un altro maledetto ebreo!: Hilferding, Rudolf – Das Finanz kapital , IL CAPITALE FINANZIARIO ; L’imperialismo Fase suprema del capitalismo Vladimir Lenin

Hilferding, Rudolf

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Hilferding, Rudolf. – Uomo politico ed economista austriaco (Vienna 1877Parigi 1941). Si laureò in medicina ed esercitò la professione nella città natale. Trasferitosi a Berlino, entrò nel partito socialista, fu redattore della Neue Zeit, del Vorwärts (190715), e direttore della Freiheit (191822). Esponente del Partito socialdemocratico indipendente (USPD), fu fautore della riunificazione con il Partito socialdemocratico tedesco. Deputato al Reichstag (dal 1924), fu ministro delle Finanze del Reich nel primo gabinetto Stresemann (1923) e nel secondo gabinetto Müller (192829). All’avvento di Hitler al potere si rifugiò a Praga e nel 1938 a Parigi, dove morì, dopo l’occupazione tedesca, in una prigione della Gestapo. Fu uno dei più eminenti neomarxisti; opera principale: Das Finanz kapital (1910; trad. it. 1976).

l’economia borghese non conduce più energiche e gaie battaglie sul piano teorico. In quanto portavoce della borghesia, interviene soltanto là dove questa ha degli interessi pratici, rispecchiando fedelmente gli interessi conflittuali delle cricche dominanti nelle lotte economiche quotidiane, ma evitando accuratamente di prendere in considerazione la totalità dei rapporti sociali,    ritenendo giustamente che tale considerazione sia inconciliabile con la propria esistenza di economia borghese. E anche quando per necessità dei suoi «sistemi» e nei suoi «compendi» deve esprimersi sui nessi della totalità, può cogliere la totalità soltanto rappezzando   faticosamente assieme i singoli frammenti. Avendo cessato di essere fondata su principi e di essere sistematica, è diventata eclettica e sincretistica.Rudolf Hilferding

Rudolf Hilferding

Finance Capital

A Study of the Latest Phase of Capitalist Development


Written: 1910
First Published: Rudolf Hilferding, Das Finanzkapital. Eine Studie über die jüngste Entwicklung des Kapitalismus, Vienna, Wiener Volksbuchhandlung, 1910 (Marx-Studien, vol. III)
Source: Rudolf Hilferding, Finance Capital. A Study of the Latest Phase of Capitalist Development. Ed. Tom Bottomore (Routledge & Kegan Paul, London, 1981) courtesy of  Routledge.
Translated: Edited by Tom Bottomore from translations made by Professor Morris Watnick and Mr Sam Gordon.
Transcription/Markup: Steve Palmer
Proofread:
Copyright: Rudolf Hilferding © 1910; Morris Watnick © 1981; Sam Gordon  © 1981; Tom Bottomore © 1981.


FINANCE CAPITAL

Preface

Part I Money and credit

 1. The necessity of money

 2. Money in the circulation process

 3. Money as a means of payment. Credit money

 4. Money in the circulation of industrial capital

 5. The banks and industrial credit

 6. The rate of interest

Part II The mobilization of capital. Fictitious capital

 7. The joint-stock company

 8. The stock exchange

 9. The commodity exchange

10. Bank capital and bank profit

Part III Finance capital and the restriction of free competition

11. Surmounting the obstacles to the equalization of rates of profit

12. Cartels and trusts

13. The capitalist monopolies and commerce

14. The capitalist monopolies and the banks.
The transformation of capital into finance capital

15. Price determination by the capitalist monopolies and
the historical tendency of finance capital

Part IV Finance capital and crises

16. The general conditions of crises

17. The causes of crises

18. Credit conditions in the course of the business cycle

19. Money capital and productive capital during the depression

20. Changes in the character of crises. Cartels and crises

Part V The economic policy of finance capital

21. The reorientation of commercial policy

22. The export of capital and the struggle for economic territory

23. Finance capital and classes

24. The conflict over the labour contract

25. The proletariat and imperialism

http://www.marxists.org/archive/hilferding/1910/finkap/

Rudolf Hilferding
IL CAPITALE FINANZIARIO

Feltrinelli 1976, pp.498

Prefazione

Parte prima: Denaro e credito

I. La necessità del denaro

II. Il denaro nel processo di circolazione

III. Il denaro come mezzo di pagamento. Il denaro creditizio.

IV. Il denaro nella circolazione del capitale industriale.
– Periodico disinvestimento e periodico accantonamento infruttifero del capitale monetario.
– Variazioni quantitative del capitale accantonato e loro cause.
– Trasformazione del capitale monetario, per mezzo del credito, da disponibile a produttivo.

V. Le banche e il credito industriale

VI. Il tasso d’interesse.

Parte seconda: La mobilizzazione del capitale. Il capitale fittizio.

VII. La società per azioni
1. Dividendi e utile di fondazione
2. Finanziamento delle società per azioni. Società per azioni e banche.
3. Società per azioni e imprese individuali
4. Lemissione di azioni

VIII. La borsa valori
1. I titoli in borsa. La speculazione
2. Le funzioni della borsa
3. Gli affari in borsa

IX. La borsa merci

X. Capitale bancario e utile bancario

Parte terza: Il capitale finanziario e la limitazione della libera concorrenza

XI. Ostacoli al livellamento del saggio di profitto e loro superamento

XII. Cartelli e trusts

XIII. Il monopolio capitalistico e il commercio

XIV. Il monopolio capitalistico e le banche
Trasformazione del capitale in capitale finanziario

XV. Il controllo dei prezzi del monopolio capitalistico
Tendenza storica del capitale finanziario

Parte quarta: Il capitale finanziario e la crisi

XVI. Le condizioni generali della crisi
– Le condizioni di equilibrio del processo sociale di riproduzione
– Le condizioni di equilibrio del processo capitalistico di accumulazione

XVII. Le cause della crisi

XVIII. Il credito nello sviluppo del ciclo

XIX. Il capitale monetario e il capitale produttivo durante la depressione

XX. Mutamenti nel carattere delle crisi: le crisi e i cartelli

Parte quinta: Per una politica economica del capitale finanziario

XXI. I mutamenti nella politica commerciale

XXII. L’esportazione di capitale e la lotta per lo spazio economico

XXIII. Il capitale finanziario e le classi

XXIV. La lotta per il contratto di lavoro

XXV. Il proletariato e limperialismo
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Uno dei contributi più importanti di Hilferding alla critica marxista dell’economia politica nell’epoca dell’imperialismo è l’analisi della natura dei “dividendi” e la scoperta della nuova categoria dell’ “utile di fondazione” (letteralmente, del fondatore, o del promotore). Val la pena di riportare i passi salienti del Capitolo settimo, paragrafo I.

Capitolo settimo

I. Dividendi e utile di fondazione

La comparsa della società per azioni (Spa) nel campo dell’industria (che è quella qui esaminata) implica, in primo luogo, una trasformazione nella funzione del capitalista industriale. La Spa porta con sé infatti la definitiva dissociazione della funzione del capitalista industriale da quella dell’imprenditore industriale. Tale trasformazione fa si che il capitale investito nella Spa acquisti per i suoi possessori la funzione di puro capitale monetario.

Il capitalista monetario, nella sua qualità di prestatore, non ha nulla a che fare con la trasformazione che il suo denaro subisce nel processo di produzione. Dal momento che egli non fa altro che cedere il suo denaro per riaverlo dopo un determinato periodo assieme agli interessi, il suo rapporto economico viene ad assumere le caratteristiche di un rapporto giuridico.

Allo stesso modo l’azionista funge da semplice possessore di capitale monetario: egli cede ad altri il suo denaro per ricavarne un “reddito” e rimanere arbitro di stabilire l’entità della somma di cui intende rispondere; proprio cme il capitalista monetario il quale impegna in un’operazione soltanto una determinta quantità di denaro, di cui fissa a suo piacimento l’ammontare.

Ecco però, già a questo punto, delinearsi una prima distinzione. Il tasso d’interesse del capitale monetario messo a disposizione dell’industria sotto forma di azioni non è, come tale, stabilito in anticipo: in realtà in questo caso si tratta semplicemente dell’acquisizione del diritto di partecipare agli utili (profitti) di una particolare impresa economica. Una seconda differenza nei confronti del capitale dato genericamente a prestito consiste nel fatto che l’epoca del rimborso non è direttamente stabilita, non è cioè fissata all’atto stesso dell’accordo e non è implicitamente conseguente dalla natura del rapporto economico stabilito tra i contraenti.

Esaminiamo ora la prima distinzione. Innanzitutto si deve mettere in chiaro che il reddito del capitale monetario investito in azioni non è del tutto imprevedibile. Ogni impresa capitalistica viene creata per produrre profitto. Il conseguimento del profitto, in condizioni normali del profitto medio, è il presupposto di ogni iniziativa industriale (e commerciale s’intende). In generale, il margine di minor sicurezza che caratterizza la posizione dell’azionista nei confronti di quella del prestatore di capitale frutta al primo un certo premio di rischio, anche se non fissato, nè prestabilito e, soprattutto, non misurabile in anticipo. Esso dipende piuttosto dal fatto che l’offerta di capitale monetario da investirsi in azioni risulterà inevitabilmente inferiore, a parità di condizioni, all’offerta rivolta verso gli impieghi a reddito fisso, se questi ultimi si dimostrano più sicuri. E’ proprio questa diversità nell’offerta che spiega la differenza dei tassi di rendimento e quindi le differenti quotazioni dei rispettivi titoli.

(segue)

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L’introduzione di Giulio Pietranera

Il pensiero economico di Hilferding e il dramma della socialdemocrazia tedesca

I.
Il discorso e i dibattiti su nuove fasi del Capitalismo, tema oggi alla moda, impegnarono, verso la fine del secolo scorso e negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale, economisti e sociologi, che spesso presero posizione con un certo ritardo rispetto agli eventi fondamentali di quellepoca; ma si trattò allora, effettivamente, di una svolta sostanziale e profonda nella vita capitalistica, sicché il prefisso “neo” venne spesso con ragione applicato ai termini proposti per individuare il complesso dei nuovi avvenimenti, quando pur non si giunse, con maggior ragione, ad adottare qualifiche del tutto nuove o sino allora usate in altro senso.

É abbastanza agevole ricordare, almeno in modo generico, quegli aspetti emergenti della “nuova economia” che, con il passare del tempo, fecero cumulo sino a portare alla “grande svolta”. Sulla vecchia strada del Capitalismo, il cartello indicatore della libera concorrenza, che voleva mettere in evidenza le forze autoregolatrici del sistema, segnò una via ormai percorsa; mentre un’altra insegna cominciò a segnalare che i tempi correvano verso il “monopolio” ed un nuovo sistema di privilegi. In ogni caso, il termine “neo-capitalismo” indicò, nei primi tempi, un complesso di fenomeni che i conservatori chiamavano, e chiamano ancor oggi, “punti oscuri dell’industrialismo o del Capitalismo”: l’apparire delle crisi di sovraproduzione (soprattutto quella fondamentale, per il periodo che abbiamo presente, che va dal 1870 in poi; e quella del 1907), o meglio, il rendersi palese l’esistenza di un ciclo economico; la concentrazione della produzione industriale e il sorgere di coalizioni monopolistiche domestiche ed internazionali; la nuova ondata del protezionismo; l’acuirsi del colonialismo; l’ampliarsi del mercato finanziario internazionale e dell’esportazione dei capitali; il pericoloso estendersi del credito mobiliare e la posizione di dominio assunta dalle Banche miste in molti settori dell’industria, foriera di gravi crisi finanziarie per alcuni Paesi; il dilagare e il rassodarsi delle associazioni operaie; il rafforzamento dei partiti socialisti, ecc.

Prendere coscienza della nuova epoca in cui entrava l’economia mondiale non fu possibile al pensiero economico capitalistico, data appunto la sua natura e la sua funzione (che portavano proprio a impedire un nuovo radicale orientamento). Esso infatti reagì, in quegli stessi anni intorno al 1870, con la “rivoluzione marginalista” e cioè con un complesso di teorie completamente elusive rispetto ai problemi dell’ora e della trasformazione delle basi del mondo economico. Lenta e difficoltosa fu anche, da parte dello stesso pensiero marxista, la presa di coscienza dei mutamenti intercorsi nel sistema economico e sociale.

In questo campo, malgrado l’impegnativa ed ottimistica dichiarazione programmatica di Kautsky, scritta proprio in occasione di una rassegna critica del libro che qui si presenta, le difficoltà e gli ostacoli erano oltremodo gravi.

In primo luogo, occorreva riconoscere, proprio nell’incompiuta costruzione dei “maestri”, cui accennava il Kautsky, quelle prospettive e quelle anticipazioni che potevano mostrarsi effettivamente vitali.

In secondo luogo, bisognava evitare due errori di natura opposta che, in concreto, quasi sempre, fecero cumulo: quello di non saper riconoscere i fenomeni rilevanti e di non saperli selezionare fra la congerie dei nuovi eventi che precipitavano dall’apertura della “grande svolta”; e quello di mancare al compito metodologico di situare, di ordinare, le nuove caratteristiche in modo marxisticamente esatto, evitando tanto le sottovalutazioni e le indebite generalizzazioni, quanto la sterilità pragmatica di nuove generiche sistemazioni.

Errori del genere furono largamente consumati; ma mentre alcuni marxisti, come il Bernstein e talvolta il Kautsky, si spersero nelle due vie erronee (misconoscenza delle nuove caratteristiche dello sviluppo capitalistico ed errata sistemazione metodologica), lo Hilferding (come in minor misura la Luxemburg) ebbe un forte senso delle novità rilevanti del nuovo corso capitalistico e talvolta addirittura un dono profetico per prospettare certe possibilità avvenire. Mancò invece – se si vogliono anticipare alcune conclusioni di questa premessa – e, con lui, mancò il suo ambiente (e cioè gli Adler, i Renner, i Bauer etc.), della capacità di un’esatta sistemazione metodologica dei suoi stessi contributi e dei risultati fattuali delle proprie ricerche, sicché Hilferding, rappresentante per eccellenza del fallimento dell’austromarxismo, apparve, negli anni della grande crisi politica della Germania che sfociò nel 1933 hitleriano, ed appare oggi, come un profeta inerme di fronte all’irrompere delle contraddizioni dellimperialismo di cui non seppe vedere il punto critico e gli strumenti di rottura verso l’avvenire.

Per quanto sia errato ed ingiusto come giudizio considerare Hilferding, come molti fanno, soltanto colui che offrì a Lenin una “preziosa analisi teorica sulla recentissima fase di sviluppo del Capitalismo”, tale presa di posizione è in qualche modo giustificabile. La stessa vita di Hilferding, e la sua tragica fine, si direbbe stiano a simboleggiare, in modo talora sorprendente, le contraddizioni della socialdemocrazia di lingua tedesca nel periodo che ha preceduto il primo conflitto mondiale, sicché un cenno bio-bibliografico sul nostro autore non ci sembra superfluo, non solo per una migliore comprensione del Capitale finanziario, ma per rievocare lo splendore e la miseria di un movimento di cui Hilferding fu alto esponente.

II.
Rudolf Hilferding nacque a Vienna nel 1877 da una facoltosa famiglia di commercianti ebrei. Studiò medicina, ma i suoi interessi si rivolsero presto alle scienze sociali. Divenne socialista ed organizzò con Otto Bauer il primo circolo socialista studentesco di Vienna.

Nel 1902 Kautsky invitò Hilferding a collaborare regolarmente alla Neue Zeit e nel 1906 fu chiamato da Bebel ad insegnare nella scuola di partito di Berlino. Dopo un anno d’insegnamento, diresse i servizi esteri del Vorwärts. Da questo momento in poi Hilferding divenne uno dei consulenti preminenti del partito Socialdemocratico tedesco.

Nel 1904, la pubblicazione del primo fascicolo dei Marx Studien portò il nome di Hilferding all’attenzione degli stessi economisti non marxisti e, ancor oggi, gli dà postuma fama, o meglio gli evita di esser ricordato soltanto come l’autore del Capitale finanziario. Dei tre saggi pubblicati, quello di Hilferding, Böhm-Bawerks Marx Kritik, scritto quando il suo autore aveva appena 27 anni, testimonia ancora oggi, da un lato, le sue eccezionali doti, e da un altro lato la sua attitudine a chiarire vigorosamente le differenze metodologiche fra economisti borghesi ed economisti marxisti. Facoltà questultima che andò affievolendosi già nel Capitale finanziario e molto più nelle opere posteriori.

Il Capitale finanziario fu pubblicato nel 1910 per quanto, come ci assicura lo Hilferding stesso nella prefazione scritta nel Natale del 1909, fosse già composto, nella sua parte sostanziale, sin dal 1905. Il libro venne salutato da Otto Bauer come “l’opera che da lungo tempo attendevamo” e fece considerare il suo autore come il massimo economista di lingua tedesca in campo socialista.

Anche il Capitale finanziario fu pertanto opera giovanile, pensata nei primi anni della vita intellettuale dello Hilferding e sostanzialmente pronta quando il suo autore aveva 28 anni. Hilferding visse sino a 64 anni, ma non pubblicò altri libri e nemmeno i suoi successivi saggi, molti di natura giornalistica, possono essere messi a confronto con la Böhm-Bawerks Marx Kritik o con il Capitale finanziario. Dopo questo volume, il suo lavoro più impegnativo – al quale faremo riferimento – fu un contributo del 1931, Il carattere proprio delle leggi e dello sviluppo capitalistico, scritto in occasione di un simposio sul Capitalismo, per quanto in tale saggio egli riesponga sostanzialmente concezioni già sostenute nel Capitale finanziario.

Attiva e multiforme fu la sua partecipazione alla vita politica. Nel 1914, pacifista convinto, oltre le sue convinzioni ufficiali di socialista tedesco, votò contro i crediti di guerra. Nel 1915 venne richiamato alle armi nell’esercito austriaco come medico e passò tutti gli anni di guerra al fronte italiano, il che gli impedì di svolgere attività politica e di partecipare alla rivoluzione del 1918. Tornato in Germania, divenne membro del “Partito socialista indipendente” (con Haase, Ledebaur e Dittman nel Comitato direttivo) sorto nellaprile 1917 e comprendente la minoranza uscita dal partito socialdemocratico. Malgrado la posizione di sinistra assunta dal nuovo partito, Hilferding si schierò subito come rappresentante del centro e rettificò via via la sua posizione verso destra. Nel congresso di Halle, fu uno degli esponenti della minoranza che votò contro l’adesione alla nuova Internazionale comunista. Nel 1922 il Partito Socialista Indipendente si scisse e, mentre la maggioranza formò il grosso del Partito Comunista Operaio Tedesco, la minoranza ritornò al Partito Social-democratico.

