Frankenstein Capitolo V – capitolo X , E-text of Frankenstein,

Frankestein, Capitolo V — Mary Shelley

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Fu in una tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche. Con un’ansia simile all’angoscia radunai gli strumenti con i quali avrei trasmesso la scintilla della vita alla cosa inanimata che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva lugubre contro i vetri, la candela era quasi consumata quando, tra i bagliori della luce morente, la mia creatura aprì gli occhi, opachi e giallastri, trasse un respiro faticoso e un moto convulso ne agitò le membra.
Come posso descrivere la mia emozione a quella catastrofe, descrivere l’essere miserevole cui avevo dato forma con tanta cura e tanta pena? Il corpo era proporzionato e avevo modellato le sue fattezze pensando al sublime. Sublime? Gran Dio! La pelle gialla a stento copriva l’intreccio dei muscoli e delle vene; i capelli folti erano di un nero lucente e i denti di un candore perlaceo; ma queste bellezze rendevano ancor più orrido il contrasto con gli occhi acquosi, grigiognoli come le orbite in cui affondavano, il colorito terreo, le labbra nere e tirate.
La vita non offre avvenimenti tanto mutevoli quanto lo sono i sentimenti dell’uomo. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo avevo rinunciato al riposo e alla salute. L’avevo desiderato con intensità smodata, ma ora che avevo raggiunto la meta il fascino del sogno svaniva, orrore e disgusto infiniti mi riempivano il cuore. Incapace di sostenere la vista dell’essere che avevo creato, fuggii dal laboratorio e a lungo camminai avanti e indietro nella mia camera da letto, senza riuscire a dormire. Alla fine lo spossamento subentrò al tumulto iniziale e mi gettai vestito sul letto, cercando qualche momento di oblio. Invano! Dormii, è vero, ma agitato dai sogni più strani. Mi sembrava di vedere Elizabeth, nel fiore della salute, per le strade di Ingolstadt. Sorpreso e gioioso, l’abbracciavo; ma come imprimevo il primo bacio sulle sue labbra queste si facevano livide, color di morte; i suoi tratti si trasformavano e avevo l’impressione di stringere tra le braccia il cadavere di mia madre, avvolto nel sudario. I vermi brulicavano tra le pieghe del tessuto. Mi risvegliai trasalendo d’orrore; un sudore freddo mi imperlava la fronte, battevo i denti e le membra erano in preda a un tremito convulso quando – al chiarore velato della luna che si insinuava attraverso le persiane chiuse – scorsi la miserabile creatura, il mostro da me creato. Teneva sollevate le cortine del letto e i suoi occhi, se di occhi si può parlare, erano fissi su di me. Aprì le mascelle emettendo dei suoni inarticolati mentre un sogghigno gli raggrinziva le guance. Forse aveva parlato, ma non udii; aveva allungato una mano, come per trattenermi, ma gli sfuggii precipitandomi giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa e vi passai il resto della notte, continuando a percorrerlo, agitatissimo, e tendendo l’orecchio a ogni rumore che annunciasse l’arrivo del diabolico cadavere al quale avevo sciaguratamente dato vita.

Oh! Nessun mortale avrebbe potuto sostenere l’orrore del suo aspetto! Una mummia riportata in vita non sarebbe risultata raccapricciante come quell’essere repulsivo. Lo avevo osservato quando non era ancora ultimato: anche allora era sgradevole, ma quando i muscoli e le giunture avevano assunto capacità di moto era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire.
Trascorsi una nottata infernale. A volte il polso batteva così rapido e violento che potevo sentire il palpitare di ogni arteria; altre volte l’estrema debolezza e il languore quasi mi facevano crollare a terra. Insieme all’orrore provavo l’amarezza della disillusione: sogni che a lungo erano stati il mio cibo e il mio ristoro si erano trasformati in incubi; e il rovesciamento era stato così rapido, così completa la disfatta!
Sorse il mattino, triste e piovoso, e mostrò ai miei occhi insonni e dolenti la chiesa di Ingolstadt, il suo bianco campanile e l’orologio che segnava le sei. Il guardiano aprì i cancelli del cortile che era stato il mio asilo quella notte e uscii nelle strade percorrendole a passo svelto come per sfuggire al mostro che temevo mi si parasse dinanzi a ogni angolo. Non avevo il coraggio di tornare al mio alloggio, mi sentivo sospinto a camminare nonostante la pioggia che cadeva da un cielo nero e sconfortante mi bagnasse fino alle midolla.
Continuai così, sperando che l’esercizio fisico alleggerisse il peso che mi opprimeva la mente. Traversavo strade senza avere idea di dove fossi, di cosa facessi. Sentivo il cuore stretto nella morsa dell’angoscia, e mi affrettavo con passo irregolare, senza osare guardarmi attorno:

Come uno che, per strada deserta,
cammina tra paura e terrore
e guardatosi intorno una volta, va avanti
e non volta mai più la testa
perché egli sa, un orrendo demonio
a breve distanza lo segue.

In questo modo giunsi infine di fronte alla locanda in cui fanno sosta diligenze e carrozze. Qui mi fermai, non so perché; rimasi per alcuni minuti a fissare una vettura che veniva verso di me dall’altro capo della strada. Quando fu più vicina, mi accorsi che era la diligenza svizzera; si fermò giusto dov’ero io e, quando si aprì lo sportello, riconobbi Henry Clerval che, vedendomi, all’istante balzò a terra. «Mio caro Frankenstein», esclamò, «come sono felice di vederti! E che fortunata coincidenza che tu sia qui proprio al momento del mio arrivo!».
Niente avrebbe potuto eguagliare la mia gioia nel vedere Clerval; la sua presenza riportò i miei pensieri a mio padre, a Elizabeth, a tutte le scene domestiche così care al mio ricordo. Gli afferrai la mano e in un attimo dimenticai orrori e disgrazie: sentii all’improvviso, e per la prima volta dopo molti mesi, una felicità pacata e serena. Diedi il benvenuto all’amico nel modo più cordiale, e ci incamminammo verso la mia abitazione. Clerval parlò a lungo dei nostri comuni amici e della fortuna di avere ottenuto il permesso di venire a Ingolstadt. «Puoi ben capire», raccontò, «quanto sia stato difficile convincere mio padre che la nobile arte di tenere i conti non racchiude tutta la cultura necessaria; e, in verità, credo di averlo lasciato incredulo fino all’ultimo, perché la sua invariabile risposta alle mie insistenti richieste era sempre quella del maestro di scuola olandese nel Vicario di Wakefield. “Ho diecimila fiorini l’anno senza il greco, mangio di gusto senza il greco”. Ma il suo affetto per me alla fine ha vinto la sua scarsa stima per lo studio, e mi ha concesso di intraprendere questo viaggio di esplorazione nella terra del sapere».
«È una grande gioia vederti; ma ora dimmi, come stanno mio padre, i miei fratelli ed Elizabeth?».
«Molto bene e sereni, solo un po’ preoccupati perché hanno tue notizie così di rado. A proposito, ho intenzione di farti una bella ramanzina in merito… Mio caro Frankenstein», continuò, fermandosi e guardandomi in faccia, «non l’avevo notato prima, ma hai un’aria disfatta, così magro e pallido sembra che tu non abbia dormito per molte notti».
«Hai indovinato; sono stato così assorbito da un impegno, negli ultimi tempi, che non mi sono concesso un sufficiente riposo, come vedi; ma spero, spero sinceramente, che questo sia ormai concluso e di essere finalmente libero!».
Tremavo violentemente. Non riuscivo a pensare, né tanto meno ad alludere, agli avvenimenti di quella notte. Camminavo svelto e presto giungemmo al mio alloggio. Allora cominciai a riflettere e un pensiero mi raggelò: l’essere che avevo lasciato nel mio appartamento forse era ancora là, vivo, ad aggirarsi per le stanze. Temevo di rivederlo, ma ancor più temevo che lo vedesse Henry. Lo pregai perciò di aspettarmi ai piedi delle scale e corsi di sopra. La mia mano già stringeva la maniglia quando riuscii a ricompormi. Mi fermai e un brivido freddo mi percorse. Spalancai di colpo la porta, come usano fare i bambini quando temono che un fantasma li stia aspettando dall’altra parte, ma non apparve nulla. Entrai pieno di paura: l’appartamento era deserto e anche la mia stanza da letto era libera dal suo odioso ospite. Quasi non riuscivo a credere alla mia fortuna ma, quando mi fui assicurato che il nemico si era davvero allontanato, battei le mani per la gioia e scesi da Clerval.

