“Dogville” di Lars von Trier Nisi Dominus, RV 608 (“Cum dederit”) – Antonio Vivaldi ;L’anima buona di Sezuan (Der gute Mensch von Sezuan …

“Dogville” di Lars von Trier: un’agghiacciante parabola sulla ferocia umana

Dogville (2003) è un film caustico, radicalmente pessimista e che quasi fastidiosamente non offre mai allo spettatore alcun tipo di speranza o riconciliazione. La prima parte della trilogia sugli Stati Uniti d’America pensata da von Trier (dopo Manderlay del 2005, manca ancora all’appello l’ultimo episodio), è un’opera sconfortante come poche altre per il modo in cui descrive analiticamente l’innata ferocia che alberga nell’animo umano. Da questa prospettiva può venire in mente, anche se si tratta di due film diversissimi, lo sconvolgente Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah con Dustin Hoffman.
Grace (un’ottima Nicole Kidman) giunge improvvisamente nella cittadina di Dogville, isolata ai piedi delle Montagne Rocciose e abitata da un piccolo gruppo di persone. La ragazza sta scappando da alcuni misteriosi gangster e ottiene ospitalità dopo un periodo di prova di due settimane in cui dimostra di poter essere utile alla comunità. Inizialmente le cose sembrano andare bene e Grace appare felicemente integrata. Quando però si susseguono gli avvisi della polizia che la ricerca per conto della banda di criminali, uno dopo l’altro gli abitanti di Dogville cambiano atteggiamento nei suoi confronti, vedendo in lei una sconveniente minaccia. Invece di denunciarla o allontanarla, cominciano a sfruttarla costringendola a strenuanti orari di lavoro, fino ad arrivare a legarla come un cane e a stuprarla con disgustosa regolarità.

Diviso in 9 capitoli e un prologo, il film si avvale di una scenografia di stampo teatrale in cui dominano gli spazi vuoti e si alimenta di una struttura narrativa ridotta quasi all’osso che viene puntualmente portata avanti da un narratore onnisciente. La ricchezza del linguaggio utilizzato da quest’ultimo è inversamente proporzionale alla povertà delle immagini: ciò porta ad una inconsueta stimolazione dell’immaginazione di chi guarda che rimanda in parte all’esperienza della fruizione letteraria. Non puntare affatto sulla componente scenografica permette a von Trier, oltre che di demitizzare nelle fondamenta la classica macchina dei sogni hollywoodiana, di concentrarsi sui personaggi e le tetre dinamiche dei rapporti che li legano, portando per mano lo spettatore in un mondo riprovevole, persino assurdo e paradossale nella la sua crudeltà. Fino all’agghiacciante finale. La durata di quasi tre ore in alcuni momenti si fa sentire, ma il cineasta danese riesce nel complesso a costruire un racconto minimalista e disperante di indubbia forza.

http://cinemagnolie.blogspot.it/2010/10/dogville-di-lars-von-trier.html

Recensione di Pasquale D’Aiello

Il film è am­bien­ta­to agli inizi degli anni tren­ta. Grace, una gio­va­ne donna in fuga da al­cu­ni gang­ster, ar­ri­va a Dog­vil­le, dove trova ri­fu­gio in cam­bio di la­vo­ro. Se, ini­zial­men­te, pare rin­trac­cia­bi­le un equi­li­brio, e Grace sem­bra tro­var­si bene nel pae­si­no, la donna sarà suc­ces­si­va­men­te vit­ti­ma di ri­cat­ti, sfrut­ta­men­ti e vio­len­ze di ogni ge­ne­re. No­no­stan­te ciò, la gio­va­ne pro­ta­go­ni­sta per­do­na tutto, vo­len­do ac­cet­ta­re la me­schi­ni­tà al­trui. La parte fi­na­le del film vede l’ar­ri­vo del padre di Grace a Dog­vil­le. Era lui, come si saprà, ad es­se­re il capo dei gang­ster, e da lui Grace era fug­gi­ta per evi­ta­re di con­di­vi­der­ne la vita. Dopo un dia­lo­go tra Grace e suo padre, la donna com­pren­de l’in­fon­da­tez­za del suo pre­ce­den­te com­por­ta­men­to e de­ci­de di far af­fron­ta­re a Dog­vil­le la re­spon­sa­bi­li­tà di cia­scu­na azio­ne pas­sa­ta. I ti­to­li di coda hanno come sot­to­fon­do una serie di foto che, al suono di Young Ame­ri­cans di David Bowie, in­di­ca­no la chia­ve di let­tu­ra del film.