In tale partito Hilferding svolse la sua attività durante gli ultimi dieci anni della Repubblica di Weimar ed influenzò fortemente le tendenze che spingevano a destra. Con la sua rivista teoretica Die Gesellschaft, egli diffuse il suo pensiero ed entrò a far parte del governo come ministro delle Finanze, dapprima con Stresemann nel 1923 e poi con Müller nel 1928-29. I due periodi furono decisivi per la vita della Germania: il primo come quello della grande inflazione del marco ed il secondo per lo scoppio della crisi mondiale. In entrambi i casi, l’opera di Hilferding, nel campo della politica economica e dell’attività di governo, come d’altra parte quella del suo partito, non diedero risultati apprezzabili.

Intanto, portato dalle ondate del capitale finanziario, il nazismo era alle porte, mentre Hilferding, fra le altre cose, continuava ad occuparsi della lotta contro il comunismo (l’ultimo articolo in materia apparve sul Die Gesellschaft proprio nel gennaio del 1933).

Una lettera scritta da un amico tedesco a P.M. Sweezy descrive l’atteggiamento di Hilferding in quei giorni drammatici:
“Ricordo benissimo di aver parlato ad Hilferding pochi giorni dopo che Hitler era stato nominato Cancelliere e di avergli chiesto se ritenesse venuto il momento dello sciopero generale. Anche in quei primi giorni del febbraio 1933, egli sedeva in una comoda poltrona, calzando soffici pantofole; mi rispose, con sorriso bonario, che ero una giovane testa calda e che l’abilità politica consisteva nell’attendere il momento opportuno. Dopotutto, aggiunse, Hindenburg è sempre Presidente; il Governo è un governo di coalizione e mentre Hitler può salire al potere ed andarsene, la Confederazione tedesca dei sindacati è un’organizzazione che non deve rischiare la sua intera esistenza per uno scopo politico transeunte”.
Alcuni giorni dopo l’episodio narrato, Hilferding era nascosto in casa di amici e cacciato dalla Gestapo.

Il lettore che legga il capitolo sull’ideologia del capitale finanziario e le pagine sul razzismo nel libro qui tradotto [v. Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano, 1961] e ricordi come Hilferding dovesse cadere vittima dei nazisti otto anni dopo, si trova di fronte ad un curioso problema psicologico; tuttavia irrilevante poiché la fine di Hilferding simboleggiò veramente un fenomeno sociale molto più ampio e cioè la tragedia storica della Socialdemocrazia tedesca, i cui dirigenti, spesso di alte doti intellettuali, avevano perso il contatto con le masse ed ogni facoltà di previsione per l’avvenire anche più prossimo. Il che rappresenta per un movimento politico, che era così imbevuto di dottrina, il più grande fallimento.

Hilferding fuggì dalla Germania nel 1933 e si rifugiò in Svizzera dove rimase sino al 1938, passando poi a Parigi. Ma anche a Parigi fu raggiunto dalle incredibili creature che sembravano sorte dalle pagine del suo libro sicché, nel 1941, decise di fuggire negli Stati Uniti; e mentre stava per imbarcarsi a Marsiglia, fu arrestato dalla polizia di Vichy e consegnato ai nazisti. Dopo pochi giorni Hilferding era torturato a morte e ucciso dalla Gestapo; secondo un’altra versione, che vorremmo credere vera, riuscì a suicidarsi in prigione.

La vita intellettuale di Hilferding si svolse dalla Böhm-Bawerks Marx Kritik al Capitale finanziario e queste due opere rimangono, per alcuni apporti fondamentali, classiche per il marxismo. La sua vita politica stessa è ricca d’insegnamenti – anche se in senso negativo – e la sua fine getta una tragica luce su molte pagine del suo capolavoro; quella luce che sembra avvolgere la sua figura di profeta, sordo ai suoi stessi ammonimenti.

III.
Per un’opera così celebre, ma così discussa, e soprattutto ineguale nei suoi contributi allo sviluppo teorico del marxismo come il Capitale finanziario, crediamo sia bene tentare una “guida per il lettore”; da un lato, perché non si areni su certo terreno antiquato e pesante che spesso non è essenziale per il nucleo delle teorie genuine; da un altro lato, per mettere in evidenza gli aspetti dell’opera dei quali tenteremo una valutazione critica. Tale guida comprenderà in primo luogo un elenco di argomenti rilevanti; in secondo luogo, una selezione di temi sui quali si vorrebbe fermare lattenzione.

L’opera si apre con una introduzione non essenziale sia per la metodologia che per la messa in evidenza di quella che oggi appare a noi la problematica dell’autore; e si articola in cinque sezioni.

La prima sezione (Il denaro e il credito) può considerarsi, per i primi quattro capitoli, soltanto una premessa a quello che oggi viene considerato uno dei contributi più rilevanti dello Hilferding. In genere, l’A. riespone la teoria marxiana del denaro e del credito cercando di applicarla alla politica monetaria dellImpero austro-ungarico e ai diversi Paesi a monometallismo argenteo e a bimetallismo zoppo, nonché alla fase di transizione dai sistemi argentei a quelli aurei che, ai suoi tempi, si operava in molti Paesi europei ed orientali. Soprattutto interessante è lapplicazione – assai discussa – della teoria marxiana della moneta al caso del denaro a corso forzoso. La discussione dei problemi della circolazione del capitale industriale e della periodica formazione di fondi disponibili che vengono utilizzati come capitale monetario attraverso il credito, costituisce soltanto una premessa al fondamentale capitolo V (Le Banche e il credito industriale) in cui comincia propriamente l’analisi del capitale finanziario. Piuttosto tradizionale, per la sua epoca, il VI capitolo (Il tasso di interesse), malgrado alcune anticipazioni di teorie moderne che verranno messe in luce. Il lettore potrà utilmente collegarlo al primo paragrafo del VII capitolo della Sezione seconda che introduce la nuova categoria “utile di fondazione”.

La seconda Sezione è fondamentale per la comprensione dell’opera. Vengono discusse l’importanza e le funzioni delle società per azioni ed i rapporti fra società per azioni e proprietà privata; la natura dei dividendi e, come si è accennato, dell’utile di fondazione. Si esaminano pure i problemi del finanziamento delle società per azioni e pertanto i rapporti tra tali società e le Banche. L’A. si occupa quindi dell’attività di emissione dei titoli, della Borsa-valori (ed in tale occasione espone la sua tesi della diminuzione d’importanza della Borsa nei confronti delle Banche di credito mobiliare) ed analizza il capitale bancario e l’utile delle Banche nei loro reciproci rapporti.

La terza Sezione è pure fondamentale in quanto viene sviluppato lo stesso concetto di capitale finanziario. Dopo aver sottolineato un altro fenomeno principe del nuovo Capitalismo, e cioè la contrazione della libera concorrenza e la formazione monopolistica delle coalizioni, lo Hilferding discute la natura e i problemi del capitale finanziario in rapporto ai monopoli capitalistici e alle Banche. Sezione questa da leggersi per intero, malgrado che il contributo originale dello Hilferding non sia da ricercarsi nella discussione delle origini e della problematica del monopolio capitalistico e delle coalizioni. Tuttavia, anche in questo campo, le anticipazioni di teorie moderne e le osservazioni rilevanti sono numerose.

La quarta Sezione è stata corrosa maggiormente dal tempo. La teoria della crisi di Hilferding non è fra quelle celebri – celebri magari per celebri errori – malgrado il ruolo che nelle determinanti della crisi gioca il capitale finanziario. Tuttavia, essa è notevole per la discussione della teoria marxiana delle crisi e perché vivamente si inserisce nei dibattiti di un’epoca che sotto questo riguardo è molto feconda.

La quinta Sezione conserva tutto il suo interesse anche per quei preziosi profetici apporti – purtroppo praticamente abortivi – cui si è fatto cenno. Vengono discusse le nuove caratteristiche dell’Imperialismo; e fenomeni connessi con l’esportazione dei capitali; la posizione assunta dalla lotta di classe – e la stratificazione delle classi sociali – nell’epoca del capitale finanziario; lo Stato imperialista; la politica del proletariato nell’ambiente imperialistico.

Tale il piano dell’opera quale crediamo possa essere visto oggigiorno. Nelle osservazioni che seguono, vorremmo discutere:
– La teoria dello Hilferding sul denaro, propedeutica a quelle del credito, delle funzioni delle società per azioni e dell’utile di fondazione
– l’interpretazione data dallo Hilferding alla teoria marxiana del valore (par.V);
– le concezioni di Hilferding sulle funzioni delle società per azioni; le nuove funzioni delle Banche, il credito mobiliare e il capitale finanziario; il capitale monopolistico e le coalizioni, sempre in rapporto con la problematica del capitale finanziario (par.VI);
– il posto che occupa la teoria del capitale finanziario nell’odierno sviluppo della economia capitalistica (par.VII);
– alcune conseguenze dell’impostazione generale data dallo Hilferding ai problemi del Capitale finanziario: sulla teoria delle crisi e sulle concezioni politiche dello Hilferding stesso (par.VIII).

IV.
É stato spesso ripetuto come gli errori che viziano le teorie più rilevanti dello Hilferding – soprattutto quelle relative al rapporto tra capitale finanziario e struttura monopolistica – siano un’inevitabile conseguenza della sua errata teoria della moneta.

Tale valutazione critica sembra accettabile soltanto entro determinati limiti. Alla luce dell’esperienza odierna, la sfera degli errori dello Hilferding nell’economia monetaria sembra, in primo luogo, più ristretta di quanto non potesse apparire agli inizi del secolo; e, in secondo luogo, una certa innegabile impostazione erronea in fatto di teoria della moneta non si riflette su tutti i contributi essenziali del Capitale finanziario, che non è opera strettamente organica e consequenziale. In ogni caso, conviene tentare di rivedere la teoria monetaria dello Hilferding.

Tale teoria viene svolta nella prima Sezione del Capitale finanziario; per quanto sia maggiormente e più chiaramente delineata in un’opera del 1912, cui faremo riferimento più oltre.

Le basi delle teorie monetarie dello Hilferding si trovano in Marx. La teoria marxiana della moneta, quale può essere desunta da Per la critica dell’economia e dai diversi libri del Capitale, ha avuto un lento sviluppo. Sotto l’influenza di Ricardo, Marx ammise in un primo tempo che il libero gioco della domanda e dell’offerta determinasse il valore della moneta, non meno del costo di produzione ; soltanto dopo aver studiato Tooke e Fullarton ed avere completamente sviluppato la propria teoria del valore, Marx unificò la teoria particolare del valore della moneta e quella generale del valore delle merci.

Come è noto, Marx fa sua l’ipotesi di una moneta-merce costituita dai metalli preziosi, specialmente dalloro ; loro è una merce ed il suo valore risulta dal raffronto tra la quantità, e cioè il tempo, di lavoro socialmente necessario in esso contenuto, e la quantità (tempo) di lavoro cristallizzato contenuta nelle merci che esso deve misurare (prima caratteristica della moneta è infatti per Marx la misurazione del valore). Nei Paesi produttori di metalli preziosi, un tempo di lavoro determinato s’incorpora direttamente in un quantum determinato di metallo; negli altri Paesi, lo stesso risultato è ottenuto mediante lo scambio di merci nazionali contro una data quantità d’oro importata dai Paesi produttori.
Le variazioni del valore dell’oro sono regolate dalla legge generale dei valori di scambio. Se il valore delle merci rimane costante, un rialzo generale dei loro prezzi è possibile soltanto se il valore dell’oro diminuisce, e viceversa. Perché vari il valore dell’oro, occorre che vari il tempo di lavoro necessario per la sua estrazione, il che non impedisce all’oro stesso di compiere le sue funzioni. Le variazioni dei valori, e dei prezzi, delle merci sono dovute pertanto alla moneta come misura del valore e non come strumento di circolazione. Come il valore delle merci si crea nella sfera della produzione, e si manifesta in quella dello scambio, così il valore della moneta è fatto produttivo e non circolatorio; il che Marx esprime sinteticamente in un principio generale: “I prezzi non sono alti o bassi perché circola più o meno oro, ma circola più o meno oro in quanto i prezzi sono bassi o alti. Questa è una delle più importanti leggi dell’economia politica“.

Per Marx la moneta deve avere un valore proprio. Il che implica che la quantità di moneta in circolazione, ammesso come costante il valore dell’unità monetaria, è determinato dalla massa delle merci e dai loro prezzi, supposto che la somma totale dei prezzi delle merci sia uguale al loro valore totale. Se il valore dellunità monetaria varia, si producono fluttuazioni nella somma totale dei prezzi delle merci; fluttuazioni che sono un riflesso dovuto alla variazione del valore-lavoro della merce. In sintesi, la “attività funzionale” della moneta determina la quantità del circolante; quest’ultima dipende dalla somma totale dei prezzi delle merci, e cioè da una somma che la moneta rappresenta e dalla velocità di circolazione della moneta stessa. Data la velocità di circolazione media della moneta, la quantità del circolante dipende esclusivamente dalla somma totale dei prezzi (valori) delle merci.

Nella teoria della moneta, Marx appare antiquantitativista e antiricardiano. Nei limiti di tale teoria, che è perfettamente coerente con il complesso teorico della sua opera, Marx si riferisce alla moneta come moneta-merce (oro) o come moneta-segno a valore legale, rappresentativa di moneta-merce. Anche se simboleggiata in alcune delle sue funzioni per mezzo di semplici segni, la moneta rimane per Marx sempre una merce avente un valore proprio, che si riflette appunto sui segni. Pertanto, l’introduzione della moneta creditizia, sorta dalla funzione generale della moneta come mezzo di pagamento, non altera i lineamenti generali della teoria del valore monetario.

Abbiamo insistito a lungo sui lineamenti generali della teoria marxiana del valore della moneta. Per quanto noti, essi hanno spesso dato luogo ad equivoci sui quali dovremo ritornare in quanto si sono ripercossi sull’interpretazione della concezione monetaria dello Hilferding.
La teoria di Hilferding parte da una accettazione di principio, e si concreta in una esposizione ragionata, delle concezioni di Marx. Tuttavia Hilferding ben presto si distacca dal suo modello e rovescia il rapporto fra la funzione di valorimetro della moneta e la funzione circolatoria e considera quest’ultima come preminente rispetto alla prima. Nella sua polemica contro la teoria statale del denaro di Knapp, Hilferding sottolinea come il denaro “abbia la sua origine prima nella circolazione. Esso è quindi, anzitutto, mezzo di scambio. Solo in un secondo tempo, divenendo metro universale dei valori e equivalente generale delle merci, diventa mezzo generale di pagamento”.

Ora tale rovesciamento è certamente erroneo almeno finché Hilferding si riferisce ai biglietti di banca a piena copertura e quindi convertibili. Per contro, il fondamento delle argomentazioni critiche rivolte ad Hilferding viene meno in parte quando si prosegue nella lettura della sua opera sino al capitolo II e, soprattutto, se si considera il tipo di moneta cui egli in concreto si riferisce. In tale capitolo, egli sostiene, in ogni caso, princìpi di questo genere: “La carta moneta è qui del tutto indipendente dal valore dell’oro e riflette direttamente il valore delle merci”; oppure “La vera misura del valore non è dunque il lavoro; il corso di quest’ultimo viene bensì determinato da quello che chiamerei il valore della circolazione socialmente necessaria”.

Le tesi di Hilferding colpiscono chi abbia presente la teoria marxiana della moneta, che è stata sopra esposta. Esse debbono peraltro venir riferite, secondo lo Hilferding stesso, alla carta-moneta circolante a corso forzoso, alla “moneta statale” che egli vede in circolazione in molti Paesi, ed al cui definitivo prevalere, come molti altri economisti, non crede.

Pertanto, le critiche che hanno colpito le teorie monetarie dello Hilferding, e che generalmente mettono in luce come egli abbia abbandonato la teoria del valore-lavoro e quella della moneta che ne deriva, risultano accettabili entro dati limiti; cioè sin dove anche la teoria marxiana della cartamoneta risulti soggetta alla legge generale del valore-lavoro che regola la produzione e la circolazione della moneta-merce e di quella rappresentativa a valore legale. Che Hilferding voglia sviluppare sempre le sue teorie monetarie tenendo ferma l’ipotesi storica considerata da Marx (la merce-moneta oro), come vogliono Kautsky e Oelssner , è tesi da dimostrare e crediamo che tale dimostrazione non sia possibile. Questo almeno finché si tengano presenti le teorie monetarie dello Hilferding discusse nel Capitale finanziario; per contro, per le teorie svolte nel citato articolo Geld und Ware il discorso è diverso e più appropriati ci sembrano gli appunti rivolti ad Hilferding.

La critica radicale di Kautsky ad Hilferding, che è quella generalmente accettata e ripetuta, poggia pertanto, a nostro parere, su un’inesatta interpretazione del contenuto delle teorie monetarie di Marx. In altri termini, essa si fonda su un’indebita generalizzazione della teoria marxiana del denaro, e pecca per non aver tenuto conto delle “anticipazioni” di Marx anche nel campo della teoria della cartamoneta.

Tale inesatta interpretazione è d’altra parte abbastanza frequente. Si ritiene sovente che Marx non concepisca altra moneta se non quella merce e quella valore legale che della prima è rappresentativa; e che Marx scambi il corso forzoso con il corso legale. In realtà Marx, che è antiquantitativista quando ha presente la moneta-merce oro ed i suoi segni rappresentativi a corso legale, diviene “quantitativista” quando accetta l’ipotesi della carta-moneta a corso forzoso. Soltanto che tale ultima ipotesi costituisce per Marx – data la struttura del suo sistema che si riferisce essenzialmente al Capitalismo concorrenziale – una ipotesi-limite, quasi irreale, sulla quale non insiste. In ogni caso, il valore della cartamoneta, dipende per Marx dalla sua quantità : “mentre la quantità di oro in circolazione dipende dai prezzi delle merci; e inversamente, il valore della cartamoneta che circola dipende esclusivamente dalla sua quantità”.

Tuttavia, ad una più completa analisi, anche in regime di corso forzoso, non tutti i movimenti dei prezzi si spiegano con variazioni della quantità di moneta. Le leggi che regolano la variazione della quantità del metallo che circola in regime di moneta metallica influenzano ancora la circolazione ed il valore dei biglietti inconvertibili. Certi movimenti di prezzi in regime di cartamoneta sono dovuti alla moltiplicazione dei segni monetari; mentre altri sono la conseguenza dello sviluppo del sistema economico che esige una maggiore o minore quantità di circolante.
Ora, in questa “esigenza” di sviluppo del sistema economico è forse il germe del discusso concetto dello Hilferding di “valore della circolazione socialmente necessaria” (gesellschaftlich notwendiger Zirkulationswert). Si supponga infatti che la moltiplicazione dei segni monetari inconvertibili non avvenga per assecondare il fabbisogno del bilancio statale, ma in risposta alle “esigenze” di sviluppo del sistema economico; o che avvenga – sempre in regime di cartamoneta a corso forzoso – per ambedue i motivi. In ogni caso, non esiste un rapporto diretto fra la cartamoneta circolante e l’oro; e allora, con Hilferding, non si può più parlare di un vero “valore” della moneta (che sarebbe soltanto quello marxiano riferibile alla moneta-merce), ma di un “corso”, che viene determinato su basi quantitativiste.

