la stanza nella quale viveva era molto umida, temendo che l’opera potesse danneggiarsi, Vincenzo la affidò al compatriota Vincenzo Lancellotti, che abitava nello stesso stabile. Trascorso un mese, dopo aver realizzato una cassa in legno nella quale custodire il dipinto, lo riprese e lo tenne con sé.

La scoperta del furto

La mattina di martedì 22 agosto 1911 due artisti, Louis Beroud e Frederic Languillerme si diressero al Louvre per imparare dai grandi maestri. Giunti nel salone Carré si accorsero della scomparsa della Gioconda di Leonardo Da Vinci, informandone il capo della sicurezza Monsieur Poupardin. In poco tempo nella sala si riunirono il direttore del museo Monsieur Homolle, il sottosegretario di Stato alle Belle Arti, il capo della polizia e il prefetto di Parigi, Louis Lepiche.

Le indagini

Appurato il furto vennero bloccate le uscite, perquisiti i visitatori e si perlustrò l’intero museo. Si ritrovarono la cornice e il vetro della Monna Lisa sulla scaletta della sala dei Sept Maitre e alla fine della rampa si scoprì che la porta a vetri era stata forzata ed era priva di pomello. Essendo quell’ uscita frequentata dagli operai la gendarmeria pensò che il ladro si fosse mescolato a loro o fosse egli stesso un lavoratore. Tutto il personale stabile venne interrogato. Nel frattempo fu lanciato un appello ai cittadini di Parigi, a chiunque avesse notato una persona sospetta in quei giorni nei pressi del Louvre. All’appello rispose un impiegato che riferì di aver notato un uomo che si allontanava dal Louvre il lunedì mattina e che gettava un oggetto in un fossato vicino alla strada; lì fu ritrovato il pomello mancante. Mentre fervevano le indagini gli ‘Amici del Louvre’ annunciarono una ricompensa di venticinquemila franchi per chi avesse dato informazioni valide. Intanto, il posto lasciato vuoto dalla Gioconda sulla parete del Louvre fu preso momentaneamente da un dipinto di Raffaello, il Ritratto di Baldassarre Castiglione. Furono erroneamente arrestati, come possibili complici, anche due giovani che sarebbero diventati famosi nei campi della scrittura e dell’arte: Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso che dimostrarono la loro estraneità ai fatti. Dopo aver escluso dalla responsabilità del furto il personale stabile del museo, la gendarmeria si concentrò su muratori, decoratori, personale assunto per breve periodo o per uno specifico incarico, tutte persone i cui dati erano riportati sul registro delle commesse. Peruggia venne interrogato e la sua modesta stanza fu sottoposta ad un’ispezione che ebbe esito negativo poiché la Gioconda era nascosta in un apposito spazio ricavato sotto l’unico tavolo.

Il ritrovamento

Nell’autunno del 1913 il collezionista d’arte fiorentino Alfredo Geri decise di organizzare una mostra nella sua galleria chiedendo ai privati, tramite un annuncio sui giornali, di prestargli alcune opere. Egli ricevette da Parigi una lettera nella quale veniva proposta la vendita della Gioconda a patto che il capolavoro tornasse in Italia e fosse lì custodito. La lettera inviata da Vincenzo Peruggia era firmata dal fittizio Monsier Léonard V. Consigliatosi con Giovanni Poggi, direttore della Regia Galleria di Firenze, Geri fissò un incontro con Monsieur Léonard l’11 dicembre 1913 in un albergo di Firenze. Si presentò con il direttore della galleria che dopo aver visto il quadro lo prese in custodia per esaminarlo. Vincenzo Peruggia fu arrestato il giorno seguente dai carabinieri che lo prelevarono dalla stanza di albergo.

Motivazioni

Alcuni hanno cercato di indagare le vere ragioni che portarono l’uomo a rubare il dipinto, ipotizzando anche un furto su commissione di un truffatore argentino, il marchese di Valfierno, che ne avrebbe volute vendere sei copie agli americani. In realtà Peruggia affermò sempre di aver compiuto il furto per patriottismo in quanto la visione su un opuscolo del Louvre di quadri italiani portati in Francia da Napoleone I provocò in lui un senso di vendetta: voleva restituire all’Italia almeno uno di quei dipinti, non importava quale. Inizialmente aveva pensato alla Bella Giardiniera, ma le dimensione esagerate del quadro lo avevano dissuaso. Ironia della sorte la Gioconda non fa parte del bottino napoleonico, infatti fu probabilmente portata in Francia dallo stesso Leonardo e comunque ne è attestata la presenza fra le collezioni reali già dal 1625.