Dog­vil­le rap­pre­sen­ta in­dub­bia­men­te una ca­ri­ca in­no­va­ti­va di no­te­vo­le po­ten­zia­le nel­l’am­bi­to della tec­ni­ca nar­ra­ti­va su al­me­no due piani: l’al­le­sti­men­to sce­no­gra­fi­co e la sce­neg­gia­tu­ra. Su que­ste in­no­va­zio­ni si ra­di­ca una sto­ria di forte im­pat­to emo­ti­vo e di ampia por­ta­ta che po­trem­mo dire, per ora, di es­se­re im­per­nia­ta sul con­cet­to di “ospi­ta­li­tà”.

Sce­no­gra­fia.

Il film si svi­lup­pa su un set tea­tra­le, so­stan­zial­men­te im­mo­di­fi­ca­to du­ran­te l’in­te­ro svi­lup­po del film, che rap­pre­sen­ta la città di Dog­vil­le. La città si com­po­ne di una pic­co­la via (Elm street) sulla quale sor­go­no 9 abi­ta­zio­ni in cui abi­ta­no 15 adul­ti, 4 bam­bi­ni e un cane. Le case sono sono rap­pre­sen­ta­te dal di­se­gno della loro pian­ta sul pa­vi­men­to e sono as­so­lu­ta­men­te prive di pa­re­ti e di porte. Tutto il resto è reale, tran­ne il cane che e’ di­se­gna­to. Sia le porte che il cane emet­to­no suoni. Que­sta scel­ta sce­no­gra­fi­ca segna un netta di­vi­sio­ne: ciò che è im­mu­ta­bi­le non è ne­ces­sa­rio sulla scena. Anche il cane è im­mu­ta­bi­le, in quan­to i suoi sen­ti­men­ti non cam­bia­no nel tempo. Forse sa­reb­be più cor­ret­to dire che ciò che non muta è di osta­co­lo alla com­pren­sio­ne del mes­sag­gio e per­tan­to va eli­mi­na­to. Su que­sto spa­zio piat­to e scar­no che è la scena un at­ten­to uso delle luci rie­sce a fo­ca­liz­za­re l’at­ten­zio­ne sui sot­toin­sie­mi spa­zia­li di in­te­res­se. L’as­sen­za delle pa­re­ti delle abi­ta­zio­ni per­met­te di met­te­re a nudo i pen­sie­ri, le pa­ro­le, le opere e le omis­sio­ni dei pro­ta­go­ni­sti. Sve­lan­do­ci le re­la­zio­ni più pro­fon­de che sot­ten­do­no al no­stro vi­ve­re so­cia­le.

Sce­neg­gia­tu­ra

Il film è di­vi­so in 9 ca­pi­to­li più un pro­lo­go. I dia­lo­ghi con­ten­go­no spes­so af­fer­ma­zio­ni di prin­ci­pio che as­sol­vo­no al com­pi­to di far as­sur­ge­re il film ad opera mi­ra­bi­le e mae­sto­sa. Le af­fer­ma­zio­ni mo­ra­li tro­va­no sup­por­to e giu­sti­fi­ca­zio­ne nello svi­lup­po degli even­ti nar­ra­ti. L’in­te­ro film si pone come me­ta­fo­ra e ri­cal­ca, per­tan­to, la strut­tu­ra nar­ra­ti­va del Van­ge­lo. I dia­lo­ghi sono es­sen­zia­li, senza ap­pa­ri­re scar­ni.