Il problema si sposta così, per l’aspetto più significativo delle teorie monetarie dello Hilferding, dalla tradizionale opinione che vuole il suo apporto totalmente erroneo, alla messa in evidenza di una vera originalità nell’estendere la teoria marxiana della cartamoneta. In altri termini, per porre la questione in forma interrogativa, si può, su queste basi, sostenere come tesi storica che Hilferding abbandoni Marx per Ricardo e non tenga conto della critica di Marx a quest’ultimo? E che significato ha, comunque, la teoria “quantitativa” di Hilferding?

Come è noto, la legge ricardiana della bilancia del commercio, con i suoi complicati automatismi, definita da Marx “meccanica ed immaginaria”, poggia sulla teoria quantitativa della moneta. Ricardo, “astratto” teorico in quasi tutti i suoi contributi alla teoria economica, ha per contro elaborato una teoria della moneta, che è espressione diretta della sua esperienza di banchiere e di cittadino inglese. Ricardo aveva visto il “grande panico” del 24 febbraio 1797, quando le riserve della Banca d’Inghilterra erano diminuite dell’84% ed era stato decretato il corso forzoso, che doveva prolungarsi sino al 1821; ed aveva assistito ad una svalutazione media della sterlina del 10%, con punte massime del 30 %. Ricardo aveva ricercato le cause di tale svalutazione nella sua Memoria del 1809 sull’alto prezzo dell’oro in verghe, dimostrando come la sola causa del deprezzamento fosse l’emissione di biglietti in quantità eccessiva. Tutto ciò è risaputo; occorre soltanto sottolineare che se la teoria ricardiana della moneta costituì una sistemazione pratica ed occasionale di fenomeni monetari, consentì tuttavia a Ricardo stesso di progettare anche per l’avvenire l’abolizione della moneta metallica e la sua sostituzione con biglietti di banca, da emettere in quantità ristretta, secondo le esigenze della circolazione, e con garanzia di una riserva in verghe auree. Con tale progetto, Ricardo che, pur liberale, patrocinava il monopolio di una banca di Stato, si inserì nel futuro come progettista di rimedi contro l’inflazione, per quanto i suoi obiettivi fossero storicamente limitati ed egli mirasse: ad impedire che il pubblico chiedesse senza ragione il rimborso dei biglietti; a diminuire il costo della circolazione; ad assicurare elasticità all’offerta della moneta, ecc.

Gli obiettivi di Hilferding, posti con la sua discussa teoria sul valore della moneta, sono ben diversi. Tale teoria non è un progetto tecnico per uscire dall’inflazione o per riassettare un sistema monetario fondato sul corso forzoso. Essa costituisce piuttosto un tentativo di estendere la teoria marxiana a particolari situazioni che Marx non aveva potuto considerare, come il caso del bimetallismo e dei fenomeni inerenti alla transizione dal sistema monometallico argenteo a quello aureo, e cioè a fenomeni interessanti soprattutto la politica monetaria dell’Austria-Ungheria. In ogni caso, non è questo il nocciolo vitale delle teorie monetarie del Capitale finanziario; se così fosse, si dovrebbe accettare il giudizio di Kautsky e ritenere la teoria dello Hilferding “una teoria austriaca della moneta”. Il genuino contributo del Capitale finanziario alla teoria monetaria ci sembra un altro. Hilferding, sviluppando i cenni teorici di Marx sulla cartamoneta cui facemmo riferimento, tenta di delineare una teoria della moneta nella “fase finanziaria” del Capitalismo; quando cioè il distacco dei biglietti di banca dall’oro diviene un mezzo sistematico di “spogliazione” dei redditieri relativamente deboli, o meglio di redistribuzione dei redditi a danno dei lavoratori, attraverso uno speciale “plusvalore relativo”, sorgente da un costante divario nel rapporto dinamico fra prezzi di vendita e costo del lavoro. I tempi erano d’altra parte maturi per una teoria del genere che venne comunque poco svolta nella posteriore dottrina. In ogni caso Hilferding l’abbozza nel Capitale Finanziano ed essa conserva un certo rilievo perché non costituisce una semplice teoria quantitativa della moneta astratta e atemporale come quella quasi contemporanea del Fisher. Il nucleo vitale della teoria monetaria dello Hilferding (teoria finanziaria della moneta) appare così legato organicamente al complesso delle dottrine del Capitale finanziario; e come tale, è da presupporre, sia pure come teoria embrionale, agli ulteriori sviluppi teorici dello stesso Hilferding sul credito, il mercato finanziario, le società per azioni, la Borsa, il capitale fittizio, ecc.

In conclusione, la teoria della moneta, tratteggiata nel Capitale finanziario, nell’ipotesi di cartamoneta, non ci sembra quell’errore fondamentale dal quale deriverebbero tutti gli altri errori disseminati nell’opera; anzi, come si è cercato di dimostrare, essa può apparire un tentativo imperfetto, ma originale e necessario.

L’imperfezione del contributo dello Hilferding alle teorie monetarie trae origine anche da un’errata impostazione metodologica del problema alla quale conviene far cenno. Lo Hilferding non solo sostiene la necessità di una teoria di tipo “quantitativo” nella fase del capitale finanziario, ma dichiara: “Il carattere monetario sociale della cartamoneta si deduce direttamente dal valore sociale della circolazione. Che storicamente la valuta cartacea sia derivata dalla valuta metallica, non è affatto una buona ragione per considerarla tale anche sul piano teorico. Il valore della cartamoneta deve potersi dedurre senza ricorrere al denaro metallico” (v. testo [Il Capitale finanziario, cit.], p.49, nota 82).

Hilferding separa qui l’indagine teoretica da quella storica, il che costituisce un errore metodologico che un marxista non dovrebbe commettere; e cioè un vero errore nella sistemazione teorica dei fenomeni economici. Come infatti il Capitalismo finanziario è una fase del Capitalismo, così il regime monetario a base di cartamoneta è una fase di quello in cui esso si è inserito e cioè del regime della moneta-merce, che Marx ha prevalentemente teorizzato. La circolazione della cartamoneta sorge e si fonda storicamente sulla circolazione aurea; né si può parlare di una circolazione cartacea pura senza radici storiche nel sistema aureo. D’altra parte, gli economisti ben conoscono i limiti che il rapporto oro-carta impone alla stessa circolazione a corso forzoso. Il problema del valore della moneta è sempre problema di successivi valori storici, in diverse situazioni particolari, e non si può spiegare il “corso” di una cartamoneta se non risalendo anche all’originario “valore” aureo. In definitiva, pur senza cadere in una banale e generica teoria quantitativa, Hilferding è giunto ad assolutizzare il sistema della cartamoneta; il che lo ha portato, come si vedrà, ad assolutizzare anche il sistema del capitale finanziario nei confronti della sua matrice: il capitale monopolistico.

Le critiche cui fu fatto segno lo Hilferding hanno tuttavia maggior fondamento se, anziché alle pagine del Capitale finanziario che trattano della cartamoneta, si riferiscono al suo scritto specifico sulla teoria della moneta del 1912: Geld und ware. In tale articolo, lo Hilferding si distacca dalla teoria fondamentale di Marx sulla moneta non solo per quanto riguarda il caso di cartamoneta a corso forzoso, ma anche per quello della circolazione aurea. Egli giustifica tale distacco, rilevando che l’attuazione della legge del valore-lavoro in campo monetario richiede, come in ogni altro campo, il sistema della libera concorrenza, mentre la politica delle Banche centrali, osservata e teorizzata dallo Hilferding, è di natura monopolistica. Le Banche centrali fissano cioè il valore dell’oro come un monopolista fissa il valore della sua merce, determinando un prezzo e lasciando al mercato di determinare la quantità. Hilferding applica in questo caso il paradigma di Cournot, elaborato per il caso del monopolio assoluto, ma dimentica che la Banca centrale non può fabbricare l’oro, come invece il monopolista di Cournot può produrre la sua merce. L’ipotesi di Ricardo che la Banca d’Inghilterra abbia una miniera d’oro in Treadneedle Street darebbe bensì la possibilità di considerare la monetazione dell’oro come la produzione di una qualsiasi merce, ma essa non è che un brillante apologo al quale Hilferding ha attribuito carattere realistico. Di fatto, gli ostacoli e i limiti che restringono il “monopolio” della Banca centrale in caso di circolazione aurea sono ben maggiori di quelli che lo limitano in caso di circolazione di cartamoneta.

Comunque, anche per quanto riguarda Geld und Ware, la nuova teoria dello Hilferding non può essere semplicemente confutata con l’opporle le implicazioni monetarie della teoria del valore-lavoro di Marx. Questultima è bensì valida per il lunghissimo periodo storico dell’economia capitalistica, ma subisce modificazioni notevoli (viene cioè determinata storicamente) in caso di circolazione cartacea. Come il merito dello Hilferding nel Capitale finanziario è stato quello di riallacciarsi, più o meno consapevolmente e felicemente alle “anticipazioni” offerte dalla teoria marxiana della moneta, nel tentativo di delinearne una “teoria finanziaria”, così il nucleo vitale delle teorie di Geld und Ware è da ricercarsi nell’ipotesi del monopolismo ivi introdotta, a sua volta imperfetta anticipazione di teorie avvenire. In ogni caso, il difetto dello Hilferding è stato quello di non aver elaborato la sua teoria come organico sviluppo di quelle marxiane e come determinazione storica richiesta dalla nuova esperienza; e soprattutto di non averla elaborata pienamente, lasciandola quasi allo stato di nebulosa. Il che non pregiudica, ma si riflette talvolta dannosamente sui maggiori contributi del Capitale finanziario. D’altra parte, e questo va detto a giustificazione dello Hilferding, una teoria marxista della moneta in condizioni di Imperialismo è ancora allo stato di elaborazione e l’epoca dei tentativi “alla Hilferding” non è affatto superata.

Consideriamo ora l’interpretazione data dallo Hilferding ad uno dei presupposti essenziali dell’intera sua opera: la teoria marxiana del valore.

V.
La teoria del valore, una delle basi metodologiche delle teorie dello Hilferding, ha avuto la minor considerazione possibile da parte degli studiosi del Capitale finanziario.

Non crediamo d’altra parte sia stato mai osservato come lo Hilferding, che pure si differenzia quasi totalmente, per il complesso delle sue dottrine, da Edoardo Bernstein, accetti, più o meno letteralmente, la teoria marxiana del valore in tale massima interpretazione revisionistica. Le conseguenze di questa posizione teorica verranno ora brevemente messe in luce, dopo aver ricordato gli estremi delle tesi del Bernstein.

Il Bernstein come è noto. ritiene la teoria marxiana del valore-lavoro “una pura costruzione dello spirito”; “un fatto puramente soggettivo basato su un’astrazione”, “una chiave, un’immagine allo stesso modo dell’atomo”. Marx si sarebbe servito della legge del valore per “rendere sensibile, in un caso particolare da lui immaginato, il fenomeno sociale che gli stava a cuore, e cioè il fenomeno del sopravalore”. Bernstein non crede all’utilità della teoria del valore-lavoro, e perciò non si cura della sua verità o falsità: “la teoria del valore è d’altronde così poco una norma che permette di giudicare della giustizia o dell’ingiustizia della ripartizione dei prodotti del lavoro, come la teoria atomica non è valida per giudicare la bellezza di una statua”; “per dimostrare l’esistenza del sopralavoro è assolutamente indifferente che la teoria del valore di Marx sia vera o falsa. Da tale punto di vista, tale teoria non costituisce una dimostrazione, ma soltanto un modo di analisi e di rappresentazione”.

Bernstein, che seguiva già all’epoca delle Voraussetzungen … l’indirizzo psicologico marginalistico Gossen – Jevons – Böhm-Bawerk, oppone all’analisi marxiana e alla spiegazione scientifica del sopravalore, il fatto sociale bruto dell’iniqua ripartizione del reddito, illustrato da considerazioni statistiche e commentato da giudizi morali.

Inutile soffermarsi criticamente sul sostanziale ritorno del Bernstein, con tale rigetto della teoria marxiana del valore, al Socialismo utopistico; importa invece sottolineare come Hilferding, pur non dedicando molte considerazioni alla teoria del valore-lavoro, accetti sostanzialmente l’interpretazione del Bernstein, che venne poi detta, in un ammodernamento italiano, “per totalità di imprese”.

In ogni caso, l’accettazione di tale teoria del valore “per totalità di imprese” impedisce ad Hilferding:
– a) di possedere ed utilizzare un dimostrato concetto di plus-valore; onde la sua incertezza nel definire esattamente la stessa categoria dello “Utile di fondazione” nei confronti delle altre del plusvalore, del profitto e dell’interesse (v. per lo sviluppo di questo punto il par.VIII di questa stessa Introduzione [qui cap.6]);
– b) di sviscerare i problemi strutturali, della produzione che Hilferding prospetta “in blocco” per “totalità di imprese”, e non nei loro rapporti interni e negli specifici rapporti con quelli della ripartizione e della circolazione (visione questa che è consentita soltanto dalla teoria marxiana del valore-lavoro che permette di seguire gli scambi fra “industrie” ed “imprese” per singole merci);
– c) di applicare la teoria del valore-lavoro ad un’economia fortemente concentrata e monopolistica. Hilferding ritiene infatti che, a tali condizioni, la teoria marxiana del valore non sia valida;
– d) di impostare correttamente la sua teoria delle crisi, partendo dal fenomeno fondamentale della caduta tendenziale del saggio del profitto, che presuppone proprio la realizzazione della teoria del valore-lavoro (cfr. per questo punto il par.V).

Queste alcune delle conseguenze dell’errata interpretazione della teoria del valore-lavoro; altre risulteranno dall’esame delle tesi principali del Capitale finanziario. Consideriamo ora il nucleo centrale di queste tesi.

VI.
1. Già all’inizio della Introduzione alla sua opera, lo Hilferding distingue due caratteristiche del “nuovo Capitalismo”: a) formazione del capitale finanziario; b) venir meno della libera concorrenza sui mercati e sua sostituzione mediante diverse forme “monopolistiche”.

Ora, come si cercherà di dimostrare, il problema essenziale, per la validità della teoria dello Hilferding sul Capitale finanziario, concerne i rapporti fra tali due “caratteristiche”. Sono esse più o meno dipendenti oppure interdipendenti? o ancora, hanno in comune un elemento fondamentale attraverso il quale si trovano collegate da una speciale relazione di “interdipendenza”? In ogni caso, un’interpretazione moderna di Hilferding deve prospettare la posizione dell’autore del Capitale finanziario rispetto a tali possibili impostazioni del problema; e metterla a confronto con quella che sembra metodologicamente esatta. Prima però di tentare un’interpretazione del genere, riteniamo opportuno porre in luce il contributo dello Hilferding nei rispetti delle due “caratteristiche” del “nuovo Capitalismo” da lui rilevate; soprattutto riguardo alla formazione del “capitale finanziario” ché in materia di nuove forme strutturali dei mercati Hilferding sembra non distinguersi per un apporto originale se non per particolari aspetti della relativa teoria.

Come è noto, la teoria dello Hilferding sulla formazione e sulle funzioni del capitale finanziario è una felice sintesi di ricerche riguardanti due serie di fenomeni che andavano assumendo ai suoi tempi, specialmente in Germania e in Austria-Ungheria, il ruolo di “chiavi” per la trasformazione del mondo economico e per la comprensione della nuova “fase” del Capitalismo: lo sviluppo delle società per azioni e quello della Banca mista (di credito industriale alla tedesca).

I contributi specifici originali dello Hilferding, crediamo possano venire enunciati nei seguenti capi. Lo Hilferding:
– a) ha messo in evidenza, oltre agli stessi aspetti progressivi per lo sviluppo generale del Capitalismo, l’importanza decisiva assunta, agli effetti della “grande svolta” del sistema capitalistico, dall’evoluzione del mercato finanziario.
Dal punto di vista economico, laspetto più importante della struttura delle società per azioni, e cioè la scissione che esse consentono fra proprietà del capitale e direzione della produzione (nei termini dello Hilferding lo “affrancamento del capitalista industriale dalla funzione di imprenditore industriale”) poggia sull’esistenza di un esteso ed organizzato mercato finanziario che permette al capitalista monetario, in veste di azionista, di acquistare indipendenza dal destino particolare dell’impresa nella quale ha investito il suo denaro. Attraverso il mercato finanziario, le imprese capitalistiche sono finanziariamente collegate in una specie di “pool” generale del capitale; sono, per così dire “socializzate” in un’ideale impresa unica che darà lo spunto alle fantasie riformistiche del Kautsky, e dello stesso Hilferding, e cioè al miraggio di un possibile “Socialismo finanziario”. Comunque, lo Hilferding ha avuto nettamente il senso della decisiva importanza dell’estendersi delle funzioni del mercato finanziario e ha saputo assorbire la copiosa letteratura tecnica in materia e prospettare la situazione dominante della Banca e della Borsa come elementi fondamentali per lo sviluppo del “nuovo Capitalismo”;
– b) ha esattamente configurato una nuova categoria economica, che può essere considerata un indice segnaletico dell’emergente fase del Capitalismo: il Gründergewinn, l’utile di fondazione o guadagno o premio del fondatore o del promotore; ove il promotore appare come un fondatore di nuove forme di organizzazione giuridico-sociali (specialmente delle società per azioni) che, in tale veste, riesce a realizzare, un “premio” sui generis, speculando sulla differenza fra il profitto dell’impresa, che esso fonda, e il rendimento delle azioni in cui si investe il capitale raccolto;
– c) ha dato esatti lineamenti storici a tale figura del promotore rilevando come le grandi Banche commerciali, specialmente in Germania, siano state le prime a trattare la vendita di nuove azioni e ad assicurarsi una posizione di primaria importanza fra i fondatori e, pertanto, una posizione “chiave” nell’economia nazionale. Tale posizione predominante delle Banche viene messa in evidenza dal titolo stesso della opera dello Hilferding: ” … chiamiamo capitale finanziario quel capitale sotto forma di denaro che viene trasformato in capitale industriale“; “… una parte sempre crescente del capitale investito nell’industria è capitale finanziario, vale a dire capitale messo a disposizione delle Banche perché possa essere utilizzato dall’industria”;
– d) ha messo in luce come la separazione del singolo capitalista monetario dalla partecipazione al processo produttivo porti ad una progressiva centralizzazione del controllo del capitale.