La mite condanna

Il processo si svolse il 4 e 5 giugno 1913 presso il Tribunale di Firenze, di fronte alla stampa internazionale e ad un pubblico generalmente favorevole a Peruggia per un malinterpretato amor di patria. La pressione popolare e l’invocazione dell’infermità mentale (confermata dall’indovinello postogli dal medico psichiatra del tribunale professor Paolo Amaldi, che assunse l’incarico il 24 maggio del 1914: -Su un albero ci sono due uccelli. Se un cacciatore spara ad uno di essi, quanti ne rimangono sull’albero?- -Uno!- rispose Peruggia. -Deficiente!- tuonò il medico. Infatti la risposta alla domanda era zero, (perché l’altro sarebbe scappato) sortirono, comunque, l’effetto di indurre la corte a concedergli le attenuanti ed a comminargli una pena assai mite: un anno e quindici giorni di prigione.

Il 29 luglio la pena fu ridotta a 7 mesi e 8 giorni, ma appena fu emessa la sentenza, Peruggia fu scarcerato

Il ritorno del dipinto in Francia

L’atteggiamento delle autorità italiane venne apprezzato in Francia. I due paesi, d’altra parte, coltivavano da circa dieci anni rapporti sempre più amichevoli. Si poté così evitare che Parigi chiedesse una pena esemplare e concordare un lungo periodo di esposizione del dipinto (prima agli Uffizi a Firenze, poi all’ambasciata di Francia di Palazzo Farnese a Roma, infine alla Galleria Borghese, in occasione del Natale), prima del suo definitivo rientro.

La Monna Lisa arrivò in Francia a Modane, su un vagone speciale delle Ferrovie italiane, accolta in pompa magna dalle autorità francesi, per poi giungere a Parigi dove, nel Salon Carré, l’attendevano il Presidente della Repubblica francese e tutto il Governo.

Lui morì povero

http://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Peruggia

NAPOLEONE LO SCIPPO D’ ITALIA

La campagna si concluse con una sfilata a Parigi delle opere rubate . Secondo Furet ” la razzia non fu una bella pagina ” ma la Francia cosi’ esportava la Rivoluzione. Fu deciso allora che i capolavori stranieri sarebbero stati ospitati al Louvre

