Philip Levine: What Work Is, ‘Cos’è il lavoro’

Philip Levine: ‘Cos’è il lavoro’

Facciamo una lunga fila nella pioggia
alla Ford Highland Park. Per un lavoro.
Sai cos’è un lavoro – se sei grande abbastanza
per leggere qui sai com’è lavorare,
anche se magari non lo fai.
Ma lasciamo perdere te. Questa roba
parla di gente che aspetta, passando
da una gamba all’altra. Di quando senti
una pioggia sottile che ti bagna i capelli
come fa la nebbia, e che ti confonde
la vista finché ti sembra di vedere
tuo fratello, forse dieci posti più avanti.

Ti pulisci gli occhiali con le dita,
e ovviamente è il fratello di qualcun’altro,
con le spalle più strette del tuo
ma con la stessa posa dinoccolata
e dimessa, lo stesso sorriso che
non maschera la cocciutaggine, lo stesso
rifiuto, triste, di darla vinta alla pioggia,
alle ore buttate via ad aspettare,
al pensiero che a un certo punto, più avanti,
c’è un uomo che sta aspettando per dirti “No,
oggi non assumiamo”, per qualsiasi
ragione voglia. Vuoi bene a tuo fratello;
all’improvviso, adesso, puoi appena
sopportare l’amore che ti sommerge
per tuo fratello, che non è vicino a te,
o dietro di te, o davanti a te,
perché è a casa a cercare di smaltire
col sonno il turno di notte alla Cadillac
così può alzarsi prima di mezzogiorno
a studiare tedesco. Lavora otto ore
per notte così può cantare Wagner,
l’opera che odi di più, la musica
peggiore che sia mai stata inventata.
Quand’è stata l’ultima volta che gli hai detto
che gli vuoi bene, che gli hai stretto le spalle
larghe, hai aperto bene gli occhi e gli hai
detto quelle parole, e magari gli hai dato
un bacio sulla guancia? Non hai mai fatto
una cosa così semplice, così ovvia,
non perché sei troppo giovane, o troppo
scemo, non perché sei geloso e nemmeno
avaro o incapace di piangere davanti
a un altro uomo – no, è solo che non sai
cosa vuol dire lavorare.

[da What Work Is, 1991]

What Work Is
We stand in the rain in a long line
waiting at Ford Highland Park. For work.
You know what work is – if you’re
old enough to read this you know what
work is, although you may not do it.
Forget you. This is about waiting,
shifting from one foot to another.
Feeling the light rain falling like mist
into your hair, blurring your vision
until you think you see your own brother
ahead of you, maybe ten places.
You rub your glasses with your fingers,
and of course it’s someone else’s brother,
narrower across the shoulders than
yours but with the same sad slouch, the grin
that does not hide the stubbornness,
the sad refusal to give in to
rain, to the hours wasted waiting,
to the knowledge that somewhere ahead
a man is waiting who will say, “No,
we’re not hiring today”, for any
reason he wants. You love your brother,
now suddenly you can hardly stand
the love flooding you for your brother,
who’s not beside you or behind or
ahead because he’s home trying to
sleep off a miserable night shift
at Cadillac so he can get up
before noon to study his German.
Works eight hours a night so he can sing
Wagner, the opera you hate most,
the worst music ever invented.
How long has it been since you told him
you loved him, held his wide shoulders,
opened your eyes wide and said those words,
and maybe kissed his cheek? You’ve never
done something so simple, so obvious,
not because you’re too young or too dumb,
not because you’re jealous or even mean
or incapable of crying in
the presence of another man, no,
just because you don’t know what work is.

* * *

Philip Levine è uno dei maggiori poeti americani viventi. Nato nel 1928 a Detroit da genitori ebreo-russi immigrati negli Stati Uniti, ha studiato e lavorato come operaio nella stessa città, che in seguito ha lasciato per frequentare prima lo Iowa Writers’ Workshop, dove ha seguito i corsi di scrittura creativa di Robert Lowell e di John Berryman, e poi le lezioni di Yvor Winters a Stanford. Poeta della scena urbana e della classe lavoratrice americana, ha dedicato un libro ai “moti” neri di Detroit del 1967 (They Feed They Lion, 1972). Levine appartiene alla generazione dei poeti Beat di Adrienne Rich e Robert Bly e ne ha condiviso i traumi e le lotte contro le guerre “generazionali”: quella civile spagnola (ai cui eroi anarchici ha dedicato il volume The Names of the Lost, 1976) e quella del Vietnam. Vincitore del National Book Award (nel 1991, con What Work Is) e del Premio Pulitzer (nel 1994, con The Simple Truth), divide oramai da anni la propria vita tra Fresno, California, e New York, dove insegna. Nel 1994 ha pubblicato la raccolta di saggi di carattere autobiografico The Bread of Time e nel 1999 il suo ultimo volume di poesie, The Mercy, un altro libro della memoria e di memorie di famiglia, che rievocano l’ambiente dell’immigrazione industriale di Detroit.

http://www.giugenna.com/2008/03/03/philip-levine-cose-il-lavoro/

 

La volpe di Philip Levine | controappunto

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