Lo Hilferding svolge, sotto questo riguardo, ampiamente e profondamente i temi della “tecnica del controllo” e della “tecnica del finanziamento”, e cioè di tecniche realizzabili mediante l’impiego della forma societaria e tramite il capitale finanziario. Egli esamina “il controllo virtuale” che nelle società per azioni, viene esercitato sull’intero capitale finanziario dai proprietari di azioni che “posseggono da un terzo a un quarto del capitale e anche meno”; considera lo sviluppo delle “società a catena” ed il peso delle “unioni personali” fra le varie società e fra queste e le Banche; “unioni” in cui il capitale finanziario si “incarna” in persone fisiche.

In tale modo, e con tali teorie, lo Hilferding giunge alle soglie di quelle forme di più stretta unificazione strutturale (cartelli; trust; fusioni ecc.), che discute nella Sezione terza, pur senza dare, a nostro parere, un contributo rilevante alla dottrina marxista. Il che non toglie interesse alla trattazione e non esclude che determinati spunti o tesi non meritino di essere ancor oggi rilevati e discussi (v. alcune osservazioni al riguardo, al par.VIII).

2. Sottoponiamo ad un primo esame critico i singoli apporti dello Hilferding:

– a) Sottolineata la posizione di primo piano data dallo Hilferding allo sviluppo del mercato finanziario, esaminiamo la sua tesi sulla dinamica della struttura interna di tale mercato: “in periodo di capitale finanziario, con lo sviluppo delle grandi banche e con la loro crescente egemonia sull’industria, diminuisce di tanto l’importanza della Borsa valori a favore delle Banche stesse”.

Una vecchia tesi engelsiana appare qui rovesciata, o meglio, ripresa e sviluppata in una particolare direzione. Come è noto, lo Engels sottolineava che dopo il 1865, data di redazione del III libro del Capitale “erano intervenute modificazioni tali che assegnano oggi [1894] alla Borsa un’importanza accresciuta e sempre crescente e tendono progressivamente a concentrare nelle mani degli uomini di Borsa la totalità della produzione industriale e di quella agricola, tutto il traffico, i mezzi di comunicazione e le funzioni di scambio”. Per Engels, tale accentuazione dell’importanza della Borsa si sarebbe verificata dopo la crisi del 1866 e sarebbe progredita con la “graduale trasformazione dell’industria in imprese azionarie”.

Tale trasformazione avrebbe interessato anche le Banche e altri Istituti di credito in Inghilterra e in Germania. Ora, Hilferding, che ha certamente presente la nota dello Engels, inserisce nello schema engelsiano il rapporto egemonico Banca-industria, che limiterebbe la cerchia degli affari della Borsa-valori e scemerebbe quindi la sua importanza.

Se si segue la documentazione data nel Capitale finanziario e l’esperienza storica, la tesi dello Hilferding sembra rimanere valida soltanto se riferita a dati limiti di tempo e cioè a quelli in cui il dominio delle grandi Banche sull’industria è stato effettivo e prevalente. Poiché in epoca più recente, la Borsa ha ripreso relativamente la sua importanza e se non è ritornata alla situazione dominante, rilevata da Engels, ciò è dovuto ad una serie di fenomeni che hanno colpito sia la egemonia delle Banche che quella della Borsa, ma specialmente la posizione di leader delle prime: e cioè alla contrazione monopolistica del mercato finanziario e all’importanza del fenomeno dell’autofinanziamento (tali fenomeni ed altri, che invalidano oggi la tesi principale del Capitale finanziario verranno esaminati al par.VII).

Se la tesi dello Hilferding sul rapporto Banche-Borsa appare in via di crescente superamento, contraddittoria si dimostra la sua teoria sulle funzioni della speculazione che pure riveste tanta importanza nel complesso delle sue concezioni. Lo Hilferding insiste infatti tanto sulla necessità quanto sulla improduttività della speculazione, ma non ne pone in evidenza la reale natura. Egli sottolinea soltanto come gli interessi degli speculatori siano completamente diversi da quelli dei capitalisti produttori (industriali) ed anche da quelli dei capitalisti monetari. Il che mette in discussione la natura stessa e le funzioni della speculazione in un sistema di Capitalismo avanzato come quello che Hilferding prospetta.
Effettivamente, la speculazione, come altri rami dell’attività economica che gravitano sull’attività industriale, è improduttiva. Ma tale improduttività della speculazione, che è comune alle diverse fasi dello sviluppo capitalistico, assume un carattere specifico nello stadio “finanziario”; mentre Hilferding non sembra abbia chiaramente presenti, da un punto di vista marxista, né le caratteristiche generali né quelle specifiche e finanziarie della speculazione. Da un lato Hilferding rileva bensì, con felice espressione, come “il capitalista non crei una merce, bensì da una merce crei il profitto”, il che significa, che anche l’attività del capitalista produttore è essenzialmente “speculativa e finanziaria”; ma, da un altro lato, in Hilferding, la “speculazione” non emerge nella sua specificità “finanziaria”.

In realtà, lo spirito animatore del rapporto capitalistico, in tutta la lunga storia del Capitalismo (dalla fase usuraria a quella commerciale; da questa a quella industriale e tanto più a quella finanziaria) è l’impulso “speculativo” ad aumentare, nel minor tempo-spazio possibile, la differenza D – D’, nella trasformazione fondamentale espressa da D – M – D’. Sotto questo rispetto, Hilferding sembra non avere accolto pienamente la lezione di Marx. Il rapporto produzione-circolazione non è in Marx così semplice come si suole spesso credere, riecheggiando l’una o l’altra corrente revisionistica. Hilferding, che vede il processo di sviluppo capitalistico soprattutto dal punto di vista circolatorio-sovrastrutturale, non riesce a rappresentarsi chiaramente la dialettica reale della produzione e della speculazione, dalla quale sorge appunto il capitale finanziario.

Per Marx, proprio come vuole Hilferding, la speculazione non crea plusvalore ed è pertanto un fenomeno sterile, se pur necessario, e, in quanto tale, vive della produzione; ma è anche vero che la speculazione precede, come pura operazione finanziaria e, come fonte di puro lucro commerciale (profit upon alienation), la stessa produzione. Il capitale industriale è solo una specie del capitale, sia pure quella storicamente più importante, anche perché consente, in campo teoretico, la “rivelazione esatta” del plusprodotto e del plusvalore, attraverso il processo di produzione.

Annota Marx: “Il Capitale industriale è l’unico modo di essere del capitale in cui la sua funzione non sia soltanto l’appropriazione di plusvalore, rispettivamente di plusprodotto, ma contemporaneamente la sua creazione”. E lo stesso processo di produzione appare come un termine medio inevitabile, ad un certo stadio dello sviluppo capitalistico, per far denaro; un termine di cui il capitalista farebbe volentieri a meno. Rileva, a questo proposito, Marx stesso, con annotazione preziosa: “Il processo di produzione appare soltanto come un termine medio inevitabile, come un male necessario per far denaro. Ma tutte le Nazioni a produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una vertigine, nella quale vogliono far denaro senza la mediazione del processo di produzione”.

Per Marx, il capitalista trasformerebbe pertanto volentieri D (il denaro capitale iniziale) in D’ (il denaro capitale finale “fruttificato”) attraverso semplici e rapidi atti di scambio, senza sporcarsi le mani nel processo produttivo ed entrare direttamente in urto con la forza-lavoro sfruttata. Tale pulita operazione speculativo-finanziaria gli è peraltro preclusa dalle esigenze stesse della società che il “modo di produzione capitalistico” deve – sino ad una certa epoca della sua storia – far progredire. Ossia, in un certo momento storico, l’unica via pur sempre speculativa per “far denaro” appare quella della produzione: “Il modo capitalistico di produzione” non è arbitrario; esso è condannato a sviluppare la forza produttiva della società e, in certi limiti, il consumo. Il capitale commerciale è costretto a produrre e a diventare capitale industriale. Esso deve quindi aspirare all’industrializzazione del processo di produzione per quanto questo gli appaia un “male necessario”.

In pieno Capitalismo industriale si presenta però la sorprendente vertigine a far denaro senza la “mediazione del processo di produzione”. Una vertigine che prendeva periodicamente le nazioni capitalistiche al tempo di Marx, ma che è divenuta di poi – con spaventoso crescendo – la vertigine permanente dell’Imperialismo, non più Capitalismo progressivo, ma involutivo, che cerca di ridurre il “male necessario” della produzione, mediante lo sviluppo del capitale monopolistico e finanziario. In questa “anticipazione” di Marx, che è sintesi della sua sviluppata teoria del capitale-denaro e dei “tesori” come antecedenti necessari del ciclo del capitale-merce, vi è un elemento genuino di teoria da cui è sorto, al momento giusto, il concetto di “capitale finanziario” che domina il capitale industriale. Il fenomeno circolatorio, che in Marx era generalmente subordinato a quello produttivo-industriale, ma che manifestava pur sempre un’irrequietezza ed un desiderio di ritorno alle origini puramente “speculative”, è salito in primo piano in una posteriore fase del Capitalismo in degenerazione. In altri termini, la categoria generale “speculazione” che, come un filo rosso, corre attraverso tutti gli stadi dello sfruttamento capitalistico, viene da Marx determinata storicamente, sia pure in modo embrionale, per le ricorrenti “vertigini” dello stesso Capitalismo industriale. Per contro, Hilferding non ha scorto il rapporto dialettico fra la categoria generale e quella specifica, che ha pur sviluppato; sicché è rimasto legato idealmente a quest’ultima che non ha proiettato come estremo processo degenerativo, ma ha ritenuto addirittura capace di evoluzione riformistica.

In qual modo poi la categoria specifica abbia potuto salire in primo piano è questione di primaria importanza dal punto di vista storico-teoretico; e si cercherà di dimostrare che tale trasformazione di una parte del capitale industriale in capitale finanziario necessita di un termine medio, e cioè del capitale monopolistico, che lo Hilferding considera, ma non colloca, come fece Lenin, al giusto posto.

Continuiamo ora l’esame degli altri contributi rilevanti dello Hilferding:

b) Lo utile di fondazione, derivante dalla capitalizzazione della differenza fra profitto ed interesse conferito al capitale monetario raccolto, costituisce effettivamente una nuova categoria storico-economica e la documentazione raccolta dallo Hilferding al riguardo è esauriente. Come sono convincenti le sue osservazioni a proposito dell’incentivo che tale utile di fondazione costituisce per lo sviluppo delle forme societarie e per la centralizzazione del capitale. Come valida sembra entro certi limiti la tesi dell’accrescersi nel tempo, in senso assoluto e relativo, della grandezza dello stesso utile di fondazione;

c) anche il rilievo dato nel Capitale finanziario alla crescente importanza, e alle nuove funzioni delle società per azioni, costituisce un’originale contributo dello Hilferding.

A tale tesi si può obiettare, come è stato fatto, che, in sostanza, ripete la relativa teoria marxiana e che ha generalizzato indebitamente caratteristiche particolarmente tedesche della storia delle società per azioni.

La prima obiezione non è valida perché gli appunti di Marx, sui quali ritorneremo, non potevano darci una teoria moderna delle società per azioni. Anzi, come si cercherà di dimostrare, la concezione dello Hilferding pecca proprio perché non ha seguito la traccia della teoria marxiana del sistema creditizio di cui fa parte la teoria sulle società per azioni.

Per quanto riguarda la unilateralità nazionale, o limitazione all’esperienza della Germania della teoria dello Hilferding, non sembra che la via seguita nel Capitale finanziario sia metodologicamente errata. Per lo meno, non più errata di quanto non lo sia quella, perfettamente corretta, percorsa da Marx nello studiare l’evoluzione capitalistica dell’Inghilterra come tipo dell’evoluzione generale del Capitalismo.
Lo sviluppo delle società per azioni è stato naturalmente ineguale nei diversi Paesi capitalistici, ma soltanto in Germania, specialmente negli anni intorno alla grande depressione del 1870, le società per azioni si sono sviluppate in un modo particolare, e cioè attraverso il finanziamento delle grandi Banche (quindi nel periodo di formazione e affermazione del capitale finanziario). E lo Hilferding, che non mirava a darci una teoria generale delle società per azioni del Capitalismo, ma una teoria specifica e tipica di tali società in rapporto allo sviluppo del capitale finanziario, ha preso per modello lo sviluppo societario tedesco ed austro-ungarico.

In realtà, difficilmente lo Hilferding avrebbe potuto trovare un tipo di sviluppo delle società per azioni maggiormente rappresentativo, nei riguardi dei problemi proposti dal capitale finanziario, di quello che si offriva ai suoi occhi nella storia finanziaria della Germania e dellAustria-Ungheria, ove – vale la pena di ricordarlo – la società per azioni, strumento della politica statale, finanziatrice dello sviluppo industriale, aveva lontane e particolari tradizioni. Mentre in Inghilterra ed in Olanda, il sistema del monopolio concesso alle joint stock companies era stato proprio del Capitalismo commerciale, ed anche in Francia si era avuta una non tarda libertà di fondazione delle società, lo sviluppo nei Paesi di lingua tedesca era stato notevolmente più lento.

In Germania, nell’ambito della politica mercantilistica, lo Stato aveva una funzione attiva nel promuovere la fondazione delle società per azioni. Molto più tardi, prevalse ancora, nel campo del diritto societario, il principio che la fondazione di una società azionaria derivasse sempre da una concessione statale e tale concezione perdurò sino al 1870, quando si ebbe la piena libertà di associazione. Il che costituisce un’anticipazione formale del rapporto fra Stato e Capitalismo finanziario, che ha forse richiamato l’attenzione dello Hilferding. Come senza dubbio gli furono presenti le estese speculazioni finanziarie, compiute proprio nel campo delle società per azioni negli anni precedenti il 1870, che portarono al crack del 1873 ed, in ultima analisi, all’ulteriore legislazione tedesca del 1884 sulle società per azioni. D’altra parte, all’epoca della rivoluzione industriale, tali società si svilupparono particolarmente in Germania ed in Austria-Ungheria soprattutto per l’influenza dei vari rami della famiglia Rothschild ed in tal modo si ebbe un precoce caso di Capitalismo finanziario, promosso da un gruppo familiare, che doveva certamente impressionare l’ambiente scientifico tedesco.

In conclusione, lo sviluppo delle società per azioni nei Paesi di lingua tedesca, che lo Hilferding ebbe particolarmente presente, non costituì un caso singolo, ma gli offrì anzi l’occasione storica per delineare un tipo e teorizzare la forma societaria prevalente, che portava all’estensione e al consolidamento del capitale finanziario. Vedremo tuttavia come gli stessi presupposti della prassi tedesca, che diedero allo Hilferding felici spunti per la ricerca, gli impedirono di fissare i limiti storici della sua scoperta e di delineare le possibilità future del binomio grandi Banche – società per azioni (e cioè del capitale finanziario) in altri ambienti come negli Stati Uniti e nella Germania stessa negli anni posteriori alla sua opera.

d) Obiezioni analoghe a quelle che vogliono restringere limportanza dell’apporto dello Hilferding alla teoria delle società per azioni furono sollevate a proposito del ruolo assegnato nel Capitale finanziario alla grande Banca commerciale che passa dal credito commerciale a quello industriale. Come si è detto per la teoria delle società per azioni, si deve ripetere anche in questo caso che lo Hilferding ha dato esatto rilievo alla tipicità delle funzioni delle grandi Banche nel credito industriale, pur prendendo sostanzialmente come base l’attività di molte Banche commerciali in Germania e negli Stati Uniti. E similmente a quanto è avvenuto per la teoria delle società per azioni, Hilferding ha il difetto, in questo aspetto della sua ricerca, di aver irrigidito tale tipicità, sottraendola alla convalida della storia e chiudendola alla funzionalità stessa della teoria come apertura verso la vita politica.
Come che sia, lo Hilferding ha avuto il gran merito di immettere nella teoria marxista dello sviluppo capitalistico l’esperienza della banca tedesca promotrice e finanziatrice dell’industria (la cosiddetta Banca mista o omnibus).

In Germania le grandi Banche commerciali, agendo nella tradizione mercantilistica, acquistarono, come è noto, una posizione di dominio nel campo della negoziazione di nuove azioni e del finanziamento dell’industria. Negli Stati Uniti, furono invece i banchieri privati che trattarono per primi la vendita delle nuove azioni e svilupparono, in maniera distinta, il settore degli investimenti industriali da quello commerciale. Sempre negli Stati Uniti, in un più progredito stadio di sviluppo, furono le grandi banche commerciali a promuovere gli investimenti industriali, tramite le Securities applicates. In ogni caso, come nota P.M. Sweezy: nonostante alcune divergenze nelle linee di sviluppo, divergenze che vanno con ogni probabilità attribuite alle differenti limitazioni legali della libertà delle Banche commerciali, il risultato, sia in Germania che negli Stati Uniti, i due paesi che Hilferding prese a base delle sue generalizzazioni, fu essenzialmente il medesimo. I finanzieri ebbero la parte principale nella promozione e, per tal via, conseguirono una posizione molto importante e anche, per un certo tempo, predominante nella struttura della società.

A favore della tesi dello Hilferding si deve ancora aggiungere che la sua concezione offre un fertile spunto per una possibile teoria della differente e specifica influenza esercitata dal passaggio delle Banche commerciali dal credito commerciale a quello industriale in Paesi a diverso grado di sviluppo capitalistico. Quello che è avvenuto in Germania, in Austria-Ungheria e negli Stati Uniti, si è ripetuto, con differenze notevoli nelle forme di organizzazione e nell’epoca stessa della trasformazione, in Italia, nel Belgio ed anche in Francia. Più tardiva fu, come è noto, la trasformazione in Inghilterra, dove le Banche ordinarie, pur interessate nel mercato dei capitali sia per collocare le azioni da sottoscrivere che per acquisti di portafoglio, preferirono in genere dedicare la loro attività a finanziamenti di esercizio, a quelli commerciali e al commercio estero, lasciando il credito industriale alla Borsa e a Istituti di Credito specializzati.

Se si sviluppa la tesi dello Hilferding, si può pertanto mettere in evidenza proprio la tardiva evoluzione del capitale finanziario in Inghilterra, tipo per Marx dello sviluppo capitalistico; e per contro il suo precoce dilagare in Paesi relativamente sottosviluppati rispetto a tale tipo. Inutile sottolineare come tale particolare e precoce trasformazione della struttura bancaria nei Paesi capitalisticamente sottosviluppati costituisca un indice dell’addensarsi delle contraddizioni capitalistiche proprio in tali ultimi Paesi e sia compatibile con la teoria di Lenin sull’Imperialismo. Al contrario è notevole che lo stesso esame dell’evoluzione storica della Banca abbia condotto l’autore del Capitale finanziario e parte della social-democrazia tedesca verso posizioni di riformismo utopistico.