Salimmo in camera mia e poco dopo il domestico portò la colazione; io non riuscivo a contenermi. Non era solo la gioia a pervadermi: mi sentivo percorso da un formicolio, come per un eccesso di sensibilità, e il polso batteva all’impazzata. Ero incapace di star fermo un attimo allo stesso posto, mi alzavo e tornavo a sedermi, battevo le mani e ridevo forte. Dapprima Clerval attribuì quell’umor bizzarro al piacere del suo arrivo; ma quando mi osservò più attentamente scorse nei miei occhi una luce fanatica per la quale non c’erano giustificazioni; e la mia risata alta, irrefrenabile, secca, lo spaventò e lo stupì.
«Mio caro Victor», esclamò, «per amor di Dio, cos’hai? Non ridere in quel modo. Tu stai male! Qual è il motivo di tutto questo?».
«Non chiederlo a me», gemetti posandomi le mani sugli occhi, perché mi sembrava di vedere l’orribile spettro scivolare nella stanza, «lui può dirtelo… Oh, salvami, salvami!». Ebbi l’impressione che il mostro mi afferrasse; mi dibattei furiosamente, poi svenni.
Povero Clerval! Quali possono essere stati i suoi sentimenti? L’incontro da lui pregustato con tanta gioia si trasformava in amarezza! Ma io non fui testimone del suo dolore poiché ripresi i sensi molto, molto più tardi.
Questo fu l’inizio di una febbre nervosa che mi tenne segregato per molti mesi. Durante tutto quel periodo Henry fu il mio solo infermiere. Appresi più tardi che, data l’età avanzata di mio padre e la sua impossibilità di affrontare un viaggio così lungo, e sapendo quanto la mia malattia avrebbe impressionato Elizabeth, egli aveva voluto risparmiare loro ogni angustia nascondendo la gravità del mio male. Sapeva anche che nessuno avrebbe potuto assistermi con maggiore attenzione e sollecitudine e, fermo nella speranza che mi sarei rimesso, era certo non solo di non agire male, ma di compiere l’atto più premuroso verso di loro.
In realtà ero molto malato; e certo solo le illimitate e instancabili cure del mio amico avrebbero potuto restituirmi alla vita. Avevo sempre dinanzi agli occhi la forma del mostro cui avevo dato esistenza e deliravo incessantemente su di lui. Senza dubbio le mie parole sorpresero Henry; dapprima credette che si trattasse dei vaneggiamenti di una mente alterata ma l’insistenza con cui tornavo sempre sullo stesso soggetto lo persuase che il mio disordine mentale traeva origine da qualche fatto straordinario e terribile.
Per gradi, e con frequenti ricadute che allarmavano e addoloravano il mio amico, mi ristabilii. Ricordo che la prima volta che fui in grado di guardarmi intorno con un certo piacere, mi accorsi che le foglie morte erano scomparse, e le gemme nuove stavano spuntando sugli alberi che ombreggiavano la mia finestra. Fu una primavera dolcissima e la stagione contribuì molto alla mia convalescenza. Sentimenti di allegria e di affetto mi rinascevano in petto; l’umore cupo scomparve e, in poco tempo, tornai sereno come ero stato prima che quella fatale passione mi possedesse.
«Carissimo Clerval», esclamai, «come sei stato affettuoso e gentile con me! Invece di studiare come ti ripromettevi hai consumato l’intero inverno nella mia stanza di malato. Come potrò mai ripagarti? Provo un grande rimorso per il dispiacere che ti ho cagionato, ma tu mi perdonerai, non è vero?».
«Mi ripagherai ampiamente se non ti agiterai e guarirai al più presto. E, poiché mi sembri in così buone condizioni di spirito, posso affrontare con te un certo argomento?».
Tremai. Quale argomento? Che cosa poteva essere? Forse ciò a cui io non osavo neppure pensare?
«Stai calmo», disse Clerval notando che avevo cambiato colore, «non ne parleremo se questo ti agita, ma tuo padre e tua cugina sarebbero lieti di ricevere una lettera scritta di tua mano. Non immaginano quanto sei stato malato e sono preoccupati per il tuo lungo silenzio».
«Tutto qui, mio caro Henry? Come puoi credere che il mio pensiero non voli verso quei cari, cari amici che amo e che sono così degni del mio affetto?».
«Se questa è la tua disposizione d’animo, amico mio, forse sarai lieto di leggere la lettera che attende lì ormai da diversi giorni; è di tua cugina, credo».