————————- PUBBLICATO —————————— 1796 Due secoli fa le vittorie riportate nel nostro Paese facevano di Bonaparte il piu’ grande generale della storia. E uno dei maggiori saccheggiatori TITOLO: LO SCIPPO D’ ITALIA La campagna si concluse con una sfilata a Parigi delle opere rubate Secondo Furet “la razzia non fu una bella pagina” ma la Francia cosi’ esportava la Rivoluzione Fu deciso allora che i capolavori stranieri sarebbero stati ospitati al Louvre – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – Nella galassia del ritorno ai piaceri che accompagno’ la restaurazione, il 27 e 28 luglio 1798, per l’ anniversario del 9 Termidoro (27 luglio 1797) che aveva posto fine alla Rivoluzione con l’ arresto di Robespierre, il Direttorio indisse a Parigi una festa di tripudio, restata storica e irripetibile. La campagna d’ Italia del 1796, esattamente due secoli or sono, aveva fatto di Napoleone Bonaparte uno dei migliori geni militari della storia. Per celebrare le vittorie del generale in Italia, i parigini assistettero alla sfilata piu’ sbalorditiva di cui si abbia memoria. Come trofei di guerra non sfilavano gli eserciti battuti dell’ Austria, o i soldati delle potenze sconfitte, i vinti in catene, ne’ i cannoni e i mortai conquistati al nemico bensi’ opere d’ arte sublimi, frutto della razzia, che con una campagna militare fulminea e geniale Napoleone riportava in Francia, a risarcimento del salasso della guerra, secondo l’ ordine impartitogli dal Direttorio. In quel caldissimo luglio, una folla tanto attonita quanto sterminata, si era ritrovata nelle strade per ammirare capolavori in marcia. Il corteo partiva dal quartiere di Austerlitz, a est di Parigi, e avanzava per chilometri, sboccando sul Campo di Marte, il luogo consacrato delle feste rivoluzionarie. Duro’ due giorni, il 27 e il 28, di quel torrido luglio. Alla sua testa avanzavano su grandi carriaggi le due enormi statue del Nilo e del Tevere, rubate al Vaticano, seguite dai quattro cavalli di bronzo di San Marco, non imballati, cosicche’ quei superbi destrieri sembravano come impennarsi sulla folla, trainati com’ erano da alte piattaforme con rulli girevoli e ruote. Seguivano altri trofei. La “Trasfigurazione” di Raffaello, la “Madonna della vittoria” di Andrea Mantegna, la “Crocefissione di S. Pietro” di Guido Reni, “Le nozze di Cana” del Veronese, e le antiche statue greche e romane provenienti da Napoli e da Pompei. Cito perche’ il lettore comprenda meglio la vastita’ e il significato delle splendide prede un testimone insospettabile, il generale Etienne Championnet, l’ eroico e generoso amico dell’ Italia e soprattutto di Napoli, come lo descrisse anche Benedetto Croce. Ho ritrovato nei “Souvenirs” del generale (Flammarion, Parigi, 1904) una pressoche’ sconosciuta lettera sua al ministro dell’ Interno del Direttorio, inviata da Napoli, il 7 Ventoso anno 7 (25 febbraio 1799) in cui e’ scritto: “Vi annuncio con piacere che abbiamo trovato ricchezze che credevamo perdute. Oltre ai Gessi di Ercolano che sono a Portici, vi sono due statue equestri di Nonius, padre e figlio, in marmo; la Venere callipigia non andra’ sola a Parigi, perche’ abbiamo trovato nella Manifattura di porcellane, la superba Agrippina che attende la morte; le statue in marmo a grandezza naturale di Caligola, di Marco Aurelio, e un bel Mercurio in bronzo e busti antichi del marmo del piu’ gran pregio, tra cui quello d’ Omero. Il convoglio partira’ tra pochi giorni”. Il punto di raccordo delle grandi razzie era allora Livorno, da dove esse prendevano la strada di Marsiglia. Qui le chiatte, attraverso la navigazione fluviale, risalivano il Rodano, la Saone, e con il sistema dei canali fluviali giungevano fino alla Senna e quindi a Parigi, che sembrava un gran naviglio ancorato li’ per accoglierle. Trafugati dal Vaticano, allo stesso modo erano arrivati a Parigi il Laocoonte, l’ Apollo del Belvedere, e poi la Venere dei Medici. Non solo per il Direttorio, ma per gli stessi onesti intellettuali giacobini, per i popolani, c’ era la convinzione che la Francia era l’ unico paese capace di garantire l’ inviolabilita’ delle grandi opere, perche’ il mondo potesse conoscerle nei secoli futuri. La filosofia del Direttorio era che la Repubblica, nata dalla Rivoluzione, per la sua forza e la superiorita’ dei Lumi, era il solo paese al mondo capace di dare asilo inviolabile ai capolavori della terra. Il furto, il saccheggio venivano definiti con un curioso termine: “estrazione”. D’ altronde, dopo l’ “estrazione”, che metteva l’ arte al sicuro estraendola da luoghi insicuri, motteggiavano crudeli quelli del Direttorio a Parigi, i bravi monaci che nel refettorio di San Giorgio consumavano il loro pasto sotto le “Nozze