Dopo aver esaminato i singoli contributi dello Hilferding, dalla cui sintesi deriva la stessa teoria del capitale finanziario, consideriamo la relazione in cui si trovano i singoli apporti e cioè la teoria nel suo complesso.

3. Ritorniamo, con più approfondito esame critico, alle due caratteristiche del nuovo Capitalismo secondo Hilferding e cioè alla:
– a) sostituzione, su scala crescente, del vecchio sistema della libera concorrenza e del libero scambio con il nuovo sistema monopolistico della produzione e del commercio;
– b) trasformazione delle Banche da Istituti di credito commerciale in Istituti di finanziamento dell’industria.

Da questa sintetica tematica del Capitale finanziario, si potrebbe desumere che il monopolismo sia il fatto strutturale fondamentale che sta alla base della nuova fenomenologia. Al contrario, la struttura del Capitale finanziario è profondamente diversa da quello che potrebbe far credere lo attacco dell’opera. In primo piano, nello scritto dello Hilferding, si trovano le teorie e le considerazioni riguardanti le società per azioni e i finanziamenti industriali da parte delle grandi Banche (e cioè il fenomeno del capitale finanziario inteso in senso stretto); ed in un secondo – e quel che più importa – diverso piano si svolge la teoria del crescente monopolismo. Le due caratteristiche che abbiamo contrassegnato con a) e b) formano pertanto oggetto di considerazioni e teorie diverse non soltanto per profondità e sistematicità di trattazione, ma radicalmente diverse in quanto non collegate in una sintesi unificatrice.

Tale osservazione ci sembra pregiudiziale per l’interpretazione della tesi centrale dello Hilferding; basti dire che, come viene qui formulata, seppure non ancora dimostrata, non è che una riesposizione della celebre critica integratrice di Lenin alla definizione di capitale finanziario dello stesso Hilferding. Come è noto, Lenin scrisse a proposito della concezione di Hilferding sul capitale finanziario: Questa definizione è incompleta, in quanto vi manca l’accenno a uno dei fatti più importanti, cioè alla crescente concentrazione della produzione e del capitale in misura tale da condurre al monopolio. Con queste parole riconobbe l’apporto dello Hilferding alla teoria dei monopoli capitalistici (ma non già la fusione, non compiuta dallo Hilferding, di questa teoria con quella del capitale finanziario). Tuttavia, la funzione dei monopoli è, in generale, messa in rilievo in tutto il libro di Hilferding, e particolarmente nei due capitoli precedenti, a quello da cui è stata tratta la precedente definizione.

In realtà, l’esame di Hilferding dei fenomeni del monopolio si stacca da quello dei suoi modelli borghesi (soprattutto dal Liefmann, citato spesso anche da Lenin) soltanto per la messa in luce di particolari punti di vista genuinamente marxisti (cfr. la nota 154 al par.VIII); ma la genesi del fenomeno strutturale del rapidissimo processo di concentrazione della produzione e del capitale non è al centro dell’opera; e non si articola con la teoria del capitale finanziario (inteso in senso stretto) secondo un esatto rapporto dialettico. Il che risulta non soltanto dalla sostanziale integrazione ché ebbe a fare Lenin degli apporti di Hilferding, ma in modo, crediamo, molto persuasivo dall’esame delle differenti interpretazioni delle originali fonti marxiane ed engelsiane che tanto Hilferding che Lenin ebbero presenti.

Su tali fonti ci soffermeremo nel paragrafo che segue.

4. I testi di Marx e di Engels, di cui si vuole tentare un’interpretazione che, alla luce dell’esperienza e delle dottrine odierne, possa essere contrapposta a quella dello Hilferding e portata a convalida di quella di Lenin, sono assai noti. Qui verranno brevemente richiamati soltanto per introdurre alle considerazioni che seguono.

I passi cui ci riferiamo sono contenuti nel capitolo XXIII del I Libro del Capitale e riguardano il processo di concentrazione e di centralizzazione del capitale e la definizione e il ruolo del sistema creditizio; nei capitoli XIV e XXVII del Libro III; e nella nota apposta da Engels a questultimo capitolo.

Nell’ultimo paragrafo (VI: L’accrescimento del capitale azionario) del capitolo XIV del Libro III (Cause antagonistiche, intendi della legge della caduta tendenziale del saggio del profitto), Marx considera l’influenza dell’accrescimento del capitale azionario sul livellamento del saggio generale del profitto. Le osservazioni contenute in tale capitolo XIV vengono riprese in sintesi, ma organicamente inserite in un altro e più significativo contesto logico nel breve e fondamentale capitolo XXVII dello stesso Libro III (La funzione del credito nella produzione capitalistica), che riprende il paragrafo II del capitolo XXIII del Libro I, al quale faremo appunto riferimento. Non si dimentichi tuttavia, sin dall’inizio, che per Marx lo sviluppo delle società per azioni costituisce una causa antagonistica alla caduta tendenziale del saggio del profitto.
Il capitolo XXVII del Libro III è molto noto per i singoli argomenti che tratta: la natura e la funzione delle società per azioni; la natura e gli effetti del credito; i rapporti fra lo sviluppo del credito e le società per azioni; la natura delle associazioni cooperative operaie nel sistema capitalistico; i cenni sulla teoria creditizia delle crisi. Nelle osservazioni che seguono, non ci soffermeremo su nessuno di tali temi in particolare, ma cercheremo di individuare il filo logico che li unisce, così da costituire una trama che ci aiuterà a vedere criticamente – come in controluce – il complesso delle teorie dello Hilferding sul capitale finanziario.

a) Marx tratta in un unico contesto logico sia della natura e dello sviluppo del credito che della natura e delle funzioni delle società per azioni.

Egli raggruppa sotto quattro capi Le osservazioni generali sul credito ed elenca:
I. Formazione necessaria del credito, come mezzo per attuare il livellamento del saggio dei profitti. II. Riduzione dei costi di circolazione. III. Formazione di società per azioni. IV. Osservazioni sulla funzione del credito e le crisi.

La formazione delle società per azioni è considerata pertanto da Marx come l’emergenza di una speciale forma creditizia: vi è quindi un’assimilazione – per certe funzioni sostanziali – fra Banche, Istituti finanziari in genere e società per azioni. Ora, un’assimilazione del genere potrebbe, o non potrebbe, essere accolta con il sussidio di qualche ragionamento astratto; ma, quello che conta per la fecondità delle annotazioni marxiane è il significato particolare che Marx attribuisce al fenomeno credito e che dà concretezza logico-sperimentale alla sua unificazione.

Nel significato in cui Marx adopera il termine, il sistema creditizio deve essere inteso in senso lato, includendo non solo le Banche, ma anche gli organismi dell’intero mercato finanziario. Il sistema creditizio è organo della centralizzazione del capitale: all’inizio il sistema creditizio si introduce timidamente come modesto aiuto dell’accumulazione e attira con invisibili fili le risorse di denaro sparse nella società e che si trovano nelle mani di singoli capitalisti o di capitalisti associati. Ma ben presto esso diviene un’arma addizionale, e terribile nella lotta della concorrenza e da ultimo si trasforma in un immenso meccanismo sociale destinato a centralizzare i capitali. Nel contesto del capitolo XXVII del Libro III, il credito non appare pertanto con le sue tradizionali funzioni; ma nella sua intima essenza, chiaramente messa in evidenza dallo sviluppo critico del sistema capitalistico. Nella bilateralità dei due caratteri immanenti del credito viene messo in evidenza il lato negativo: esso sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di giuoco e di imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale. Il credito permette al singolo capitalista, o a colui che è tenuto in conto di capitalista, di disporre completamente, entro certi limiti, del capitale e della proprietà altrui e per conseguenza del lavoro altrui. Ciò facendo astrazione dalle società per azioni (e cioè a non volerle ancora considerare, perché già considerate da Marx nel precedente paragrafo IV).

Il credito appare quindi a Marx la forma generale con cui si può disporre della proprietà e del capitale altrui, lo immenso meccanismo sociale destinato a centralizzare i capitali. Tale disposizione può avvenire sia mediante la formazione di società per azioni (raccolta di capitale azionario) che attraverso lo sviluppo del sistema creditizio in senso stretto (raccolta di depositi), come con il credito commerciale all’ingrosso (disposizione di capitale altrui) nonché con il gioco di borsa (dove i piccoli pesci sono divorati dagli squali e le pecore dai lupi di borsa ).

Il credito, in tutte queste forme, viene visto da Marx come una possente leva di trasformazione della società capitalistica. Nelle sue scarne pagine viene messo in luce il nucleo di una visione critica che abbraccia forme giuridicamente e istituzionalmente diverse (banche, borse, società per azioni, ecc.) e le riprospetta come strumenti per disporre o, virtualmente, espropriare la proprietà del capitale altrui, ove la espropriazione si estende dai produttori diretti ai capitalisti piccoli e medi.

Tali strumenti di virtuale espropriazione sono maneggiati da uomini nuovi che si differenziano dai protagonisti dello sviluppo del Capitalismo classico. Entra in scena, per quanto riguarda le società per azioni, una nuova aristocrazia finanziaria; una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. É produzione privata senza il controllo della proprietà privata.
E per quanto riguarda il sistema creditizio come sistema di virtuale esproprio, si hanno pochi individui, e il credito attribuisce a questi pochi sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Gruppi di pochi che sfruttano la ricchezza sociale dominano sia le società per azioni che il sistema creditizio in genere ed espropriano virtualmente tanto i ceti non capitalistici quanto quelli capitalistici piccoli o medi.
Tale teoria di Marx sul credito naturalmente si trova in aspro contrasto con la teoria democratica delle società per azioni, che le considera strumenti di estensione, di frazionamento e di democratizzazione della proprietà; e non meno si oppone alla concezione della Banca come istituto di pura intermediazione che riceve depositi e concede prestiti e a quella della Borsa come teatro di sana e necessaria speculazione.

La teoria di Marx sta peraltro all’origine di alcune moderne concezioni, anche non ispirate al pensiero socialista, che hanno tuttavia accolto dati e insegnamenti dell’esperienza, se non (consapevolmente) quelli delle opere di Marx e dello Hilferding. Ci riferiamo alle moderne concezioni delle società per azioni come istituto in cui si verifica in ampie proporzioni la separazione fra proprietà e controllo; alla concezione della Banca come creatrice del credito e come Banca mista; e della Borsa come luogo di speculazione finanziaria, in gran parte superfetazione della stessa produzione capitalistica.

b) Marx rileva che, con la formazione delle società per azioni, si ha la trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitali altrui; e dei proprietari di capitali in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti, onde l’assurgere in primo piano di una sottocategoria del plusvalore, l’interesse sotto forma di dividendo. Si ha così un’accentuata estraniazione dei rentiers rispetto ai produttori effettivi, ossia il loro contrapporsi, come proprietà altrui, a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero.

c) Lo sviluppo del credito, come potenziale eliminazione della proprietà del capitale, riduce all’assurdo certe frasi fatte, come quella che fa derivare il capitale dal risparmio, perché ciò che lo speculatore pretende è proprio che altri risparmino per lui.

d) Il credito appare la leva principale della sovraproduzione e della sovraspeculazione del commercio e ciò avviene soltanto perché il processo di produzione che per sua natura è elastico, viene qui spinto all’estremo limite, e vi viene spinto proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegato da quelli che non ne sono proprietari, i quali quindi agiscono in tutt’altra maniera dai proprietari, i quali, quando operano personalmente, hanno paura di superare i limiti del proprio capitale privato.

Il che implica in Marx una teoria del ruolo del credito nella crisi non già una teoria creditizia della crisi. Per contro, come il lettore vedrà, Hilferding dà molto peso alla spiegazione creditizia della crisi.

e) Infine, ancora questa osservazione importante dal punto di vista economico: poiché il profitto si presenta qui esclusivamente sotto forma di interesse, tali imprese sono possibili anche quando esse dànno il puro e semplice interesse; e questa è una delle cause che si oppongono alla caduta del saggio generale del profitto, poiché queste imprese in cui il capitale costante è in proporzioni così enormi rispetto al capitale variabile, non incidono necessariamente sul livello del saggio generale del profitto.

Con tale osservazione, Marx si ricollega al paragrafo del capitolo XIV del Libro III, cui abbiamo fatto riferimento, e pone implicitamente un altro problema: quale trasformazione strutturale del mercato viene presupposta dall’azione antagonistica del capitale azionario nei confronti della caduta tendenziale del saggio generale del profitto?

La nota di Engels al capitolo XXVII del Libro III, cui abbiamo pure accennato, facilita la soluzione di tale problema. Per necessità di documentazione la riassumeremo brevemente.

É noto che Marx accennava alla società per azioni come al massimo sviluppo della produzione capitalistica.

Nella sua nota Engels discute di nuove forme di organizzazione industriale, che rappresentano le società per azioni alla seconda e alla terza potenza ; e cioè dei cartelli regolatori della produzione nazionale ed internazionale (la seconda potenza); e della concentrazione dell’intera produzione di un settore in una grande società a direzione unica, cui Engels si riferisce come trust (la terza potenza).

Tali osservazioni di Engels hanno importanza non soltanto in quanto le nuove forme di organizzazione industriale si sono sviluppate dopo che Marx scrisse, ma perché integrano quanto Marx riuscì ad osservare: mettono cioè in evidenza forme essenziali di concentrazione industriale a base monopolistica rivelando, per continuità, la stessa natura, potenzialmente, e talvolta effettivamente, monopolistica delle società per azioni, che anziché servire il mercato, lo dominano in maniera più o meno ampia. La continuità fra la prima, la seconda e la terza potenza delle società per azioni non è data comunque per Engels dalla particolare forma giuridico-istituzionale assunta dalle diverse forme emergenti di organizzazione industriale. Non è infatti necessario, in teoria, che un cartello, o un trust o un konzern assumano la forma di società per azioni. In realtà, essi possono venire organizzati nel modo più diverso; quello che contraddistingue sostanzialmente le diverse forme di organizzazione industriale è il grado di concentrazione della produzione e dello smercio, e pertanto il crescente grado di monopolismo.

La teoria di Marx sul credito, svolta nel III Libro del Capitale, sfocia quindi, attraverso la nota di Engels, nella teoria della concentrazione o della centralizzazione industriale e si collega idealmente alle osservazioni che Marx stesso fece altrove allo stesso proposito.
Inoltre, il dilagare del capitale azionario, e con questo della forma mistica del plusvalore, l’interesse, costituisce per Marx una causa che si oppone alla caduta tendenziale del saggio del profitto. Ci si può chiedere, a questo punto, per quale specifica ragione il sorgere delle società per azioni si opponga alla caduta tendenziale di tale saggio. Crediamo che la risposta, implicita nelle citate osservazioni di Marx, sia la seguente: ciò accade perché viene meno la concorrenza fra tali imprese in cui il capitale costante è in proporzioni così enormi rispetto al capitale variabile e le altre imprese individuali meno concentrate. Che cosa impedirebbe altrimenti, e cioè in caso di libera concorrenza, alle società per azioni di incidere maggiormente sul livello del saggio generale del profitto? Con l’insorgere ed il dilagare delle società per azioni, si ha quello spezzettamento del saggio generale del profitto in saggi particolari non concorrenti, che è caratteristico dei mercati a struttura monopolistica. Tale osservazione mette a nudo tutta una serie di fenomeni (società per azioni; concentrazione industriale; sistema creditizio concentrato; sviluppo della sottocategoria interesse; ecc.) che si intrecciano nel comune centro nodale del credito e nel suo fondamento, e cioè nella struttura monopolistica assunta dal sistema capitalistico.
A tale fondamento si riferiva Lenin quando osservava, a proposito dell’espressione usata da Hilferding per definire il capitale finanziario: manca l’accenno ad uno dei fatti più importanti, cioè alla crescente concentrazione della produzione e del capitale in misura tale da condurre al monopolio ; e sostituiva tale espressione con la seguente: concentrazione della produzione e conseguenti monopoli; fusione e simbiosi delle Banche con l’industria; in ciò si compendia la storia della formazione del capitale finanziario e il contenuto del relativo concetto.
Ora, tanto Hilferding quanto Lenin avevano presenti le anticipazioni di Marx e di Engels a proposito della nuova fenomenologia. Tuttavia da un lato abbiamo avuto una conclusione retta, per quanto un pò apodittica (né Lenin poteva fare altrimenti nel saggio popolare L’imperialismo…); mentre, Hilferding ci ha lasciato un’utilizzazione delle anticipazioni marxiane, nei confronti della nuova esperienza, che ci appare oggi ricca di apporti di fatto, ma difettosa nella sistemazione. Di tale utilizzazione conviene ancora trattare.

5. Anzitutto, la ricostruzione, che abbiamo tentato di delineare, dell’apporto di Marx, e delle integrazioni di Engels, alla teoria del credito, non vuole affatto significare che la teoria del capitale finanziario propria dello Hilferding sia una semplice parafrasi di Marx e di Engels. Al contrario, tale ricostruzione cerca di mettere in luce i genuini contributi dello Hilferding ed, in pari tempo, la sua difettosa impostazione metodologica. D’altra parte, gli aspetti teorici per cui Hilferding si differenzia dalle anticipazioni di Marx e di Engels sono facilmente rilevabili.

Una prima differenza della trattazione dello Hilferding, nei confronti degli schemi marxiani, può essere tratteggiata nel modo seguente: Marx ed Engels hanno dato la legge generale del credito che è comune tanto alle società per azioni (e alle maggiori combinazioni industriali) quanto al sistema creditizio in senso stretto (al di là, naturalmente, delle differenze giuridico-organizzative e istituzionali). Hilferding, che ha tratto il frutto della ricca esperienza tedesca ed americana degli anni 1890-1910, ci ha lasciato uno schema teorico particolare sulle società per azioni (per quanto valido per tutto lo sviluppo capitalistico) ed una pur valida teoria sulla trasformazione della Banca di credito ordinario in Banca mista; inoltre un tentativo unidirezionale (la Banca domina l’industria) di collegamento fra i due fenomeni (e cioè la sua concezione del capitale finanziario). Infine, ci ha offerto un’altra teoria, non sistematicamente collegata con le precedenti, delle coalizioni monopolistiche. In ogni caso, Hilferding ha colto sul vivo i rispettivi nuovi aspetti giuridico-istituzionali e storico-economici delle società per azioni e delle Banche di Credito industriale. In questa direzione di lavoro, egli ha registrato talora progressi decisivi e messo in luce nuovi aspetti fattuali, definitivamente acquisiti dalla scienza economica marxista. Di questi progressi il lettore troverà copia di esempi nel testo stesso dello Hilferding; qui basti ricordare ancora, per due motivi, la sua approfondita sistematica ricerca sulla tecnica del controllo da parte dei maggiori sui minori capitalisti.

