Sylvia Plath reads “Tulips”

Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense.

Conosciuta principalmente per le sue poesie, ha anche scritto il romanzo semi-autobiografico La campana di vetro (The Bell Jar) sotto lo pseudonimo di Victora Lucas. La protagonista del libro, Esther Greenwood, è una brillante studentessa dello Smith College, che inizia a soffrire di psicosi durante un tirocinio presso un giornale di moda newyorkese. La trama ha un parallelo nella vita di Plath, che ha trascorso un periodo presso la rivista femminile Mademoiselle, successivamente al quale, in preda a un forte stato di depressione, ha tentato il suicidio.

Assieme ad Anne Sexton, Plath è stata l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo del genere della poesia confessionale, iniziato da Robert Lowell e William De Witt Snodgrass. Autrice anche di vari racconti e di un unico dramma teatrale a tre voci, per lunghi periodi della sua vita ha tenuto un diario, di cui sono state pubblicate le numerose parti sopravvissute. Parti del diario sono invece state distrutte dall’ex-marito, il poeta laureato inglese Ted Hughes, da cui ebbe due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Morì suicida all’età di trent’anni.

Biografia

Nata in un distretto di Boston da genitori immigrati tedeschi; la madre, Aurelia Schober, apparteneva ad una famiglia austriaca emigrata nel Massachusetts, abituata in casa a parlare solo tedesco, mentre suo padre, Otto Emil Plath, professore di college, figlio di genitori tedeschi, si trasferì in America a sedici anni per diventare in seguito uno stimato entomologo, in particolare in materia di api.

Sylvia Plath dimostrò un talento precoce, pubblicando la sua prima poesia all’età di otto anni. Nello stesso anno, suo padre morì di embolia in seguito ad un’operazione chirurgica (complicazioni per un diabete non diagnosticato), il 5 ottobre 1940. La scrittrice continuò a cercare di pubblicare poesie e racconti su varie riviste americane, raggiungendo un successo marginale. Sylvia Plath soffrì durante tutta la sua vita adulta per una grave forma di depressione ricorrente tra periodi di intensa vitalità. Era entrata nello Smith College con una borsa di studio nel 1950, ma nel penultimo anno fece il primo tentativo di suicidio. In seguito descrisse la crisi che l’aveva colpita nell’estate e inverno 1953 nel romanzo semi-autobiografico, La campana di vetro (The Bell Jar).

Al tentativo di suicidio segue il ricovero in un istituto psichiatrico, il McLean Hospital, dove le verrà diagnosticato il disturbo bipolare. Uscita dall’ospedale si laurea, ottenendo la lode nel 1955. Sylvia Plath ottenne una borsa di studio Fulbright per l’università di Cambridge, dove continuò a scrivere poesie, pubblicando a volte le sue opere sul giornale studentesco Varsity.

A Cambridge conobbe il poeta inglese Ted Hughes. Si sposarono il 16 giugno 1956. Plath e Hughes trascorsero il periodo dal luglio 1957 all’ottobre 1959 vivendo e lavorando negli Stati Uniti. Sylvia Plath insegnò allo Smith College. I due si trasferirono poi a Boston dove Plath partecipò a dei seminari con Robert Lowell.

Questo corso di ‘creative writing‘ ebbe profonda influenza sul suo stile. L’altra frequentatrice di questo corso fu Anne Sexton. In questo periodo Plath e Hughes incontrarono per la prima volta William Merwin, il quale ammirò i loro lavori e rimase loro amico per tutta la vita. Venuti a conoscenza del fatto che Sylvia Plath era incinta, ritornarono in Gran Bretagna.

Sylvia Plath e Ted Hughes vissero per un breve periodo a Londra ed in seguito si stabilirono a North Tawton, piccola città commerciale nel Devon. Sylvia Plath pubblicò la prima raccolta di poesie, The Colossus, in Inghilterra, nel 1960. Nel febbraio 1961 abortì; diverse poesie fanno riferimento a questo evento. Il matrimonio si incrinò e i due si separarono poco dopo la nascita del loro secondo figlio. La loro separazione traumatica fu dovuta alla relazione che Hughes aveva iniziato con Assia Wevill, moglie di un amico poeta.

Sylvia Plath ritornò a Londra con i figli, Frieda e Nicholas. Affittò un appartamento in una casa dove aveva abitato William Butler Yeats; ne fu estremamente contenta e lo considerò un buon presagio quando cominciò il procedimento legale per la separazione. L’inverno tra il 1962 e il 1963 fu molto duro. Scrisse intorno a questo periodo il romanzo La campana di vetro (The Bell Jar), pubblicato nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lucas.