di Cana” del Veronese non si sarebbero forse nemmeno accorti che lo splendido dipinto era stato rimpiazzato da una crosta e non avrebbero certo mangiato con meno gusto. Ne’ i veneziani, che passeggiavano per piazza San Marco, avrebbero fatto la camminata con meno lena e ardore di prima, anche se lassu’ , sulla Basilica, erano scomparsi i cavalli (d’ altronde non erano stati gia’ loro una preda di guerra rubata ai turchi di Costantinopoli dalla Serenissima?). E quei cavalli chiunque e non soltanto i veneziani avrebbero potuto vederli in futuro sormontare a Parigi il Carrousel, o l’ Arco di Trionfo. Lo storico Franois Furet con cui vado parlando di tutto cio’ , mi conferma la tesi secondo la quale appropriandosi dei tesori culturali italiani, la Francia si sente ancora di piu’ il paese che rappresenta l’ Universale. “Lo sciovinismo universalista dei francesi . egli dice . e’ del tutto straordinario. E’ al tempo stesso un nazionalismo beninteso, ma che opera in nome dell’ Universale. D’ altra parte, costituisce una sorta di correttivo che impedisce ai francesi di sprofondare in uno sciovinismo alla tedesca, in nome dell’ unita’ della nazione. “C’ e’ il saccheggio d’ Italia . riconosce Furet senza reticenze . e non e’ certo tra le belle pagine di Napoleone. Ma e’ un’ abitudine dell’ epoca, perche’ gli eserciti costano carissimi; le truppe erano mal pagate, talora vestite di stracci, e si nutrivano sulla pelle del paese. Le guerre si autofinanziavano. Il Direttorio aveva un bisogno folle di denaro, praticamente aveva l’ acqua alla gola. I cittadini francesi non pagavano piu’ le tasse dal 1789, anno della Rivoluzione. L’ Italia di quell’ epoca, d’ altronde, molto piu’ di oggi, era non soltanto un paese di ricchezza prodigiosa ma molto alla moda: e’ l’ epoca del neoclassico, e l’ Italia e’ piu’ che mai riconosciuta madre delle arti. Ma Bonaparte si serve del saccheggio anche per arricchire i suoi partigiani e la famiglia”. L’ immensa sfilata, l’ abbacinante fulgore che aveva attraversato Parigi, si chiuse con un festino nel Louvre dove Napoleone, circondato da belle donne, dall’ adorata Josephine, appena sposata, e dal Direttorio, decise che il Louvre avrebbe dovuto ospitare “i monumenti delle scienze e delle arti”. Secondo il mecenate della fastosa cena al Louvre, Vivant Denon, i capolavori stranieri stavano meglio li’ che altrove, come, ad esempio, l’ “Apollo del Belvedere”, perche’ “lo si puo’ vedere qui . egli diceva . da tutti i lati”. Napoleone si trovo’ cosi’ al centro di una nuova filosofia definita del “pensiero in figura” o della “bellezza incarnata”, spirito e pensiero fissati nel marmo e nelle tele. In fondo, come nessuno ai tempi moderni, egli seppe alzare il vessillo della cultura italiana per farne il centro dell’ Universale. Modesta riflessione per quelli che parlano tanto in questi giorni di un nuovo ministero della Cultura. Il Louvre . di cui Vivant Denon sara’ nominato direttore generale con tutti i musei di Francia da Napoleone I Console, nel 1802 . venne lasciato aperto alla folla dei visitatori. Il sabato e la domenica la gente affluiva da ogni parte dei sobborghi di Francia, e l’ ingresso era gratuito. Intanto, grazie a Napoleone, l’ Italia si liberava dal feudalesimo e dall’ Ancien Regime, dagli austriaci, dai Borboni e dal potere vaticano. Due volti e due anime. La razzi’ a e la liberazione. La liberazione e’ l’ altra faccia dell’ epoca napoleonica. Senza Bonaparte non vi sarebbero state le repubbliche giacobine, come scrive Jean Tulard, il maggiore storico francese contemporaneo. Napoleone diventa per i patrioti sfuggiti alle tirannidi e riparati in Francia il primo liberatore, come attestano le lettere che ho letto alla Biblioteca Richelieu di Parigi, colme della riconoscenza e dell’ amore per il Corso, degli esuli di tutta Italia. D’ altronde, con accenti quasi mistici, Napoleone incitava i suoi soldati l’ era napoleonica e’ un tempo dove la retorica supera spesso il contenuto a questo modo: “L’ Europa ha gli occhi fissi su di voi… La felicita’ degli uomini e’ la vostra stessa gloria”. Scrive Stendhal cominciando la “Certosa di Parma”: “Il generale entro’ a Milano alla testa del suo giovane esercito, il 14 maggio 1796. I miracoli di bravura e di genio di cui l’ Italia fu testimone in qualche mese risveglieranno un popolo addormentato”. Anche se Stendhal sembra qui propendere per la tesi che era stata di Cuoco sulla “rivoluzione passiva”, non e’ vero che i patrioti italiani sonnecchiassero. Il genio filosofico italiano, e soprattutto quello di Filangieri, detto il Montesquieu italiano, erano gia’ noti in Francia prima della Rivoluzione, dove l’ opera di Filangieri era stata tutta tradotta, cosi’ come nelle