Un primo motivo: l’originalità rispetto alla trattazione marx-engelsiana. Secondo Marx ed Engels si ha ancora la lotta del grande imprenditore-capitalista contro i capitalisti piccoli e medi; mentre in Hilferding tale semplice gerarchia si complica attraverso il mondo delle partecipazioni, delle società a catena et similia, sicché il dominio imprenditoriale-capitalistico si allarga e si affina. Non si è più soltanto di fronte al piccolo azionista cui rimane la proprietà nominale del capitale, ma anche al grande capitalista (dominatore dei piccoli e dei medi capitalisti), a sua volta succube delle superiori gerarchie finanziarie.

Un secondo motivo che caratterizza l’importanza dell’apporto dello Hilferding è di natura critica. Ancor oggi non è raro che la concentrazione industriale venga studiata sulla base di puri indici statistici, astraendo da tutto quel complesso di legami giuridico-istituzionali, che sono caratteristici nel mondo del capitale finanziario. Ed anche contro questa tendenza le pagine dello Hilferding rimangono esemplari.

Tuttavia, se il merito di Hilferding in questo e in altri campi della ricerca scientifica è innegabile, rimane sempre il difetto capitale di sistemazione metodologica sul quale non è inutile insistere. Lo Hilferding non vede quei lati comuni alle funzioni delle società per azioni e alle funzioni delle Banche, che in Marx vengono compresi e chiariti sotto la categoria del credito. Esaminiamoli ancora, sempre nei confronti della trattazione dello Hilferding, allo scopo di dar loro un particolare rilievo.

Per quanto riguarda le società per azioni, il punto di vista marxiano (che formalmente corrisponde a quello dello Hilferding) si oppone alla tradizionale teoria in materia. Secondo tale teoria, le società per azioni sarebbero organi democratici di raccolta del risparmio, resi necessari dal gigantesco fabbisogno dello sviluppo industriale moderno (al tempo di Marx, per es., dalle costruzioni ferroviarie). Mentre secondo la concezione marxiana le società per azioni sono strumento di concentrazione del capitale privato e della sua trasformazione in capitale sociale (allo scopo di far fronte ad un ampliamento enorme della scala della produzione e delle imprese quale non sarebbe stato possibile con capitali individuali). Tale trasformazione del capitale si compie parallelamente alla trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui; e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari.

Tale concezione marxiana prospetta le società per azioni come strumenti di concentrazione di capitali, sia di grandi che di medi e piccoli capitalisti e anche di risparmio di ceti non capitalistici. Per contro non si trovano in Marx, né si potevano trovare, alcune caratteristiche fondamentali di tale raccolta, che Hilferding, con la sua esperienza cruciale del 1890-1910 ebbe il merito di rilevare.

Per Marx il capitalista realmente operante appare un semplice dirigente, amministratore del capitale altrui e tale direzione ed amministrazione potrebbe anche essere intesa in quel senso democratico su cui insiste la teoria tradizionale. Ed anche per questo aspetto della struttura delle società per azioni, fu merito dello Hilferding dimostrar come tale direzione e amministrazione democratiche siano un mito e la realtà sia la centralizzazione autocratica del controllo sul capitale. Come si è rilevato, seguendo le annotazioni dello Hilferding, la proporzione di maggioranza delle azioni per il controllo del capitale (da un terzo a un quarto del capitale e anche meno) consente al grande capitalista, o ai grandi capitalisti, la possibilità di controllare un capitale che supera di parecchie volte quello di cui si ha proprietà. Su questo principio si sviluppano le società a catena, per cui parte del capitale di una società-madre può essere usato per acquistare il controllo su società-figlie e il capitale di queste ultime, a sua volta, può venire impiegato per acquistare il controllo di altre società.

Da tale tesi della centralizzazione autocratica, che si attua nelle società per azioni e che può estendersi, in ordine di grandezza, alle gigantesche combinazioni organizzate in forma azionaria, discende un corollario che potremmo chiamare del forzamento o coazione della utilizzazione del capitale o del risparmio.

Tale termine viene qui usato in analogia alle moderne teorie del risparmio forzato, che considerano tanto il risparmio ottenuto mediante l’inflazione del credito o della moneta legale quanto quello prelevato attraverso lo strumento dell’imposizione fiscale. In questi casi, quegli operatori che rimangono indietro nella corsa prezzi-redditi risparmiano forzatamente a favore di altri operatori o meglio meno consumano (sicché più che di risparmio si dovrebbe parlare di non consumo forzato). Comunque, su tale meccanismo del forzamento del risparmio è fondata la intenzionalità (più o meno consapevole per il sistema sociale) dell’inflazione che, attraverso tale tecnica, sostituisce la ripartizione diretta o fisica dei beni.
Ora, nel caso delle forme societarie a direzione autocratica non si ha sempre originariamente un forzamento nella raccolta del capitale o del risparmio, ma semplicemente nella sua utilizzazione, sottratta al controllo e alle decisioni della maggioranza degli azionisti che, in virtù della sviluppata tecnica del controllo viene di fatto a pesare nelle assemblee come se fosse una minoranza. Inoltre, con il sistema delle società a catena, il capitalista viene, per così dire, fagocitato da una impresa all’altra e pertanto forzato sia nella destinazione che nella concreta utilizzazione del suo capitale. Può così avvenire che l’azionista succubo di un’azienda dolciaria si trovi ad essere forzato a contribuire allo sviluppo di un’impresa di cementi e trascinato a seguire i programmi e le vicende di quest’ultima; e viceversa. E chiaro che sino a questo punto Hilferding ha posto le premesse per un’ulteriore approfondimento o concretazione della teoria marxiana del credito come disposizione del capitale altrui. Occorre fare un passo avanti e cogliere la identità funzionale, attraverso le differenze formali e strutturali delle combinazioni a base azionaria da un lato e degli istituti di credito che passano dal credito commerciale a quello industriale, da un altro lato. Tale esame consentirà di trarre una prima conclusione sulla teoria dello Hilferding del capitale finanziario; di ritornare al fondamento stesso della teoria del credito di Marx e dell’interpretazione di Lenin del concetto di capitale finanziario; di giungere quindi a conclusioni più stringenti sulle teorie dello Hilferding sin qui discusse.

6. Abbiamo già messo in evidenza il carattere rappresentativo che la Banca mista riveste nell’opera dello Hilferding. Dobbiamo ora dare risalto a quella caratteristica funzionale che la Banca mista ha in comune con la società per azioni, e cioè al carattere di centralizzazione autocratica del capitale.

Anzitutto, le Banche miste sono costituite, nel maggior numero dei casi, sotto forma di società per azioni e, come tali, già partecipano alla tendenza centralizzatrice e alla coazione della utilizzazione del capitale. In secondo luogo, tali Banche, come le Banche in genere, sono state soggette e sono soggette ad un processo di concentrazione non dissimile da quello che si è avuto in campo industriale. Anzi, il processo di concentrazione bancaria ha portato, anche nei paesi capitalisticamente meno evoluti, a forme di concentrazione in campo finanziario un tempo caratteristiche dei paesi più sviluppati, quali le holdings e gli investment trusts. Infine, il fatto stesso che delle Banche commerciali siano diventate Istituti di credito industriale ha loro consentito di mettere in opera, nel modo più evidente, quella utilizzazione coatta dei depositi, che è propria di queste operazioni e che, per gli eccessivi immobilizzi, si è spesso risolta in grandi crisi bancarie ed in conseguenti salvataggi da parte dello Stato (basti ricordare loccasione in cui, in Italia, sono sorti lImi e lIri; e la crisi bancaria tedesca, che ha accompagnato la grande depressione mondiale, e dalla quale si è usciti mediante la creazione di Istituti di smobilizzo quali la Finag, la Tilka e la Moka, nonché la specializzazione di Istituti sorti negli Usa con il Banking act del 1933).

In sintesi, la Banca di credito industriale alla tedesca, che Hilferding ebbe presente, è strumento di centralizzazione autocratica del capitale da un triplice punto di vista: come società per azioni; come Banca in genere, e quindi come Istituto già sottoposto alla concentrazione e alla centralizzazione; ed infine come Banca di credito industriale (che inoltre opera, entro certi limiti, sulla base di moneta bancaria da essa stessa creata).

Il breve esame compiuto delle società per azioni, da un lato, e delle Banche miste, da un altro lato, come strumenti della concentrazione autocratica del capitale, consente finalmente di rappresentare il rapporto società per azioni – Banche miste (da cui sorge il capitale finanziario) in una prospettiva diversa da quella rilevata dallo Hilferding.

La società per azioni – sia essa forma giuridica di un’azienda industriale o di un’azienda bancaria – è soltanto una delle forme generali in cui si attua la concentrazione autocratica del capitale. Pertanto, in astratto, la concentrazione operata da una Banca mista, costituita sotto forma di società per azioni, e che finanzi l’industria – e fondi società per azioni industriali – è già implicita nella concentrazione generale messa in opera dalle società azionarie. Mentre, secondo la tesi dello Hilferding, il moto avrebbe inizio dalla banca che finanzierebbe e dominerebbe l’industria.

Ci troviamo così di fronte ad uno dei punti più delicati della teoria dello Hilferding; e, per cominciare a chiarirlo, diciamo subito che i nostri rilievi critici non vogliono portare ad un rovesciamento in assoluto della teoria dello Hilferding, che, per un determinato periodo storico, ha solide basi e ha costituito il tipo per una valida sistemazione teorica. Tali rilievi vogliono soltanto proporre uno schema più ampio per mettere in evidenza due aspetti storici della forma generale della concentrazione autocratica del capitale (comune alle società per azioni e alle Banche miste) e cioè:
– a) il fondamento di tale concentrazione che traspare già nel III Libro del Capitale; che non è presente, come tale, in Hilferding; ed è esplicito in Lenin.
Tale fondamento generale è dato dalla trasformazione strutturale del capitale concorrenziale in capitale monopolistico, che rende possibile la concentrazione autocratica. Porre in tale modo il problema equivale, d’altra parte, a porre in questione il rapporto fra capitale finanziario e capitale monopolistico (e a tale problema dedicheremo il paragrafo VIII,2);
– b) la possibilità che il rapporto egemonico Banca mista – società per azioni non sia sempre storicamente operante ed anzi possa venir meno (e tale crediamo risulti dall’esperienza storico-dottrinale più recente, molto posteriore all’opera dello Hilferding. Comunque all’esame di tale possibilità dedicheremo il paragrafo VII).

7. Come è risaputo, Marx completò i suoi scritti di natura economica prima che il movimento di trasformazione della struttura del capitale, da concorrenziale a monopolistico, fosse abbastanza avanzato da consentire una nuova sistemazione teorica dei massimi problemi della critica delleconomia politica.

Per questa ragione, abbiamo insistito sulla nota inserita nella trattazione marxiana delle società per azioni, ove Engels considera le società per azioni alla seconda e alla terza potenza (e cioè le nuove forme di coalizione industriale) e rileva: la tanto amata libertà di concorrenza ha raggiunto la sua fine ed è costretta ad annunciare il suo evidente fallimento.

Tuttavia, anche Marx mise in luce il processo per cui i singoli capitalisti accumulano in modo da aumentare la quantità di capitale sotto il rispettivo controllo, e chiamò tale processo concentrazione del capitale; e quello per cui si opera lunione di capitali già esistenti, che Marx chiamò centralizzazione del capitale.

Tali processi di concentrazione e di centralizzazione – separabili soltanto idealmente – che per Marx vengono messi in moto anche attraverso l’evoluzione del sistema creditizio (e quindi anche lo sviluppo delle società per azioni), raggiungono il loro fine quando, per la società nel suo complesso: l’intero capitale sociale si riunisce nelle mani di un solo capitalista o di una sola società, instaurando, secondo una nota aggiuntiva di Engels, praticamente un regime monopolistico. Ma gli stessi processi costituiscono soltanto l’aspetto manifesto delle forze che operano in profondo per la trasformazione del capitale concorrenziale in capitale monopolistico. Ora, tali forze, che modificano la struttura della produzione capitalistica, sono per Marx – ed è questo il punto rilevante – quelle che agiscono sull’aumento della composizione organica del capitale:
– a) in quanto il valore del capitale costante aumenta relativamente al valore del capitale variabile;
– b) in quanto aumenta la parte fissa del capitale costante (fabbricati, macchine, ecc.) rispetto a quella circolante (materie prime lavorate ed ausiliarie, ecc).

Crediamo si possa a questo punto sostenere, con legittima deduzione dalle premesse marxiane, che il capitale monopolistico si afferma su quello concorrenziale, premendo contemporaneamente nelle due direzioni su ricordate (a) e (b), come una reazione della base strutturale capitalistica alla caduta tendenziale del saggio generale del profitto.

Si deve tuttavia mettere in evidenza un apparente circolo vizioso che si cela in questo schema di spiegazione del sorgere di situazioni monopolistiche.

La caduta del saggio generale del profitto deriva, come è noto, dall’aumento della composizione organica del capitale; mentre, nello schema da noi seguito, l’allargamento di tale composizione seguirebbe, come una reazione, alla caduta dello stesso saggio generale del profitto. Ma è da notare che quel dato aumento della composizione organica del capitale, che viene a costituire la situazione monopolistica, è bensì una reazione alla caduta del saggio generale del profitto, ma una reazione unica come esperienza storica, in quanto contemporaneamente cambiano, da quel momento, gli stessi termini qualitativi o concettuali del problema, cambiando il corso storico dello sviluppo del Capitalismo.

L’aumento della composizione organica del capitale, nelle due direzioni indicate da Marx, avviene cioè mediante un processo irreversibile di concentrazione della produzione su date unità produttive singole, che in tal modo si differenziano dalle altre; e mediante l’abolizione della concorrenza e quindi delle categorie che le sono proprie. La trasformazione monopolistica si afferma così con l’abolizione stessa del saggio generale del profitto, e cioè con l’insorgere di saggi particolari non concorrenti, conseguenti allo spezzettamento monopolistico del mercato. Ora, proprio il venir meno del saggio generale del profitto (categoria concorrenziale) impedisce che si verifichi il circolo vizioso cui si accennava. In altri termini, ad un certo momento, il continuo aumento della composizione organica del capitale porta ad una tale diminuzione (tendenziale) del saggio generale del profitto che la struttura capitalistica reagisce con un salto, e cioè con un tale aumento della stessa composizione organica che, dalla concorrenza, si passa al monopolio. E da allora non si ha più un saggio generale del profitto.

Anche la teoria marxiana delle società per azioni può essere inquadrata, come caso particolare, in questo schema di sviluppo. L’affermarsi delle società per azioni costituisce originariamente una delle cause antagonistiche alla caduta del saggio generale del profitto (e cioè all’aumento continuo della composizione organica del capitale), ma con ciò esse partecipano alla centralizzazione del sistema creditizio ed acuiscono, in modo definitivo, nel campo delle forme societarie, la contrazione monopolistica del mercato (e si ha allora il salto nel monopolio). Lo stesso sorgere delle società per azioni contribuisce pertanto ad abolire il saggio generale del profitto e a sostituirlo con saggi particolari monopolistici.

Ma ritorniamo ai problemi dello Hilferding. Dopo quanto si è precisato sul fondamento della teoria marxiana della centralizzazione del sistema creditizio, si può osservare a proposito del rapporto Banche miste – industria, e cioè del rapporto che costituisce il capitale finanziario:
– a) che tanto la formazione di società per azioni (sotto forma di aziende industriali e bancarie) quanto l’affermarsi del finanziamento della Banca mista – forme entrambe del sistema creditizio – presuppongono la trasformazione in senso monopolistico della struttura produttiva.
Infatti, il dilagare delle società per azioni, sino a quelle società per azioni alla seconda e alla terza potenza, costituite per Engels dai cartelli e dai trusts, non rappresenta se non l’affermarsi di nuove forme giuridico-istituzionali che esprimono il crescente monopolismo di base. E questo vale, naturalmente, sia per la società per azioni che dà vita ad un’azienda industriale che per quella da cui sorge un’azienda bancaria.
Inoltre, l’attività della Banca mista, e cioè il trapianto del credito industriale sul credito commerciale, presuppone un potere monopolistico da parte della Banca che le consenta di trasformare una massa di fondi monetari temporaneamente non utilizzati in capitale industriale; e presuppone, per il sorgere stesso dell’utile di fondazione, l’affermarsi di un prezzo di monopolio per l’uso del capitale (cfr. par.VIII);
– b) che Hilferding ha una visione piuttosto esteriore, giuridico-istituzionale, del sorgere delle nuove combinazioni industriali e bancarie; che egli non mette in luce il basilare processo di sviluppo monopolistico del capitale; che non rileva i motivi del suo insorgere come aumento della composizione organica del capitale, conseguente alla caduta del saggio generale del profitto; e, soprattutto, il fatto che tale sviluppo è fondamento comune all’affermarsi delle società per azioni (ripetiamo: nell’industria e nella Banca) e delle Banche miste. Onde la sua teoria generale del capitale finanziario, si presenta sostanzialmente come un determinato rapporto che va dalla Banca mista (dominante) all’industria (succuba);
– c) che per Hilferding il capitale finanziario sta soltanto in una relazione unilaterale con il processo di concentrazione della produzione: nel senso, cioè, che le banche promotrici esercitano una grande influenza sulle società per azioni, favorendo il monopolio (tale influenza potrebbe essere qualificata come un rapporto secondario).

In altri termini, lo Hilferding non mette in luce la struttura produttiva monopolistica come fondamento delle stesse banche promotrici (nonché delle società per azioni), e cioè quello che potrebbe chiamarsi il rapporto primario, che va dal capitale monopolistico al capitale finanziario. Egli si sofferma soltanto sul rapporto secondario che, partendo dalla banca, rafforza il monopolio. Ora, tale situazione monopolistica deve essere considerata già esistente.

In contrasto con questa presa di posizione unilaterale dello Hilferding sul binomio Banche-industria, quale può essere il rapporto generale, prospettabile secondo la teoria marxiana del credito?

In tale rapporto più generale, il termine basilare è il capitale monopolistico, che può restare tale o può diventare capitale finanziario, in senso hilferdinghiano. Se resta tale non assume quella forma di dipendenza, che viene posta dallo Hilferding. Se tale non resta, diviene capitale finanziario pur restando capitale monopolistico.