L’11 febbraio 1963 era passato solo un mese dalla pubblicazione del romanzo quando Sylvia Plath si tolse la vita: sigillò porte e finestre ed inserì la testa nel forno a gas, non prima di aver scritto l’ultima poesia intitolata “Orlo” ed aver preparato pane e burro e due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini. Secondo Al Alvarez e altri studiosi, in realtà non aveva intenzione di uccidersi, ma soltanto di rivolgere all’esterno un’estrema richiesta d’aiuto, “… che disgraziatamente fece fiasco”; ella sapeva, infatti, che quella mattina sarebbe passata in visita una ragazza australiana, e aveva lasciato inoltre un biglietto con scritto un numero di telefono del suo medico, e le parole: “Per favore chiamate il dottor…”.[1]

È seppellita nel cimitero di Heptonstall, nel West Yorkshire.

Pubblicazioni postume

Hughes si occupò dei beni letterari di Sylvia Plath. Distrusse l’ultimo volume del diario della donna, che descriveva il periodo trascorso insieme. Nel 1982, Sylvia Plath divenne la prima poetessa a vincere il Premio Pulitzer per la poesia dopo la morte (per The Collected Poems).

Molta critica femminista accusa Hughes di aver tentato di controllare le pubblicazioni postume per censura affettiva. Hughes negò ciò, anche se si accordò con la madre di Sylvia Plath, Aurelia, quando questa cercò di bloccare la pubblicazione delle opere più controverse di sua figlia negli Stati Uniti. Nella sua ultima raccolta, Birthday Letters, pubblicata prima di morire, Hughes ha rotto il silenzio, confessando alla pagina il suo irriducibile affetto per Plath. La copertina fu disegnata da Frieda Rebecca, ormai anch’ella affermata poetessa nel Regno Unito. Il peso dell’influenza di Hughes sulla poetica di Plath è oggetto di un incessante dibattito.

Opere

Alcune opere ad “edizione limitata” furono pubblicate da editori specialisti, spesso in numero esiguo.

Poesia

  • The Colossus (1960)
  • Poppies in July (1962)
  • Ariel (Plath)|Ariel (1965)
  • Crossing the Water (1971)
  • Winter Trees (1972)
  • The Collected Poems (1981)

Prosa

  • La campana di vetro (The Bell Jar, 1963) sotto lo pseudonimo di ‘Victoria Lucas’
  • Letters Home (1975) a cura di sua madre
  • Johnny Panic and the Bible of Dreams (1977) (l’edizione inglese contiene due storie che quella statunitense non possiede)
  • The Journals of Sylvia Plath (1982)
  • The Magic Mirror (1989), la sua tesi di laurea allo Smith College
  • The Unabridged Journals of Sylvia Plath, a cura di Karen V. Kukil (2000)

Libri per bambini

  • The Bed Book (1976)
  • The It-Doesn’t-Matter-Suit (1996)
  • Collected Children’s Stories (UK, 2001)
  • Mrs. Cherry’s Kitchen (2001)

I tulipani

I tulipani sono troppo eccitabili, e’ inverno qui,
guarda quanto ogni cosa sia bianca, quieta e innevata.
Imparo la pace, mentre si posa quieta a me vicina
come la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e i vestiti alle infermiere
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.

Hanno appoggiato la mia testa tra cuscino e bordo del lenzuolo
come un occhio fra palpebre bianche che non si chiuderanno.
Stupida pupilla, di tutto deve fare incetta.
Le infermiere passano e ripassano, non disturbano,
passano come i gabbiani verso terra nelle loro cuffie bianche,
facendo cose con le mani, uguali l’una all’altra,
cosi’ che e’ impossibile dire quante siano.

Il mio corpo e’ un sasso per loro, vi si apprestano come l’acqua
ai sassi sui quali deve scorrere, levigandoli garbata.
Mi danno il torpore con i loro aghi luccicanti, mi danno il sonno.
Adesso ho perduto me stessa sono stanca di bagagli –
la mia borsa di pelle come un nero portapillole,
mio marito e il bambino sorridono nella foto di famiglia;
i loro sorrisi mi agganciano la pelle, piccoli ami sorridenti.

Ho gettato cose in mare, io cargo di trent’anni
tenacemente attaccata al mio nome e indirizzo.
Hanno strofinato via tutti i miei affetti.
Impaurita e denudata sulla plastica verde della barella
ho guardato la mia teiera, il como’ della biancheria, i miei libri
affondare lontani, e l’acqua arrivarmi sopra la testa.
Sono una suora adesso, mai stata cosi’ pura.

Non volevo fiori, volevo soltanto
sdraiarmi a palme in su completamente vuota.
Come si sia liberi, non avete idea quanto liberi –
la pace e’ cosi’ grande che abbaglia,
non chiede nulla, un’etichetta col nome, qualche bazzecola.
Con questa, alla fine, chiudono i morti; li immagino
masticarsela come un’ostia da Comunione.