La sto­ria

L’o­pe­ra di Von Trier rea­liz­za un’au­top­sia delle re­la­zio­ni in­di­vi­dua­li e col­let­ti­ve che ven­go­no at­ti­va­te nel­l’in­con­tro con l’altro, lo stra­nie­ro. Mette in luce in po­ten­zia­le de­sta­bi­liz­zan­te di que­sto in­con­tro. Il con­fron­to mette in di­scus­sio­ne le con­sue­tu­di­ni, mette alla prova l’e­ti­ca e la mo­ra­le di chi “ac­co­glie”, ap­pli­ca sol­le­ci­ta­zio­ni al­l’im­pal­ca­tu­ra so­cia­le che può crol­la­re se co­strui­ta su con­vi­zio­ni im­pro­prie o su­pe­ra­te e te­nu­ta in­sie­me solo da un ri­ve­sti­men­to di ipo­cri­sia e con­ven­zio­ni. Il film narra di una donna di nome Grace (la Kid­man) che cerca ri­fu­gio in una pic­co­la cit­ta­di­na sta­tu­ni­ten­se (Dog­vil­le), in­se­gui­ta da una banda di gang­ster. Qui un ra­gaz­zo, Tom, con la pas­sio­ne in­com­piu­ta per la scrit­tu­ra e una in­con­clu­den­te per i ser­mo­ni la pren­de in sim­pa­tia e rie­sce a farla ac­co­glie­re dal­l’in­te­ro vil­lag­gio. Tom pro­po­ne di sot­to­por­la a un pe­rio­do di prova di 2 set­ti­ma­ne, du­ran­te il quale gli abi­tan­ti va­lu­te­ran­no se ac­co­glier­la de­fi­ni­ti­va­men­te op­pu­re no. Tom con­si­glia a Grace di svol­ge­re dei la­vo­ri per ogni abi­tan­te, per ri­ce­ve­re il suo gra­di­men­to. Gli abi­tan­ti ri­ten­go­no dap­pri­ma di non aver bi­so­gno di nes­sun aiuto dalla bella e fra­gi­le Grace. In un cre­scen­do mo­struo­so, gli abi­tan­ti ar­ri­va­no a ri­dur­re in schia­vi­tù la gio­va­ne donna, im­po­nen­do­le abusi e vio­len­ze di ogni tipo, da quel­la ses­sua­le a quel­la mo­ra­le, ac­cu­san­do­la di ogni mi­sfat­to. La cir­co­stan­za che Grace sia ri­cer­ca­ta anche dalla po­li­zia, oltre che dai gang­sters, funge da ca­ta­liz­za­to­re delle vio­len­ze su di lei. Tom, pur in­na­mo­ra­to di lei e ri­cam­bia­to, non rie­sce ad in­stau­ra­re una sto­ria d’a­mo­re con lei e nep­pu­re a pro­teg­ger­la dalla vio­len­za degli abi­tan­ti. Egli pre­fe­ri­rà, sem­pre e co­mun­que, l’ac­cet­ta­zio­ne da parte del suo grup­po so­cia­le al­l’a­mo­re di lei, fi­nen­do ad­di­rit­tu­ra col tra­dir­la e ri­con­se­gnan­do­la ai gang­ster (pen­sie­ro di cui non si era mai li­be­ra­to). Si sco­pri­rà che il capo dei gang­ster era suo padre ed ella uti­liz­ze­rà il po­te­re di lui per ven­di­car­si dei torti su­bi­ti, di­strug­gen­do l’in­te­ra cit­ta­di­na e uc­ci­den­do­ne tutti gli abi­tan­ti, ad ec­ce­zio­ne del cane, ri­ser­van­do per se il com­pi­to di uc­ci­de­re Tom.

Dif­fi­ci­le non ri­co­no­sce­re in que­sto film una me­ta­fo­ra del­l’o­spi­ta­li­tà (o “ac­cet­ta­zio­ne”, nelle pa­ro­le di Tom) in­te­sa nella sua for­mu­la più ampia del fe­no­me­no mi­gra­to­rio che in­ve­ste le ric­che so­cie­tà ca­pi­ta­li­ste oc­ci­den­ta­li. La pel­li­co­la ci mo­stra tutto l’i­ter (o forse sa­reb­be più op­por­tu­no dire cal­va­rio) cui viene sot­to­po­sto l’im­mi­gra­to: la dif­fi­den­za, l’ac­co­glien­za pa­ter­na­li­sti­ca, lo sfrut­ta­men­to. Egli viene pri­va­to del suo in­vo­lu­cro umano, è im­pos­si­bi­le amar­lo, è con­ti­nua­men­te ri­con­dot­to a og­get­to: eco­no­mi­co, ses­sua­le. In­som­ma una merce. L’e­ti­ca pa­ter­na­li­sti­ca pic­co­lo-bor­ghe­se che so­vrin­ten­de al­l’or­di­na­men­to so­cia­le è in­ca­pa­ce di go­ver­na­re il fe­no­me­no mi­gra­to­rio. Lars Von Trier ci mo­stra lu­ci­da­men­te l’e­si­to di tale con­flit­to: la di­stru­zio­ne della no­stra so­cie­tà. Qual­cu­no (anche le siepi, nella sce­no­gra­fia, sono solo di­se­gna­te e in­di­ca­te dalla srit­ta “bu­shes”) lo chia­ma ter­ro­ri­smo, per Von Trier è (in)evi­ta­bi­le di­stru­zio­ne

http://www.storiadeifilm.it/drammatico/drammatico/lars_von_trier-dogville%282003%29.html

 Dogville, a film from Danish director Lars von Trier (2003), is somewhere in between nowhere (utopia) and elsewhere (heterotopia). The representation language is limited to its very minimal aspect: nil for the outside world, lines on the floor for walls, specificity of the houses symbolized by a unique element. This space is just like any other spaces in cinema, it exists outside the reality since it is representing this same reality. The heterotopia, here is thus questioning the relationship maintained between the subject and the representation in a comparable way that Magritte’s painting Ceci n’est pas une pipe (This, is not a pipe). The aesthetic of the movie is therefore created by this minimal representation and provokes (at least for me) a strong feeling of claustrophobia.





http://thefunambulist.net/2010/12/16/heterotopias-in-cinema-dogville-from-lars-von-trier/


 

L’anima buona di Sezuan (Der gute Mensch von Sezuan

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