In sintesi, la concezione dello Hilferding sul capitale finanziario ci sembra costituire un’esatta teoria marxista soltanto in quanto sottolinea, come tipo teorico, la prevalenza del capitale finanziario per un dato periodo storico. In pari tempo, sembra, alla luce della esperienza odierna, aver posto i germi per una indebita generalizzazione e assolutizzazione del tipo capitale finanziario sì da far presumere che esso sia valido anche per l’avvenire. Tale generalizzazione è stata possibile – si ripete – in quanto Hilferding non sembra aver sviluppato nella giusta direzione le premesse marxiane riguardanti il sistema creditizio nel suo complesso. E sembra pure non aver percepito la possibilità di un rapporto diretto fra capitale monopolistico e capitale industriale, cioè una possibilità che era tale soltanto ai suoi tempi, ma che sembra divenuta realtà ai nostri giorni (cfr. par.VII).

A questo punto, è quasi inutile sottolineare che la retta messa a punto del difetto fondamentale dello Hilferding è stata quella di Lenin, che ha integrato nel modo marxisticamente più corretto la definizione di capitale finanziario. Tuttavia, l’esperienza storica, e cioè i tempi stessi di Lenin, non gli hanno consentito di trarre i frutti della sua feconda rettifica, e di constatare il relativo venir meno, con lo sviluppo dell’imperialismo monopolistico, della stessa prevalenza del capitale finanziario.

Tale ammodernamento della teoria dello Hilferding, che costituisce spesso un rovesciamento della originaria concezione, sarà prospettato nel paragrafo che segue.

VII.
1) Una valutazione complessiva dell’odierna validità del concetto di capitale finanziario dello Hilferding può muovere in parecchie direzioni. Può, cioè, interessare la persistente attualità di singoli apporti; o può direttamente e unicamente riferirsi alla teoria del capitale finanziario, intesa nel più ristretto o semplice significato di predominio finanziario delle Banche sull’industria. Nelle osservazioni che seguono, ci riferiremo principalmente a quest’ultima teoria, dopo aver dato un cenno sull’attualità dei singoli contributi rilevanti, e cioè, per così dire, dei termini stessi da cui scaturisce il rapporto capitale finanziario: la teoria delle società per azioni e quella sulle Banche di credito industriale.

2) Le analisi dello Hilferding sull’evoluzione, la struttura e il predominio finanziario delle società per azioni sono state confermate nel modo più esauriente dagli sviluppi posteriori alla data di pubblicazione del Capitale finanziario; basti qui accennare a qualche dato statistico e alla dottrina oggi dominante in materia.

Se le società per azioni, ai tempi dello Hilferding, dilagavano nel campo finanziario, si può dire l’abbiano oggi sommerso. Per riferirsi al paese capitalisticamente più importante, gli Stati Uniti, il grado di concentrazione di potere raggiunto dalle società per azioni può essere espresso, secondo una prima fonte, da poche cifre: verso il 1951, 115 società per azioni possedevano il 45% degli impianti industriali; e secondo un’altra fonte meno recente, poco più della metà della industria americana – la metà più importante – era direttamente in mano a non più di 200 società per azioni.

In ogni caso, il grado di dominio raggiunto negli Usa dalle società per azioni come grado di concentrazione della proprietà, è stato giustamente definito superiore ad ogni altro che ricordi la storia.

Il raggio d’azione di tali società va tuttavia molto al di là della semplice aritmetica delle cifre (ecco un aspetto della tecnica del controllo dello Hilferding!). Per esempio la General Motors controlla circa 3 miliardi di dollari di autorimesse e posti di rifornimento gestiti da cosiddetti piccoli uomini di affari indipendenti; ed il controllo arriva sino ai distributori di benzina. D’altra parte, ed è questo un sintomo importante del dominio delle forme azionarie, il potere della direzione delle società per azioni sulla massa degli azionisti si è esteso a tal punto che lo studio delle funzioni e della struttura delle società per azioni ha finito, nella dottrina americana più recente, di essere di competenza degli economisti ed è passato da questi ai politici e ai sociologhi e viene spesso condotto con i metodi propri di queste scienze. Da parte loro, alcuni storici dell’economia sono giunti a conclusioni del genere: il sistema capitalistico americano della metà del XX secolo si basa e si attua per mezzo dell’operato di un numero relativamente piccolo di società per azioni.

3) L’altro aspetto rilevante delle analisi dello Hilferding riguarda il finanziamento dell’industria da parte delle Banche commerciali; anzi, il fenomeno della Banca alla tedesca è quello che maggiormente ha colpito lo Hilferding ed ha profondamente influenzato le sue teorie (cfr. par.VI).
In generale, può dirsi che lo Hilferding sia vissuto in un periodo in cui lo slancio di trasformazione del Capitalismo concorrenziale in Capitalismo monopolistico era sostenuto dalla Banca alla tedesca e predominava appunto il capitale finanziario. Gli strumenti di sostegno dello sviluppo industriale si sono tuttavia profondamente modificati una prima volta dopo la crisi del 1929 e, ancora, dopo la seconda guerra mondiale. Con la grande depressione, si è registrata la fine del ciclo delle Banche commerciali come organi di finanziamento industriale; e la controversia sui rapporti fra le Banche e l’industria è entrata in una fase acuta proprio dopo il 1930 quando si è manifestato con evidenza che enormi masse di depositi erano state immobilizzate in prestiti industriali a lungo termine e non erano più disponibili per i depositanti. In quell’occasione, i sistemi bancari dei diversi Paesi furono più o meno riformati.

Si resero allora obbligatorie norme riguardanti i livelli di liquidità; si stabilirono termini massimi per la durata dei crediti; si fissarono percentuali per i rischi diretti assumibili da parte delle Banche; ma, soprattutto, si crearono Istituti specializzati per il credito industriale a lungo termine, che vennero a sostituire le Banche commerciali.

Le diverse riforme attuate nel mondo, e i salvataggi operati dallo Stato, spostarono, in ogni caso, i termini stessi del problema. Con la creazione di Istituti specializzati si diede una diversa base all’industria; e, con l’intervento salvatore dello Stato imperialista, si creò la presunzione (come afferma un Rapporto della Oece sul finanziamento dello sviluppo industriale in Europa) che le autorità interverrebbero senza ritardo se il pericolo sopravvenisse ancora; e che la loro azione sarebbe efficace. Tale presunzione appare tanto più fondata in quanto, in tutti i Paesi, gran parte dei depositi bancari è investita in titoli di Stato o in altri fondi pubblici. Ora, in caso di nuove crisi, le Banche liquiderebbero innanzitutto tale parte del loro portafoglio ed è naturale che i vari Governi non lascerebbero in difficoltà i sistemi bancari, ma interverrebbero come sono intervenuti per il passato.

Si potrebbe osservare, a questo punto, che le trasformazioni occorse non implicherebbero, nei termini dei problemi posti dallo Hilferding, che uno spostamento di accento dalla Sezione seconda del Capitale finanziario, che tratta dello sviluppo del capitale finanziario come affare privato, alla Sezione quinta che si occupa dell’intervento dello Stato imperialista. In altri termini, la teoria dello Hilferding coprirebbe già il caso. Ma le cose non stanno propriamente così. Con la grande crisi bancaria degli anni 30, le vecchie forme di predominio del capitale finanziario sono state profondamente scosse. Nuove forme di finanziamento dell’industria – prima fra tutte, l’autofinanziamento, nell’estensione che ha assunto di recente – hanno messo in forse l’antico dominio delle Banche sull’industria e riproposto all’attenzione degli studiosi la tesi centrale del Capitale finanziario.

4) Che il predominio del capitale finanziario abbia avuto carattere transitorio e che la sua sfera di prevalenza vada ristretta entro dati limiti, è stato sostenuto in Germania, sin dal 1929, da parte di Henryk Grossmann ; per quanto, in uno dei suoi ultimi scritti, del 1931, lo Hilferding sostenesse ancora i suoi antichi principî.

La dimostrazione più convincente di quanto fosse instabile il dominio delle grandi Banche sull’industria venne data comunque nella stessa Germania, ancor prima della grande crisi, dalle vicende dell’industria e della Banca nel primo dopoguerra.

L’industria tedesca uscì dal primo conflitto mondiale ricca di profitti di guerra; a tali disponibilità liquide si aggiunsero le indennità pagate dal Governo tedesco alle imprese che erano state espropriate dalla Francia in seguito all’annessione dell’Alsazia Lorena e la pletora di mezzi liquidi creati dalla inflazione. Fu quella l’epoca di maggior sviluppo dei Konzerne che non solo si sottrassero al dominio della Banca, ma cercarono di fare delle Banche un loro strumento.

La Banca domina l’industria e il commercio fino a quando questi hanno bisogno di essere finanziati; appena il bisogno cessa, l’industria ed il commercio tentano di dominare la Banca o per lo meno di rendersi indipendenti.

Questa osservazione di un tecnico della concentrazione bancaria, Nicola Tridente, trovò esatta dimostrazione nella Germania del 1921-1923. L’industria sovrabbondante di mezzi liquidi, non solo si alleggerì dei debiti verso le Banche, ma tentò di dare la scalata alle Banche stesse ed entrò in concorrenza con queste nel finanziamento delle diverse imprese industriali. Si pose allora ai Konzerne l’alternativa di impadronirsi di una Banca o di crearne nuove al loro servizio.

Per quanto riguarda la scalata alle Banche da parte dell’industria, basta ricordare la lotta fra la Hugo Stinnes Gmbh e la Aeg per il predominio sulla Handelsgesellschaft Bank; e quella fra la stessa Stinnes e la Diskontogesellschaft per la conquista del Barmer Bankverein. Quando non fu possibile dare la scalata alle vecchie Banche dominatrici, i Konzerne crearono delle Banche proprie: le Konzernbanken e le Fachbanken.
Tale movimento durò sino al 1923 quando l’invasione della Ruhr diede un grave colpo all’industria tedesca. Tuttavia, ci appare assai significativo per dimostrare la tesi che l’irrigidimento delle strutture monopolistiche del capitale industriale e la possibilità di ampio autofinanziamento – verificatisi appunto allora con lo straordinario sviluppo dei Konzerne – portino ad una sollecita rottura dell’involucro bancario-finanziario e, se non rovesciano del tutto, spezzano l’egemonia delle grandi Banche.
Comunque, nel 1923, con il processo di deflazione iniziatosi con l’introduzione del Rentenmark, si ebbe il crollo delle Konzernbanken e delle Fachbanken e le grandi Banche tedesche ritornarono a dominare la grande industria della Germania. Tale slancio durò tuttavia sino alla grande crisi mondiale che coincise con un’enorme crisi bancaria ed aperse l’èra dei salvataggi, che costarono enormemente allo Stato tedesco – e cioè alle masse più povere dei contribuenti tedeschi – ma lo portarono al controllo delle grandi Banche berlinesi, le quali persero l’antica autonomia e passarono la maggior parte del loro capitale ad Enti pubblici, soprattutto alla Golddiskontobank, sorta dalla holding del Reich: le Vereinigte Industrie Untermehmungen. La crisi delle Banche commerciali coincise con l’accrescimento di potere delle Banche pubbliche e con la creazione di Istituti specializzati di smobilizzo, ai quali abbiamo già accennato.

Con tale crisi cambiano i termini qualitativi del problema. Il rapporto di dominio delle grandi Banche sullindustria, che già era venuto meno nel periodo della grande inflazione, cessa ed al suo posto subentra quella simbiosi fra industria, Banca e Stato imperialistico, che il dominio nazista non fece che rafforzare. Né il dopoguerra segnò una ripresa della vecchia Banca egemonica.

Questi cenni valgono per la Germania e cioè per l’ambiente stesso di incubazione del capitale finanziario. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, riporteremo in sintesi le risultanze degli studi di P.M. Sweezy che ha – forse sulle tracce del Grossmann – sostenuto per primo, con ampia documentazione, la teoria della decadenza del potere finanziario delle grandi Banche sull’industria alla fine del processo delle grandi coalizioni. Il capitale bancario, – scrive Sweezy – che ha avuto il suo giorno di gloria, torna di nuovo ad una posizione sussidiaria rispetto al capitale industriale, ripristinando in tal modo il rapporto che esisteva prima del movimento di coalizione.

Il giorno di gloria del capitale finanziario si ebbe, negli Stati Uniti, all’epoca della costruzione delle ferrovie e cioè verso la seconda metà del secolo XIX. Non fu un caso – scrive Sweezy – che la gigantesca combinazione e l’intero elaborato meccanismo degli investimenti industriali da parte delle Banche si sviluppassero durante l’èra delle ferrovie e, conclude, dal 1890 al 1910, gli investimenti industriali furono il doppio di quelli attuati in tutta la nostra storia. E la maggior parte di questa attività industriale fu condotta sotto gli auspici del capitale finanziario che si era a lungo preparato per tali compiti nel campo degli investimenti ferroviari.

Lo investment banker, simboleggiato da J.P. Morgan il vecchio, fu, negli Stati Uniti, la figura dominante nella grande ondata di promozioni e di combinazioni che portarono alla crisi del 1907. Morgan finanziò gli investimenti bellici nel 1914-18; durante il boom del 1920-29, estese la sua attività nel promuovere fusioni e combinazioni in campi non ancora sfruttati quali le pubbliche utilità, le automobili, il settore alimentare e la distribuzione al minuto, senza per questo abbandonare gli antichi domini delle ferrovie e dell’industria pesante.

Sino a quando durò questo dominio del capitale finanziario, che convalida la tesi svolta, anche per gli Stati Uniti, dallo stesso Hilferding?
I nuovi fatti – osserva Sweezy – sui quali poggia il declino dellimportanza degli investment bankers negli Stati Uniti sono abbastanza conosciuti. Dopo il 1930, le nuove emissioni di titoli su larga scala e le fusioni di società sono state molto ristrette. Inoltre, la maggior parte delle nuove emissioni, il 57% in alcuni anni, è stata rivolta a rimpiazzare vecchie emissioni di titoli scaduti; e queste operazioni non sono tali da richiedere l’intermediazione “inventiva” delle grandi Banche. Infine, gran parte delle emissioni di nuovi titoli, che avrebbero potuto interessare i “fondatori”, non sono passate attraverso i tradizionali canali dei “banchieri investitori”, ma sono avvenute mediante collocamenti privati” e cioè collocate direttamente dall’Ente emittente presso un gruppo di investitori istituzionali, generalmente un gruppo di Compagnie di assicurazione sulla vita.

Il declino dell’attività dei fondatori ha avuto naturalmente i suoi riflessi sulla struttura degli investment bankers. Molti dei maggiori e più attivi istituti, sorti come sussidiari delle grandi Banche commerciali nel 1920-30, vennero sciolti quando il Banking Act del 1933 separò le Banche di deposito e sconto da quelle di investimento industriale. Sweezy cita, come il più significativo, l’esempio della stessa J.P. Morgan & Co., che di fronte al Banking Act del 1933, decise di abbandonare l’attività di investimento industriale. Un nuovo istituto, la Morgan Stanley Co., fu incaricato di tali investimenti, mentre la vecchia J.P. Morgan & Co. abbandonò il campo nel quale aveva acquistati fama e potere internazionali.
Quali le ragioni di fondo per il declino della Banca alla Hilferding? si chiede Sweezy.

Abbiamo già accennato al declino delle nuove emissioni e al rapido sviluppo degli investimenti presso Enti istituzionali. Esamineremo ora, seguendo la traccia di Sweezy, ma integrando con più recenti dati e con alcune osservazioni, due altre influenze causali di primo ordine: l’estendersi dell’attività dello Stato come surrogato di quella degli investment bankers; e il dilagare del fenomeno dell’autofinanziamento nei principali Paesi capitalistici.

Per quanto riguarda l’estendersi da parte dello Stato delle funzioni di investment bankers, ricorda Sweezy che esse si sono esplicate dapprima attraverso la Reconstruction Finance, e attraverso particolari Enti sorti con il nuovo Deal e – soprattutto – con i programmi di riarmo.

E veniamo all’autofinanziamento al quale Sweezy semplicemente accenna. Naturalmente l’estendersi di questo fenomeno, e cioè l’accrescersi di vaste disponibilità di risorse finanziarie interne, sintomo della trasformazione monopolistica del capitale, sottrae in parte l’industria alla dipendenza del mercato dei capitali e quindi all’eventuale dominio delle grandi Banche, spezzando il legame da cui sorge il capitale finanziario. Nelle note che seguono, ci limiteremo a dare un cenno delle conclusioni di fonti ufficiali sui rapporti fra autofinanziamento e trasformazione strutturale del mercato dei capitali; nonché ad offrire alcuni indici statistici che misurano l’ampiezza dellautofinanziamento in alcuni Paesi capitalistici di primaria importanza.

Il Rapporto dei consulenti americani incluso nella citata Relazione Oece, Le financement du développement industriel en Europe, conclude, per quanto riguarda l’importanza dell’autofinanziamento negli Stati Uniti: L’estendersi dell’autofinanziamento ha dimostrato con evidenza che l’efficienza del mercato dei capitali si è trovata ridotta. Per il complesso dei Paesi considerati (Austria, Belgio, Francia, Germania occidentale, Grecia, Italia, Norvegia, Svezia, Regno Unito), l’autofinanziamento: frena gli investimenti in capitali speculativi nella misura in cui diminuisce l’interesse per i nuovi investimenti in valori industriali.

Per quanto riguarda lentità dell’autofinanziamento nelle società degli Stati Uniti, risulta che:
– a) dal 1926 al 1929, i profitti reali non distribuiti hanno costituito una parte rilevante dei finanziamenti complessivi. L’autofinanziamento ha fornito il 38% dei fondi sociali nel 126; il 19% nel 1927; il 32% nel 1928 ed il 28% nel 1929;
– b) durante gli anni della grande crisi, e quelli immediatamente posteriori, lautofinanziamento assume valori negativi e nel 1937 è nullo. Nel 1938 riprende quota e tocca il 10 %;
– c) dal 1939 al 1947 l’autofinanziamento ha fornito più della metà del totale dei fondi sociali; negli anni 1948-50 ha toccato più del 60%.

Se si considera poi il caso della Germania occidentale, proprio negli anni di ripresa che ebbero inizio con la riforma monetaria del 1948, ecco i dati disponibili che ci danno lentità dei profitti non distribuiti destinati ad autofinanziamento: 1949: 25,4% degli utili lordi; 1950: 34,5%; 1951: 51,1%; 1952: 48,3%; 1953: 52,6%.

Si aggiunga che, secondo gli esperti tedeschi, che hanno collaborato al Rapporto della Oece, i livelli raggiunti dallautofinanziamento nell’industria tedesca sono indici di una situazione di debolezza cronica nel campo dei finanziamenti industriali delle Banche.