Mary Shelley (1797-1851), da Frankenstein: or, The Modern Prometheus (1818) cap. V

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Frankenstein

by gabriella

frankensteinLa natura come orrore e come consolazione, l’esclusione e il rifiuto del diverso, nel commovente X capitolo in cui Mary Shelley mette a confronto il dottor Frankenstein con il mostro da lui creato [Frankenstein o il nuovo Prometeo, 1816, pp.29-31].

Passai il giorno seguente aggirandomi per la vallata. Fui alle sorgenti dell’Arveiron, che prende origine da un ghiacciaio e scende lentamente dalla sommità dei monti fino a sbarrare la valle. I fianchi ripidi delle grandi montagne erano davanti a me; la grande muraglia di ghiaccio mi sovrastava; qualche gracile abete era sparso qua e là; il silenzio solenne di questa gloriosa camera delle udienze della natura imperiale era interrotto solo dal gorgogliare delle acque o dallo staccarsi di qualche blocco di ghiaccio, dal clamore di tuono delle valanghe o dagli scricchiolii, rimbombanti tra le montagne, del ghiaccio accumulatosi che, per il lavorio silenzioso di leggi immutabili, ogni tanto si rompe come un giocattolo nelle loro mani. Questo paesaggio meraviglioso e sublime mi dava il più grande conforto che io potessi ricevere. Mi elevava al di sopra di tutte le meschinità dei sentimenti, mi calmava e mi tranquillizzava e, tuttavia, non poteva eliminare il mio dolore. In qualche modo distraeva la mia mente dai pensieri che mi avevano perseguitato negli ultimi mesi. Quando, la sera, andai a riposare i miei sogni furono vegliati e assistiti, se così posso dire, da quell’insieme di grandi forme che avevo contemplato tutto il giorno. Mi si strinsero intorno; la cima innevata e immacolata, il pinnacolo scintillante, il bosco di abeti, l’arido precipizio, l’aquila che si libra tra le nubi: tutti mi circondarono e mi indussero al riposo.

Dov’erano spariti quando, al mattino, mi risvegliai? Ogni fonte di sollievo era scomparsa con la notte, e una nera malinconia velava ogni mio pensiero. La pioggia cadeva a torrenti e fitte nebbie celavano le cime delle montagne, impedendomi persino di scorgere i volti di quei potenti amici. Ma io avrei oltrepassato il loro fitto velo e li avrei cercati nel loro rifugio di nubi. Che mi importava della pioggia e del vento? Il mulo fu condotto alla porta e decisi di salire la cima del Montanvert. Ricordai l’effetto che la vista del terribile ghiacciaio sempre in movimento aveva prodotto su di me quando l’avevo avuto davanti per la prima volta. Allora ero stato invaso da un’estasi sublime, che aveva dato ali alla mia anima e l’aveva librata dalla oscura terra alla luce e alla gioia. L’orrido e sublime in natura hanno sempre avuto l’effetto di dare il senso dell’eternità alla mia mente e di farmi dimenticare le cure passeggere della vita. Decisi di fare a meno della guida; conoscevo bene la via e la presenza di un’altra persona avrebbe turbato la solitaria grandezza del paesaggio.