I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi feriscono.
Anche attraverso la carta da regalo li sentivo respirare
piano, attraverso la bianca fasciatura, come un bimbo mostruoso.

Rossastri parlano alla mia ferita, le rispondono.
Sono traditori: sembrano ondeggiare, anche se mi tirano giu’,
scompigliandomi con le loro lingue inattese e il colore,
una dozzina di rossi piombi intorno al mio collo.

Prima nessuno mi sorvegliava, adesso sono sorvegliata.
I tulipani si voltano verso di me, e la finestra dietro
dove quotidianamente la luce si allarga e si assottiglia,
io mi vedo, piatta, ridicola, ombra di carta ritagliata
fra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani consumano il mio ossigeno.

Prima che arrivassero l’aria era abbastanza calma,
pulsava, respiro dopo respiro, senza scompiglio.
Poi i tulipani l’hanno riempita di un gran rumore.
Ora l’aria spinge e gli vortica attorno come un fiume
spinge e vortica attorno a una macchina rosso-ruggine affondata.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
giocando e riposando senza impegnarsi.

Anche i muri sembrano riscaldarsi tra loro.
I tulipani dovrebbero stare dietro le sbarre come bestie pericolose;
si aprono come la bocca di un grosso felino africano,
ed io mi accorgo del mio cuore: apre e chiude
la sua ampolla di rossi boccioli per vero amor mio.
L’acqua che assaggio e’ calda e salata come il mare,
e viene da un paese lontano come la salute.

Pubblicata il 7 aprile 1962 nel “New Yorker” e inclusa in Ariel, rievoca il ricovero della poetessa in ospedale per un’appendicetomia.

Tulips

The tulips are too excitable, it is winter here.
Look how white everything is, how quiet, how snowed-in
I am learning peacefulness, lying by myself quietly
As the light lies on these white walls, this bed, these hands.
I am nobody; I have nothing to do with explosions.
I have given my name and my day-clothes up to the nurses
And my history to the anaesthetist and my body to surgeons.

They have propped my head between the pillow and the sheet-cuff
Like an eye between two white lids that will not shut.
Stupid pupil, it has to take everything in.
The nurses pass and pass, they are no trouble,
They pass the way gulls pass inland in their white caps,
Doing things with their hands, one just the same as another,
So it is impossible to tell how many there are.

My body is a pebble to them, they tend it as water
Tends to the pebbles it must run over, smoothing them gently.
They bring me numbness in their bright needles, they bring me sleep.
Now I have lost myself I am sick of baggage —-
My patent leather overnight case like a black pillbox,
My husband and child smiling out of the family photo;
Their smiles catch onto my skin, little smiling hooks.

I have let things slip, a thirty-year-old cargo boat
Stubbornly hanging on to my name and address.
They have swabbed me clear of my loving associations.
Scared and bare on the green plastic-pillowed trolley
I watched my teaset, my bureaus of linen, my books
Sink out of sight, and the water went over my head.
I am a nun now, I have never been so pure.

I didn’t want any flowers, I only wanted
To lie with my hands turned up and be utterly empty.
How free it is, you have no idea how free —-
The peacefulness is so big it dazes you,
And it asks nothing, a name tag, a few trinkets.
It is what the dead close on, finally; I imagine them
Shutting their mouths on it, like a Communion tablet.

The tulips are too red in the first place, they hurt me.
Even through the gift paper I could hear them breathe
Lightly, through their white swaddlings, like an awful baby.
Their redness talks to my wound, it corresponds.
They are subtle: they seem to float, though they weigh me down,
Upsetting me with their sudden tongues and their colour,
A dozen red lead sinkers round my neck.

Nobody watched me before, now I am watched.
The tulips turn to me, and the window behind me
Where once a day the light slowly widens and slowly thins,
And I see myself, flat, ridiculous, a cut-paper shadow
Between the eye of the sun and the eyes of the tulips,
And I hve no face, I have wanted to efface myself.
The vivid tulips eat my oxygen.

Before they came the air was calm enough,
Coming and going, breath by breath, without any fuss.
Then the tulips filled it up like a loud noise.
Now the air snags and eddies round them the way a river
Snags and eddies round a sunken rust-red engine.
They concentrate my attention, that was happy
Playing and resting without committing itself.

The walls, also, seem to be warming themselves.
The tulips should be behind bars like dangerous animals;
They are opening like the mouth of some great African cat,
And I am aware of my heart: it opens and closes
Its bowl of red blooms out of sheer love of me.
The water I taste is warm and salt, like the sea,
And comes from a country far away as health.

http://www.gironi.it/poesia/plath.php

Aribert Reimann | controappuntoblog.org

Questa voce è stata pubblicata in cultura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.