In conclusione, anche l’imponente fenomeno dellautofinanziamento costituisce una comprova della transitorietà della fase finanziaria del Capitalismo e del ritorno in primo piano del capitale industriale, monopolistico, in forme non bancarie alla Hilferding. Esso contribuisce a dar risalto all’erroneità della conclusione generalizzata di Hilferding in fatto di capitale finanziario; conclusione che risulta nel modo migliore dal seguente passo: Con lo sviluppo delle Banche, con le relazioni più strette fra Banche e industrie, aumenta la tendenza, da un lato verso l’eliminazione della concorrenza tra le Banche e dall’altro lato verso la concentrazione di tutto il capitale nella forma di capitale monetario e verso il raggiungimento di sbocchi produttivi solamente attraverso l’aiuto delle Banche. É chiaro che questa tendenza non mancherà di portare a una situazione nella quale l’intero capitale monetario sarà a disposizione di una banca o di un gruppo di banche. Questa “banca centrale” eserciterà quindi il controllo su tutta l’intera produzione sociale.

In poche pagine del Capitale finanziario come in quella citata, l’utopia della banca centrale, e cioè l’assoluto dominio del capitale bancario sull’industria, si salda in modo così evidente con le tendenze riformistiche dello Hilferding.

VIII.
Riteniamo di aver messo sufficientemente in evidenza la natura dell’errore basilare che ha consentito ad Hilferding di giungere alla profezia relativa alla Banca centrale: il non aver egli chiaramente percepito il carattere transitorio del dominio del capitale finanziario e, soprattutto, il suo carattere strumentale rispetto al capitale monopolistico.

Tale errore di impostazione si riflette, però, anche su altre teorie dello Hilferding: su quella stessa, che ha tuttavia un solido fondamento, dello utile di fondazione; e su quella, per contro debole e assai discussa, delle crisi.

1. Si dice comunemente che lo utile di fondazione è costituito dalla differenza capitalizzata fra profitti di impresa e rendimento azionario. E si rinvia alla teoria marxiana dello interesse (ripresa dallo Hilferding) come quota oscillante del plusvalore complessivo (o del profitto, se ci si riferisce all’intero capitale investito) sottointendendo che la base dell’utile di fondazione sia data dalla differenza fra il saggio del profitto ed il saggio dell’interesse cui si avvicinerebbe il saggio del dividendo concesso agli azionisti.

Abbiamo già rilevato come la documentazione data dallo Hilferding per comprovare l’esistenza dello utile di fondazione sembri esauriente per l’epoca in cui venne scritto il Capitale finanziario. Aggiungiamo che le più recenti ricerche empiriche non hanno fatto che confermarla. Rimane invece dubbia la solidità del legame che si è voluto istituire fra saggio del dividendo e saggio di interesse monetario (considerando quest’ultimo come limite tendenziale verso il quale oscillerebbe il saggio del dividendo). Sembra inoltre che, anche per il caso dello utile di fondazione, lo Hilferding non abbia messo in luce il fenomeno di base che ne consente il sorgere.

Esaminiamo brevemente questi tre punti:

– a) l’esistenza stessa dello utile di fondazione deriva dalla differenza fra tasso del profitto d’impresa e tasso del dividendo che compensa gli azionisti.

Ora, non soltanto una differenza del genere esiste (e questo è ovvio), ma essa è notevole e particolarmente accentuata nei periodi di espansione economica che sono favorevoli alle fondazioni, e quindi al sorgere dello utile di fondazione; come, d’altra parte, la stessa differenza si attenua o sparisce o diviene addirittura negativa negli anni di depressione (il che costituisce una comprova di fatto della teoria dello Hilferding, almeno negli anni di effettivo dominio del capitale finanziario).

Secondo fonti ufficiali americane e la rielaborazione di uno specialista in materia, S.P. Dobrovolsky, le rispettive serie che misurano il tasso di profitto delle grandi società americane e il tasso del dividendo, hanno messo in evidenza una differenza positiva considerevole, per un periodo che va dal 1919 al 1943 (includendo quindi anni di espansione ed anni di depressione).

Se si tiene poi separato conto dei periodi di espansione e di quelli di depressione, i dati sono maggiormente comprovanti. Le correlazioni calcolate sulla base delle serie relative al saggio del profitto e al saggio del dividendo ci consentono di concludere che, entro i limiti di tempo della ricerca (1919-1943), e sempre riferendosi al campione assunto per le grandi società americane, ad un tasso di profitto del 10% (sul valore dell’attivo netto), corrisponderebbe un tasso del dividendo del 5,49%; mentre per un saggio nullo di profitto, il saggio del dividendo toccherebbe il 3,49%;

– b) il secondo punto riguarda un aspetto specifico della politica dei dividendi delle grandi società dalla quale sorge l’utile di fondazione.

Si può infatti supporre che i dirigenti delle società per azioni fissino il tasso del dividendo in modo tale da assicurare ai fondi propri un tasso di rendimento molto vicino al tasso di interesse. Il che consentirebbe di parificare la condizione degli azionisti a quella degli altri capitalisti monetari.

Ora, alla luce della più recente esperienza (e cioè delle fonti succitate che vanno dal 1919 al 1943), un’ipotesi del genere appare infondata: non esiste quasi mai una correlazione fra tasso del dividendo e tasso d’interesse: il tasso dell’interesse non è stato il fattore determinante del dividendo.

– c) Rimane da considerare il terzo punto: il fenomeno di fondo, che consente sia l’insorgere dell’utile di fondazione che la dinamica del divario fra tasso del profitto e tasso del dividendo (divario che in un’epoca in cui non si ha più il dominio del capitale finanziario consente i fenomeni dell’autofinanziamento).

Come si spiega infatti il divario tra tasso del profitto e tasso del dividendo? O, meglio, un dato divario che, nei periodi di espansione capitalistica, si aggira sul 100 % del tasso del dividendo?

Come si è accennato su b) non si può spiegare la formazione del tasso del dividendo riportandolo alla formazione del tasso di interesse. Non rimane allora altra via che parlare genericamente del potere esercitato dai dirigenti delle società per azioni sui minori azionisti, potere che si manifesta, ai giorni nostri, in modo particolare con il fenomeno dello autofinanziamento. Ma di quale natura è tale potere? Una superficiale considerazione della struttura delle società per azioni può aprire la via ad una teoria del dominio dei tecnici o dei dirigenti industriali; e non mancano nell’opera dello Hilferding cenni che farebbero propendere per un’interpretazione del genere. La descrizione sostanziale del fenomeno che ci dà lo Hilferding stesso è però di altra natura e mette in evidenza un potere dei maggiori capitalisti esercitato (più o meno direttamente) sui capitalisti minori. Ora, che significato ha tale concentrazione di potere se non quello di mettere in evidenza un aspetto particolare del monopolio, e cioè della trasformazione in senso monopolistico della struttura economico-sociale?

In tale modo, anche procedendo in questa direzione, si giunge al comune fondamento dei fenomeni del capitale finanziario, che lo Hilferding non rende esplicito: cioè al capitale monopolistico.

2. Nelle discussioni sulla teoria marxiana delle crisi che si susseguono negli anni anteriori e nei successivi alla prima guerra mondiale, linterpretazione dello Hilferding occupa un posto di primo piano non tanto per la sua intrinseca validità, quanto per l’autorità che il suo autore esercita, specialmente negli ambienti della socialdemocrazia tedesca. Di tale interpretazione, daremo un cenno più per seguire in profondità, ed anche in questa diramazione, le conseguenze dell’errore fondamentale dello Hilferding che per illustrarla nel suo contesto e nelle sue implicazioni.

Può sembrare singolare – scrive P.M. Sweezy a proposito delle interpretazioni più o meno revisionistiche della teoria marxiana delle crisi – che molti esponenti del partito socialdemocratico tedesco parlassero della teoria che spiega le crisi come effetto della sproporzione della produzione, come della sola e unica teoria marxista. Aggiungiamo che l’altra teoria marxista, che veniva ignorata, è quella che spiega le crisi con la caduta tendenziale del saggio del profitto.

Lo Sweezy esamina le ragioni di tale fatto singolare e ne fa risalire la responsabilità alla diffusione in Germania della nota opera di Tugan Baranovsky sulla storia delle crisi commerciali in Inghilterra. Come è noto, Tugan respinge le due spiegazioni delle crisi che egli attribuiva a Marx: l’una che le faceva dipendere dalla caduta tendenziale del saggio del profitto e l’altra che le faceva risultare dal sottoconsumo delle masse. Tugan si liberò della prima spiegazione con una dimostrazione, diciamo, alla Croce avant la lettre, sostenendo che una crescente composizione organica del capitale non avrebbe prodotto un declino del saggio del profitto, come voleva Marx, ma un aumento del saggio stesso. E cercò di confutare la seconda spiegazione dandosi a dimostrare che non vi può essere alcuna sovraproduzione, qualunque sia il livello del consumo (o del sottoconsumo) sinché la produzione è proporzionata nei diversi settori dell’industria. Per far ciò, egli ricorse agli schemi di riproduzione utilizzati da Marx nel Libro II del Capitale.

Con tutto ciò Tugan, che non era un marxista di una qualche tendenza, non partecipava al movimento più o meno revisionistico del marxismo. Sweezy annota, a questo punto, molto giustamente: ciò che finalmente impresse il suggello dell’autenticità a questa nuova versione della teoria delle sproporzioni fu l’accettazione di essa, per lo meno nelle implicazioni positive, da parte di Hilferding, nella sua ben nota opera sul capitale finanziario.

Le osservazioni di Sweezy delineano molto bene la vicenda esteriore per cui Tugan venne consacrato ad opera di Hilferding negli ambienti scientifici della Socialdemocrazia tedesca; né d’altra parte, lo Sweezy intendeva dare un contributo specifico alla teoria dello Hilferding sulle crisi. É tuttavia possibile accennare a qualcuna delle teorie fondamentali del Capitale finanziario che hanno indotto Hilferding ad accettare le implicazioni positive della concezione di Tugan.

A chi ricordi l’insostenibile interpretazione della teoria marxiana de] valore dello Hilferding (cfr. par.V), non riuscirà difficile scorgere uno dei dati negativi comuni che ebbero il Tugan e lo stesso Hilferding e che condussero Hilferding ad una quasi sostanziale accettazione della teoria delle crisi del Tugan.

Non vogliamo entrare qui nel dibattito sulle attuali interpretazioni della teoria marxiana delle crisi, o meglio del ciclo capitalistico. Ci basti osservare che l’accettazione di tali teorie come crisi di realizzo – per cui sembra propendere lo stesso Sweezy – presuppone che le merci non vengano vendute al loro valore e non fa quindi perno sul loro valore-lavoro come su un necessario livello d’equilibrio. Livello che viene per contro considerato un assunto dall’altra tendenza interpretativa che ricollega il fenomeno delle crisi alla caduta tendenziale del saggio del profitto.

In tal caso, Tugan non si occupa specificamente di interpretare la teoria del valore; mentre Hilferding è stato, fra l’altro, indotto ad accettare sostanzialmente la spiegazione di Tugan in quanto, seguendo in ciò Bernstein, non presupponeva la teoria del valore-lavoro, intesa in senso marxiano classico. Ora, chi sta fermo alla teoria marxiana del valore per singole imprese ed industrie, è portato a seguire la via esplicativa, che a noi sembra quella feconda, e che fa capo alla caduta tendenziale del saggio del profitto; mentre chi abbandona tale teoria è indotto ad occuparsi del realizzo; e, pertanto, può anche accettare una variante delle spiegazioni del realizzo come quella di Tugan.

Le osservazioni che precedono non mirano soltanto a chiarire una delle vie attraverso le quali Hilferding può essere stato portato ad accettare la concezione di Tugan. Esse vogliono anche rilevare la fallacia della tendenza Tugan e non solo perché essa è decisamente antisottoconsumista ma perché – ed è in ciò che Hilferding accetta sostanzialmente Tugan – essa applica gli schemi generali di riproduzione del II Libro del Capitale ad un problema in cui l’applicazione può essere soltanto sussidiaria ed esplicativa. In altri termini, diremo che essa confonde la crisi di assestamento con il ciclo capitalistico.

D’altronde, gli strumenti per una critica del genere ci sono offerti dallo stesso Hilferding e riproposti da Lenin.

Hilferding asserisce ad un certo punto della sua opera, a proposito della teoria di Tugan: Tugan vede soltanto le forme economiche di produzione capitalistica e quindi trascura le condizioni naturali che sono comuni a ogni produzione, qualunque sia la loro forma storica; in questo modo, egli arriva alla ben strana nozione di una produzione che non ha niente altro in vista che la produzione, mentre il consumo appare soltanto un fastidioso accidente.

Ora, è vero che Tugan vede soltanto – almeno per quanto concerne la teoria delle crisi – le forme economiche specifiche di produzione capitalistica e quindi trascura le condizioni naturali che sono comuni ad ogni produzione; ma egli fa ciò non soltanto col concepire la produzione per la produzione bensì con il far scaturire la crisi dalle sproporzioni, individuate mediante gli schemi marxiani. In altri termini, per Tugan esiste soltanto una crisi di assestamento derivante da sproporzioni nei settori dell’industria. Ora, tale crisi di assestamento può essere comune ad ogni produzione, qualunque sia la sua forma storica. Può quindi presentarsi anche in un’economia collettivistica; ed in particolare, in un’economia concorrenziale come quella che Marx aveva presente, tenderebbe ad elidersi, con il riequilibrarsi, delle sproporzioni; e potrebbe essere anche riassestata con l’investimento dello Stato.

Tale possibilità dell’intervento dello Stato era d’altra parte insita nella stessa logica del revisionismo. Sweezy osserva giustamente che, se le cose stessero così: molto potrebbe essere fatto anche sotto il Capitalismo per eliminare le sproporzioni che sono la causa di molti ed inutili danni.

Per Tugan non esiste invece un ciclo capitalistico che, in realtà, è quello che va sviluppandosi nel contrasto fra eventi continuamente emergenti e la cui dinamica può essere simboleggiata dall’urto fra la caduta tendenziale del saggio del profitto e le cause ad essa antagonistiche (salvo, naturalmente, ad individuare i fenomeni di base che spiegano tale urto).

Nel caso del ciclo capitalistico, in ogni modo, gli schemi di riproduzione possono agevolare una spiegazione soltanto ex post, come ebbe a chiarire Lenin, criticando proprio Tugan: gli schemi non possono dimostrare niente; essi possono soltanto illustrare un processo, quando i suoi separati elementi sono stati chiariti teoricamente.

In conclusione, per quanto sviluppata, elaborata e raffinata possa apparire la teoria delle crisi dello Hilferding rispetto a quella rozza ed ingenua di Tugan, essa non se ne distacca per il suo nucleo essenziale e tanto meno per le sue ultime conseguenze. E queste forse interessano maggiormente che non la teoria stessa delle sproporzioni.

Lo Hilferding vede il sistema capitalistico – in fase di Capitalismo finanziario – come un sistema enormemente sviluppato, soggetto a forti squilibri o sproporzioni, indotti spesso dal fattore monetario o creditizio. Per Hilferding lo sviluppo del capitale finanziario coincide non soltanto con il crescente assoggettamento di tutti gli aspetti della vita economica ad una cerchia ristretta di enormi Banche (le sei grandi di Berlino), ma con la creazione di strumenti che consentirebbero al movimento socialista di controllare radicalmente il sistema economico. Ora, questi strumenti sarebbero sempre le sei grandi Banche, o l’utopistica Banca centrale unica, che dovrebbe dominare infine tutta l’economia, onde lo impossessarsi delle sei maggiori Banche di Berlino significherebbe impossessarsi dei settori più importanti della grande industria. Come ci si potesse eventualmente impossessare delle sei grandi Banche rimane, nei programmi politici di Hilferding, un gran punto oscuro; e che cosa ne avrebbe pensato il capitale monopolistico che le aveva create, rimane un altro interrogativo senza risposta. Ma, crediamo, che a questo punto convenga fermarci. Qui i programmi politici e politico-economici di Hilferding si apparentano con quelli di Kautsky quando questi, nei suoi ultimi anni, respingeva la sua vecchia concezione della depressione economica del Capitalismo e riteneva possibile una società capitalistica controllata che mantenesse la prosperità mediante l’intervento statale rivolto a dar vita ad un ordinamento socialista. Di queste concezioni l’esperienza storica ha ormai fatto giustizia.

Ai nostri fini interessa piuttosto rilevare ancora una volta, in sintesi, l’errore teorico che, fra le altre cose, ha condotto Hilferding su tali posizioni politiche. Egli riconosce nominalmente, come base del Capitalismo finanziario, la struttura monopolistica di cui descrive efficacemente l’estensione, la compattezza e la fondamentale potenza; ma non riconosce che anche i fenomeni del capitale finanziario sono monopolistici e partecipano a tale compattezza e potenza. Ritiene erroneamente che il capitale finanziario domini definitivamente i settori-chiave dell’economia capitalistica e crede che il movimento socialista, catturando il capitale finanziario, possa trasformare radicalmente la società. Il che corrisponderebbe, nel campo delle immagini, al dire, sia pure con forte esagerazione, che il dominio sulle nuvole, nate dall’evaporazione dell’acqua, consenta di dominare e modificare il livello del mare e il corso dei fiumi.

Tali osservazioni non escludono peraltro la possibilità di un equivoco che conviene chiarire. Esse non vogliono indurre ad una sottostima del genuino e geniale apporto dello Hilferding, quello sul capitale finanziario, che rimane valida teoria entro date coordinate storiche. Il capitale finanziario non è stato certamente la via règia che, per Hilferding, doveva condurre al Socialismo attraverso il controllo dei gangli vitali della società; ma è stato pur sempre un ponte necessario per le teorie marxiste, e non marxiste, e per le trasformazioni e rivoluzioni politico-sociali che sono avvenute prima e dopo la morte di Hilferding. E rimane ancor oggi, nella teoria, un ponte ben saldo. E ad esso fanno sostegno gli innumerevoli spunti originali sparsi nell’opera dello Hilferding che si ripresentano – come consapevole ripetizione o meno – nella moderna teoria economica.

Vi è inoltre intorno ad Hilferding un alone di oblio e di ingiustizia che deve essere dissipato. A parte l’ingiustificata valutazione che ritiene il Capitale finanziario una semplice piattaforma per le sistemazioni teoriche di Lenin – e che contrasta con le dichiarazioni di Lenin stesso – Hilferding non viene citato quasi mai nella letteratura non marxista e spesso male, e superficialmente, ricordato in quella di indirizzo marxista.

Si leggono opere sulla storia delle società per azioni, relazioni sulla tecnica del controllo, saggi sul sorprendente dominio delle Banche sull’industria, e si scorre invano lo indice dei nomi per trovare quello di Hilferding. Ma, per contro, quante volte si trovano quelli di suoi inconsapevoli ripetitori di terza o quarta mano! In questo campo gli esempi si potrebbero moltiplicare.

http://capireperagire.blog.tiscali.it/2003/09/23/r_hilferding__il_capitale_finanziario_1553316-shtml/

L’imperialismo Fase suprema del capitalismo Vladimir Lenin

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