La salita è vertiginosa, ma il sentiero si snoda in curve strette e continue, che rendono possibile superare la perpendicolarità della montagna. È una scena terribile e desolata: ovunque si notano tracce di valanghe invernali, dove giacciono alberi sradicati e sparsi a terra, quali completamente distrutti, quali piegati sulle rocce sporgenti, quali ancora messi di traverso su altri alberi. Il sentiero, a mano a mano che si sale, è interrotto da canaloni di neve lungo i quali rotolano continuamente pietre dall’alto; uno di essi è particolarmente pericoloso perché il minimo suono, come una voce, causa uno spostamento d’aria sufficiente a distruggere chi ha parlato. Gli abeti non alti e lussureggianti ma cupi, aggiungono severità alla scena. Guardai verso la sottostante vallata: grandi banchi di nebbia salivano dai fiumi che la percorrevano, la attraversavano formando delle ghirlande intorno alle montagne, le cui cime erano nascoste da nuvole dense; la pioggia che cadeva dal cielo scuro accresceva l’impressione di malinconia che mi comunicava il paesaggio.

Ahimè! Perché l’uomo ha una sensibilità superiore a quella dei bruti? Ciò lo rende solo più schiavo dei bisogni. Se i nostri impulsi si limitassero alla fame, alla sete e alla voluttà, potremmo quasi sentirci liberi, ma siamo mossi da ogni sospiro di vento, e da una parola casuale o dall’immagine che la parola ci evoca:

Dormiamo: un sogno può avvelenare un sonno.
Ci destiamo; un pensiero errante inquina il giorno.
Sentiamo, immaginiamo, o ragioniamo; riso o pianto
abbracciano il dolore o scacciano le cure,
è lo stesso: perché, sia gioia o dolore,
il sentiero per la sua partenza è sempre libero.
L’ieri dell’uomo non sarà mai come il suo domani;
niente sta fermo se non la mutevolezza.

Era quasi mezzogiorno quando arrivai in cima alla salita. Per un po’ restai seduto su una roccia che domina il mare di ghiaccio. Una nebbia copriva ogni cosa e anche le montagne circostanti. A un certo momento una brezza dissipò le nuvole e io scesi sul ghiacciaio. La superficie è molto instabile, si alza come le onde di un mare agitato, poi discende ed è disseminata di crepacci profondi. Il campo di ghiaccio è largo circa una lega, ma mi ci vollero quasi due ore per attraversarlo. La montagna di fronte è una roccia scabra a strapiombo. Il Montanvert è dalla parte oppostarispetto a dove mi trovavo in quel momento, a distanza di una lega, e sopra svettava il Monte Bianco in tutta la sua bianca candida maestosità. Mi fermai in un anfratto di roccia ammirando questo paesaggio solenne e meraviglioso. Il mare, o piuttosto il largo fiume di ghiaccio, scendeva tra le montagne del massiccio, le cui aeree sommità si innalzavano su ogni insenatura. I picchi ghiacciati e scintillanti splendevano alla luce del sole, al di sopra delle nuvole. Il mio cuore, prima pieno di dolore, ora si gonfiò di qualcosa che somigliava alla gioia; esclamai: «Spiriti vaganti, se voi davvero vagate e non riposate nei vostri angusti letti, lasciatemi questa leggera felicità, o prendetemi con voi e strappatemi alle gioie della vita».