colonie americane, per cui Filangieri era diventato il testo di riferimento nella prima rivoluzione dell’ indipendenza dei coloni d’ America contro l’ Inghilterra. Nelle repubbliche giacobine, grazie all’ irruzione di Napoleone, vengono scritte le nuove costituzioni democratiche, viene inventata l’ informazione, nascono i primi giornali locali, gazzette e periodici, e fogli gloriosi come “Il Monitore napoletano” diretto da Eleonora Fonseca Pimentel. S’ inventano le feste rivoluzionarie, gli stessi sacerdoti redigono nuovi catechismi rivoluzionari per l’ eguaglianza. L’ abolizione della proprieta’ feudale viene sancita nei primi tempi della legislazione napoletana del 1799. Cosi’ come a Napoli si dibatte’ per la prima volta della separazione tra Stato e Chiesa grazie alla traduzione del Caravita fatta da Eleonora Pimentel. Nella Repubblica Cisalpina, i codici legislativi ricalcavano il Codice napoleonico, che costituira’ poi la base del corpo di leggi dell’ Italia unita. Cosi’ come i prefetti entreranno nelle prime strutture politico amministrative. La prima Repubblica ad essere proclamata fu quella Cispadana, il 27 dicembre 1796, dopo l’ armistizio firmato da Napoleone con la Santa Sede, per la liberazione dei territori d’ Emilia e Romagna. E li’ venne issata per la prima volta la bandiera tricolore: bianca, rosso e verde. Nel 1978 e’ proclamata in Campidoglio la Repubblica romana; nel gennaio 1799 nasce la Repubblica napoletana: con il nimbo di eroismo che corona le teste dei patrioti massacrati dai Borboni, a Napoli nasce, secondo Benedetto Croce, la nuova democrazia, quella reale dell’ intelletto e dell’ animo che otterra’ infine la vittoria. Il commissario civile del governo francese a Napoli, Andre’ J. Abrial, in un rapporto che sta al Quai d’ Orsay, elenca le iniziative concrete prese in Italia e che riguardano tanto la sistemazione delle strade che l’ assetto dei trasporti che il funzionamento delle poste, e infine l’ istituzione dei prefetti. Anche se Napoleone non aveva alcun interesse all’ Unita’ italiana, e anzi il Direttorio voleva che egli tenesse sotto controllo i giacobini, di cui a Parigi si erano appena liberati, e il cinico Talleyrand era pronto a riallacciare i rapporti diplomatici coi vecchi poteri battuti, malgrado tutto questo Napoleone funzionera’ come un detonatore. Il suo merito storico e’ , insomma, di aver fatto venire alla luce le profonde ragioni ideali e culturali dell’ identita’ italiana, il primo collegamento tra Nord e Sud d’ Italia e i germi dell’ idea di Unita’ italiana (“una e indivisibile” si diceva allora). Ma torniamo alla razzi’ a d’ arte. Quando l’ astro di Napoleone si spense a Waterloo, il 18 giugno 1815, prussiani e inglesi e alleati vincitori cominciarono a sgomberare il Louvre, e a riportarsi a casa le opere d’ arte. A quell’ epoca, il Louvre ospitava ancora, tra l’ altro, l’ “Apollo del Belvedere”, la “Venere dei Medici”, la collezione Borghese. E poi, sempre tra l’ altro, sette Vinci, nove Correggio, quindici Veronese, dieci Tintoretto, venticinque Raffaello, ventiquattro Tiziano. L’ inglese Hamilton, gia’ ambasciatore di Gran Bretagna presso i Borboni di Napoli, che aveva rifornito i musei inglesi depredando Napoli e dintorni a man bassa, se la rideva perche’ l’ Inghilterra era tra i vincitori del predone liberatore corso. Per il Vaticano, difficile a immaginarsi, fu Canova, che aveva immortalato nel marmo la lasciva e stupenda Paolina Borghese, sorella di Napoleone, ad essere nominato delegato dello Stato pontificio, per recuperare il patrimonio artistico. Il 5 ottobre 1815 lo scultore scriveva: “La mia missione e’ giunta a buon fine. Sono stato autorizzato dalle potenze alleate a riportare la massima parte dei nostri capi d’ opera di pittura e scultura”. Ma concludeva che era “costretto a lasciare parecchie opere, ma secondo la mia scelta”. La gioia di Canova era assai mitigata. Con l’ impero, scomparivano anche i superbi artisti dell’ epopea, compreso quel David che aveva immortalato Bonaparte, il fulmine sul cavallo bianco che con un balzo acrobatico varca il Gran San Bernardo. David, geniale artista un po’ fariseo, girando le spalle alla Rivoluzione francese, aveva detto un tempo: “Non avevamo abbastanza virtu’ per essere repubblicani”.

Macciocchi Maria Antonietta

Pagina 25
(6 maggio 1996) – Corriere della Sera

http://archiviostorico.corriere.it/1996/maggio/06/NAPOLEONE_SCIPPO_ITALIA_co_0_9605068719.shtml

 

Collezione Gurlitt: un fulmine a ciel sereno per Berna

arte africana : restituire le opere d’arte rubate all’Africa – Frantz FANON, Aimé Césaire, Assia Djebar , New York, arte africana e avanguardie video musei

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