Appena ebbi pronunciato queste parole, improvvisamente apparve, a poca distanza, la figura di un uomo che avanzava verso di me a una velocità sovrumana. Saltava sui crepacci di ghiaccio sui quali io avevo camminato con cautela; la sua statura, man mano che si avvicinava, mi sembrò eccedere quella di un uomo. Ero turbato, una nebbia mi calò sugli occhi, e mi sentii mancare. Ma mi ripresi subito, grazie alla brezza gelida delle montagne. Mi accorsi, mentrela sagoma avanzava (visione esecrata e temuta) che era il mostro che io avevo creato. Rabbia e orrore mi facevano tremare; decisi di aspettare che si avvicinasse e poi di ingaggiare con lui una battaglia mortale. Si avvicinò: la sua espressione parlava di un’amara angoscia mista a sdegno e a malvagità, la sua bruttezza lo rendeva quasi troppo orribile per poterne sostenere la vista. Ma non mi ci soffermai a lungo; odio e rabbia all’inizio mi avevano lasciato senza voce; la recuperai solo per rovesciare su di lui parole di rancore e di disprezzo.
«Demonio», esclamai, «come osi avvicinarti? Non temi dunque la fiera vendetta del mio braccio levato sul tuo miserabile capo? Vattene, vile insetto! No, resta, che possa ridurti in polvere! Oh! Se potessi, spegnendo la tua miserabile esistenza, rendere la vita alle vittime dei tuoi feroci delitti!».
«Mi aspettavo quest’accoglienza», disse il demonio. «Tutti gli uomini detestano gli infelici; quanto, dunque, devo essere detestato io, il più infelice di tutti gli esseri viventi! Anche tu, mio creatore, detesti e disprezzi me, tua creatura, alla quale sei legato da un nodo che si può sciogliere solo con l’annientamento di uno dei due. Vuoi uccidermi. Come puoi giocare così con la vita? Fai il tuo dovere verso di me, e io farò il mio verso di te e il resto dell’umanità. Se accetterai le mie condizioni, lascerò loro e te in pace; ma se rifiuti, riempirò le fauci della morte finché non sarà sazia del sangue degli amici che ti restano».
«Mostro aborrito! Demonio che sei! Le torture infernali sono una lieve punizione per i tuoi crimini. Disgustoso demonio! Mi rimproveri per averti creato; vieni avanti, dunque, che io possa spegnere la scintilla che ho sconsideratamente acceso».
La mia rabbia era senza confini; mi buttai su di lui, animato da tutti i sentimenti che armano un essere umano contro un altro essere. Egli mi schivò facilmente e disse:
«Stai calmo! Ti prego di ascoltarmi prima di sfogare il tuo rancore sulla mia testa esecrata. Non ho sofferto abbastanza, perché tu voglia accrescere la mia pena? La vita, quand’anche dovesse essere solo un cumulo di affanni, mi è cara, e la difenderò. Ricordati, tu mi hai reso più forte di te; la mia statura è superiore alla tua, le mie membra più agili. Ma io non voglio lottare con te. Sono la tua creatura, e sarò docile e mansueto con il mio naturale signore e padrone, se anche tu farai la tua parte, com’è tuo dovere. Oh Frankenstein, non essere giusto con tutti mentre calpesti me solo, al quale dovresti giustizia, clemenza, e persino affetto. Ricorda che sono la tua creatura; dovrei essere il tuo Adamo, ma sono piuttosto l’angelo caduto, che tu escludi dalla gioia senza colpa alcuna da parte sua. Ovunque vedo beatitudine, e io ne sono irrevocabilmente escluso. Ero buono e benevolo; l’infelicità ha fatto di me un demonio. Rendimi felice e sarò di nuovo virtuoso».

«Vattene! Non ti ascolterò. Non può esserci alleanza tra me e te; siamo nemici. Vattene, o misuriamo la nostra forza in una lotta, nella quale uno dei due dovrà soccombere!».

«Come posso commuoverti? Nessuna preghiera ti farà volgere uno sguardo favorevole sulla tua creatura che implora la tua bontà e compassione? Credimi, Frankenstein, io ero buono, la mia anima bruciava di amore e umanità; ma non sono forse solo, disperatamente solo? Tu, il mio creatore, mi aborri; quale speranza posso dunque nutrire verso i tuoi simili, che non mi debbono nulla? Mi odiano e mi disprezzano. Le montagne deserte e i ghiacciai desolati sono il mio rifugio. Ho vagabondato qui per molti giorni; le caverne di ghiaccio, che io solo al mondo non temo, sono la mia dimora, l’unica che gli uomini non mi contendono. Questi cieli desolati io li ringrazio, perché sono più generosi con me dei tuoi simili. Se la moltitudine degli uomini conoscesse la mia esistenza, essi farebbero come fai tu, e si armerebbero per la mia distruzione. Non debbo detestare chi mi detesta? Non verrò a patti con i miei nemici. Sono un infelice, ed essi divideranno il mio destino. Eppure, tu solo hai il potere di aiutarmi e di liberarli da un male che soltanto tu puoi evitare di rendere tanto terribile da travolgere con il vortice della sua rabbia, oltre a te e alla tua famiglia, tanti e tanti altri.

Lasciati muovere a compassione e non disdegnarmi. Ascolta la mia storia; quando l’avrai ascoltata, abbandonami o abbi pietà di me, come giudicherai giusto. Ma ascoltami. Ai colpevoli è concesso, secondo le leggi umane, per quanto sanguinarie, di parlare in propria difesa, prima di essere condannati. Ascoltami! Tu mi accusi di omicidio, e allora vorresti, per tranquillizzare la tua coscienza, distruggere la tua creatura. Oh, sia resa grazia all’eterna giustizia dell’uomo! Ora non ti chiedo di risparmiarmi; ascoltami, e poi, se potrai e se vorrai, distruggi l’opera delle tue mani!».

«Perché mi richiami alla memoria», replicai, «circostanze delle quali rabbrividisco, se penso che io ne sono stato l’origine e l’autore? Maledetto il giorno, aborrito demonio, in cui tu per la prima volta vedesti la luce! Maledette le mani (anche se così maledico me stesso) che ti hanno dato forma! Mi hai reso infelice al di là di ogni immaginazione! Tu non mi hai lasciato nessuna possibilità di giudicare se sono giusto verso di te o no! Vattene! Toglimi dalla vista la tua detestabile forma».

«Così te la tolgo, mio creatore», disse, e mi mise sugli occhi le sue mani odiose, che scacciai con violenza; «così ti tolgo dagli occhi una vista che detesti. Ma tu devi ascoltarmi e concedermi la tua compassione. Te lo chiedo in ricordo della virtù che ho avuto, un tempo. Ascolta la mia storia. È lunga e straordinaria, e la temperatura di questo luogo non è adatta al tuo fisico delicato; vieni nel mio rifugio sulla montagna. Il sole è ancora alto nel cielo; prima che discenda per nascondersi dietro quei precipizi innevati e vada a illuminare un altro mondo, tu saprai la mia storia e potrai decidere. Dipende da te se io lascerò per sempre la vicinanza del genere umano e menerò una vita pura, o se diventerò la frusta del genere umano e l’autore della tua immediata rovina».

Come ebbe detto queste parole, mi aprì la strada attraverso i ghiacci; lo seguii. Il mio cuore era così afflitto che non potevo rispondere; mentre procedevo soppesavo i vari argomenti che aveva adoperato e presi la decisione di ascoltare, almeno, il suo racconto. Ero in parte mosso dalla curiosità, e la compassione confermava la mia decisione. Avevo sempre pensato che fosse lui l’assassino di mio fratello, e desideravo fortemente averne la conferma o la smentita. Inoltre, per la prima volta, capivo quali fossero i doveri di un creatore verso la sua creatura, e che io avrei dovuto renderlo felice prima di lamentarmi della sua crudeltà. Tutti questi motivi mi spinsero ad accogliere la sua richiesta. Attraversammo il ghiaccio e ci arrampicammo lungo la roccia di fronte a noi. L’aria era fredda, e la pioggia aveva ricominciato a cadere; entrammo nella capanna, quel demone con un’aria di esultanza, io con il cuore greve e lo spirito depresso. Ma acconsentii ad ascoltarlo, e appena mi fui seduto accanto al fuoco che il mio detestato compagno aveva acceso, egli cominciò così il suo racconto.

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